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Everything is lost

Un report su Ventimiglia di medici volontari tratto dal blog "Parole sul confine"

Ci rechiamo all’info-point Eufemia perché dobbiamo incontrare un’amica avvocata dell’ASGI con cui abbiamo in passato collaborato e i solidali del collettivo 20 K, per aggiornamenti vari. La mattina di sabato 13/01/18 Eufemia è, come al solito, pieno di gente. Cerchiamo di contare i cellulari in carica e saranno almeno 80.
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A. ci informa che il numero delle persone in viaggio si è ridotto dalla nostra ultima visita, ma è comunque alto rispetto al periodo invernale. Circa 150 nel campo della Croce Rossa, 150/200 al di fuori. Ci informano inoltre del gran numero di donne e bambini che dormono sulle rive del fiume e di come persista il loro rifiuto a recarsi presso il centro CRI, anche per una sola notte. Il passa parola tra i migranti informa infatti i nuovi arrivati della scarsa accessibilità del luogo. La strada per giungervi è lunga e pericolosa e del fatto che nonostante il freddo le persone dormano in tende dove le temperature sono basse, e che ci sono poche docce e in questo periodo solo con acqua fredda.

I compagni del gruppo 20k cercano al contempo, in questo periodo, per la grande affluenza di donne, di tenere aperto l’infopoint solo per loro due giorni a settimana, così da riuscire ad avere dei contatti diretti e passare del tempo insieme, dando loro, in qualche modo, la possibilità anche solo di lavarsi.

Passeremo un giorno e mezzo sotto il ponte con alcune/i compagne/i.
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Abbiamo già tentato di descrivere le condizioni di vita e di salute delle persone che abbiamo incontrato a Ventimiglia.

Questa volta vorremmo raccontare i cambiamenti che abbiamo osservato e che sono per noi più significativi.

Ci sono diversi insediamenti, che appaiono più stabili nella loro precarietà, mucchi di coperte hanno al di sopra dei teli blu come quelli che si mettono sotto le tende.

Giunti sul fiume dopo pochi passi quello che balza agli occhi è il gran numero di bambini, molto piccoli (1 o 2 anni) e giovani donne. Molti di loro si sono ammalati. Si tratta soprattutto di malattie dell’apparato respiratorio e gastroenterico.

Degli uomini sudanesi ed eritrei ci chiedono qualcosa che suona come: vedete questi bambini? Sono troppo piccoli. Qui fa troppo freddo per loro.

Ci sono alcune donne che hanno evidentemente delle patologie. Una di loro, magrissima e molto bassa, lamenta dolori addominali e stipsi. A nostro parere deve avere qualche problema di salute, ma da lungo tempo. La visitiamo in uno delle loro grandi “tende” di coperte e teli. Visitandola è chiaro che ci sia qualche disturbo addominale, da quando l’anno prima è stata sottoposta a un taglio cesareo. Le consigliamo di andare in ospedale per fare almeno delle analisi generali e magari un’ecografia. Più tardi prenderemo accordi con i compagni 20k che la accompagneranno al vicino pronto soccorso. All’uscita, il giorno dopo, ci diranno che le analisi erano negative, sembrava non esserci nulla di molto grave. La signora però all’ospedale si era molto agitata e voleva allontanarsi poiché pensava che gli uomini che viaggiavano con lei sarebbero potuti andare via per tentare di attraversare il confine, lasciandola indietro.

Ritornata al campo semplicemente affermava di non avere più nulla dei documenti rilasciati dall’ospedale. Le spieghiamo che, anche in assenza di alterazioni acute, ci sarebbero potuti essere d’aiuto per sapere se ci fossero delle problematiche pregresse. “Everything is lost”, ci dice, con aria scostante.

Tra gli uomini la scabbia è più diffusa del solito e il farmaco che abbiamo, grazie a chi ci sostiene a Genova, si esaurisce rapidamente, purtroppo quindi non possiamo trattare tutti, nonostante presso l’infopoint Eufemia ci siano ancora vestiti e coperte che potremmo usare per completare efficacemente la terapia.

È stato doloroso osservare come lo stato di abbandono abbia inoltre determinato diversi episodi di aspri contrasti tra le persone che vivono sul fiume.

Un ragazzo afgano ci racconta che mentre dormiva gli è stato rubato lo zaino con dentro tutto ciò che possedeva. Ci chiede se la polizia cercherebbe il colpevole se la chiamasse. Più tardi lo incontriamo che esplora tutta la riva del fiume. Poi una terza volta ci raggiunge molto agitato dicendoci di chiamare la polizia poiché aveva incontrato dei ragazzi sudanesi che stavano lavando i suoi asciugamani, probabilmente per riutilizzarli. Volevano da lui dei soldi in cambio di informazioni sul suo zaino. Dopo averli minacciati, era stato anche picchiato. Cerchiamo di parlare con tutti, nonostante la situazione sia molto tesa, ed evidentemente sappiamo che non otterremo neanche i documenti del ragazzo, contenuti nello zaino disperso.

Il secondo giorno visitiamo ancora molte persone. Sempre gli stessi problemi. C’è ancora qualcuno che, meno informato degli altri, non usa l’accesso di fortuna all’acqua potabile, beve l’acqua del fiume e ha di conseguenza infezioni intestinali. Ancora tanti casi di scabbia, bronchiti e febbri.

Molti bambini raffreddati per cui siamo costretti a dividere una compressa di tachipirina in otto parti, non essendo fin ora equipaggiati con farmaci pediatrici.
Veniamo ad un certo punto chiamati da un gruppo di ragazzi che ci indica: “doctor.. sudani… problem”… andiamo a vedere. Un ragazzo dalla provenienza incerta (gli eritrei e i sudanesi affermeranno poi che non è di nessuno dei due paesi) sembra abbia dato un forte colpo in testa a un giovane sudanese, che urla e ha copiose tracce di sangue sulla maglia. Anche lui grida: “andrò dalla polizia”. Cerchiamo di capire com’è la ferita, di medicarlo e pulirlo dal sangue come possiamo. Per fortuna la ferita non sembra molto profonda.

Alla fine riparliamo con i compagni del gruppo 20 k della necessità di rimettersi in contatto con la ASL per cercare di avere un contatto diretto e un sostegno terapeutico almeno per il problema della scabbia, poiché ovviamente, sarebbe assurdo e inutile affollare il pronto soccorso con decine di persone che hanno questa infezione.

Inoltre, ci troviamo d’accordo con i compagni con cui parliamo sul fatto che la presenza fisica e la condivisione negli spazi della città dove i migranti sono relegati sarebbe auspicabile se il numero delle persone solidali aumentasse e che ovviamente non basta l’arrivo a singhiozzo di sostegno ai pochi che si trovano già sul territorio.