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Famiglie siriane arrivate con il corridoio umanitario: tra ricordi di guerra e speranze

Elisa Carrara, Piuculture

Foto: Gabriele de Bonfils

La mattina l’agriturismo Casal Damiano, nel quale vivono da un mese e mezzo 22 siriani, arrivati in Italia attraverso il corridoio umanitario realizzato dalle Chiese evangeliche in collaborazione con la Comunità di Sant’Egidio, è stranamente silenzioso: i bambini, 8 in tutto, sono a scuola, gli altri, gli adulti, sono a lezione di italiano. La priorità ora è imparare bene la lingua. Torneranno tutti verso le 13:30 per pranzare insieme.

Solo due bambini sono rimasti a casa da una gita: il primo non parlava da un anno. A chi gli chiede quanti anni ha, tira su le maniche del maglione, mostra le mani, risponde in italiano di averne 8, e dimostra a tutti di conoscere bene anche i numeri successivi, al punto da contare fino a venti. Scrolla le spalle: è una domanda un po’ sciocca, ma ha deciso di accontentare chi gliel’ha fatta. Orgoglioso di aver dato la risposta giusta e di aver dimostrato a tutti che i numeri possono essere molti di più di quelli della sua età, si rimette a disegnare, l’attività che gli piace di più. Disegna un fiume e una cuccia per cani, perché, come precisa, il cane non può entrare in casa, ma deve stare fuori in una casa tutta sua. Una lezione rigorosa che ha imparato dai suoi genitori e da tutta la sua cultura. Ha ripreso il lato artistico dal padre, intagliatore di legno ad Aleppo, e la disinvoltura con i numeri dalla mamma, laureata in economia e insegnante di matematica. Ora questa piccola famiglia di cristiani, abita in una delle stanze dell’agriturismo. Ogni nucleo familiare in una stanza, con bagno e una tv, che per ora trasmette solo canali italiani.

Fuori ci sono la campagna, tre cani, struzzi, capre e molti altri animali; un giardino con l’altalena dove i bambini dopo pranzo giocano a pallone e, dove anche gli uomini organizzano qualche incontro insieme agli operatori. Compreso Diya, il bambino che cinque anni fa, proprio durante una partita aveva perso la gamba e che ora potrà andare alla scuola calcio insieme agli altri. E’ lui la piccola stella della comunità: di lui e della sua storia si è parlato molto, ma gli basta entrare nella sala da pranzo di ritorno da scuola, per illuminare gli sguardi di tutti, operatori, e non. Viene da una famiglia di pasticceri di Homs: per loro il lavoro era tutto, racconta il papà, fino a quando la rivoluzione in Siria li ha costretti ad andare prima a Damasco per 4 mesi e poi in Libano per tre anni. “In Siria la paura impedisce al popolo di parlare” dice “voglio che i miei figli continuino a studiare