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Ex Caserma Serena, Treviso: «Per Chaka, perché la sua morte non sia stata vana, perché la libertà è tutto!»

Ma di chi sono veramente le colpe di quanto accaduto?

Storia nota, quella della caserma Serena. Storia nota ma che è sempre bene ricordare. Siamo a Casier, nell’hinterland di Treviso, dove una ex caserma militare è stata trasformata in un hub, il più grande del Veneto, la cui gestione è stata assegnata all’azienda Nova Facility.

Allo scoppio della pandemia, vi si trovano accolti, o meglio ammassati all’interno della fatiscente struttura, poco più di 300 migranti richiedenti asilo. Con civile consapevolezza, gli ospiti della caserma accettano le rigide regole che la pandemia ha imposto a tutto il Paese. Più di trecento persone costrette a condividere gli stessi angusti spazi, gli stessi bagni, lo stesso refettorio.

Quello che sarebbe accaduto lo si poteva prevedere anche senza la sfera di cristallo.

Ed infatti, si innesca subito un focolaio interno. Non c’era nulla di cui stupirsi. Abbiamo avuti molti esempi, di questi tempi, di contagi avvenuti all’interno di RSA, ospedali, grandi fabbriche come l’Aia e l’Electrolux, e in tutti quei luoghi dove centinaia di persone sono costrette a condividere gli stessi spazi.

Bisognava intervenire prima

Bisognava tutelare gli ospiti che ogni giorno uscivano dalla struttura e si recavano a lavorare nelle fabbriche della provincia. Ma così non è stato. Nessuna misura di prevenzione è stata effettuata dall’ente gestore. Ed a innescare la miccia è stato proprio un operatore della Nova Facility. Un lavoratore, spinto dal timore di essere licenziato, ha ignorato i sintomi del Covid e, al rientro dal suo Paese d’origine, si è presentato al lavoro in barba a qualsiasi principio di precauzione e di un, pur obbligatorio per chi arrivava dall’estero, isolamento di 14 giorni.
E così, per i trecento e passa ospiti della struttura, scatta la quarantena. E scatta proprio proprio quando le loro vite avevano ripreso una quotidianità fatta di lavoro il giorno e di ritorno in caserma la sera. Con la quarantena, arriva anche la paura di essere contagiati e, soprattutto, la paura di perdere il posto di lavoro!

Sono giorni agitati. Tanti ospiti non capiscono il senso di questa ulteriore prigionia proprio nel momento in cui, per tutti gli italiani, crollano i divieti e scatta la folle estate del “tutti liberi”, che di “covviddi non ce n’è”.

Raccontano i migranti che nessuno, tantomeno i gestori della caserma, li avevano informati di quanto era avvenuto. Mentre tutto il Paese si liberava dalle sue paure, loro erano rigettati nell’incubo. Scattano così le proteste che tanto banco hanno tenuto nei giornali. I ragazzi semplicemente si sono ribellati ad una situazione insostenibile di prigionia e disprezzo delle minime norme di umanità.

Ma questo è solo il primo episodio. Nel giro di due mesi, i contagiati passano da 2 a 250. Già! Perché nessuno, in questo lasso di tempo, si è preoccupato di dividere i sani dai positivi. Scatta così a fine luglio un’altra quarantena e la caserma Serena viene additata come Il più grande focolaio estivo di coronavirus d’Italia. Gli ospiti vengono additati come untori non solo da una destra becera che, come sua consuetudine, cavalca l’odio ma anche da una “sinistra” che si rivela debole e addirittura ostile quando i migranti si ribellano.

Come era lecito attendersi, molti ospiti, appena gli è stato possibile, hanno cercano di rifarsi una vita in altri luoghi, rinunciando all’accoglienza e in qualche occasione anche al posto di lavoro, per evitare di dover subire ancora chiusure, e di fare da vittime alla paura e all’odio razzista.

Ma di chi sono veramente le colpe di quanto accaduto?

Della mala gestione al ribasso, a nostro avviso. Di un ente gestore che non ha saputo, o voluto, garantire sicurezza e dignità non soltanto per i suoi cosiddetti “ospiti”, ma anche per i suoi stessi lavoratori. La caserma Serena, altro non è che è un grande business sulla pelle di esseri umani. E parliamo per di più di esseri umani vulnerabili e in condizioni di difficoltà e di massima ricattabilità. La “missione” della Nova Facility è solo il business, proprio come noi abbiamo sempre e pubblicamente denunciato.

La caserma Serena altro non è che il prevedibile risultato dei decreti Salvini e dello smantellamento delle piccole strutture di accoglienza che mai come in questa fase di pandemia mondiale sarebbero state una garanzia di cura e di controllo dei contagi.

La caserma dopo questa emergenza si è progressivamente svuotata e la vita è ripresa per tutti ma la “giustizia” non ha mollato il colpo. Nei giorni delle proteste da più voci si è invocata una pena esemplare per i “facinorosi” che avevano osato protestare. La pena esemplare doveva servire ad educarli tutti, questi stranieri che “pretendono” risposte, che “pretendono” di essere trattati da essere umani, che chiedono di comunicare con il datore di lavoro per avvisare che non sarebbero ritornati al lavoro, che non volevano stare rinchiusi con i malati di virus senza sapere l’esito del proprio tampone.

Ma altri luoghi dove sistemarli non ce n’erano. Timidamente hanno provato a dividere i negativi dai positivi. Un provvedimento logico a tutti gli effetti, ma le proteste della destra cittadina hanno bloccato tutto.

Il 19 agosto, sono scattati gli arresti per quattro ragazzi. Una giustizia quantomeno frettolosa aveva deciso che dovevano fungere da capri espiatori. Le loro accuse sono pesantissime. Sequestro di persona devastazione e saccheggio. I quattro sono inizialmente incarcerati nel Santa Bona di Treviso, e poi separati e suddivisi in carceri diverse, ma sempre in regime di isolamento. Quel regime che in cui si relegano solo i criminali più pericolosi, perché l’isolamento, di norma, è finalizzato solo ad ostacolare le comunicazioni degli imputati con le loro organizzazioni criminali esterne. Ma i quattro ragazzi hanno 23, 26, 31, 35 anni ed il vero unico crimine, agli occhi di una società sempre più impaurita e incapace di leggere la realtà, è solo quello di essere stranieri, neri e arrivati con un barcone.

Passano i mesi, la vita procede e ci si dimentica di questo episodio e in tanti si sono dimenticati di quattro esseri umani che continuavano a rimanere in un tanto assurdo quanto ingiusto regime di isolamento. Chaka Ouattara, il più giovane di loro non ha retto a questa condizione. I primi giorni di novembre, da solo nella sua cella, si è impiccato.

Abbiamo parlato con chi aveva imparato a conoscerlo bene. Chaka lavorava da oltre un anno in una nota catena di panini e carne alla griglia. Parlava molte bene l’italiano, era pieno di vita e voglia di imparare. Aveva molti amici tra i suoi colleghi, gli piaceva la musica ed andare a ballare. Il carcere lo ha ucciso ma prima del carcere lo ha ucciso il grande hub, la caserma Serena, il luogo che doveva accoglierlo e che invece è diventato la sua tomba. Lo ha ucciso un sistema di accoglienza che non ha né logica, né pietà. Una morte questa di Chaka che ci riempie di tristezza e di rabbia. Una morte che ci ha dato la carica e l’indignazione per reagire di fronte all’indifferenza.

Con le imputazioni a carico dei migranti, per una persona “normale”, che ha una casa, sarebbe possibile essere scarcerati ed attendere il processo agli arresti domiciliari. Così non è stato per Chaka ed i suoi amici. Ma grazie all’intervento dell’avvocato Giuseppe Romano, grazie a delle persone che hanno capito la situazione e hanno deciso di accogliere uno dei ragazzi, grazie ai volontari e agli attivisti antirazzisti abbiamo costruito le condizioni necessarie alla scarcerazione di uno dei tre sopravvissuti. Da ieri, Abdou ha una nuova casa. Ora può parlare con delle persone amiche, può rivedere la sua bambina e la sua compagna sia pure solo su Skype (in prigione non gli era consentito neppure questo conforto). Abdou può ricominciare a sperare in una “giustizia” più giusta, e noi tutti lo aiuteremo e daremo battaglia in questo percorso.

Perché la morte di Chaka non sia stata vana, perché tutti hanno diritto ad una vita degna, perché la libertà è tutto quello che abbiamo!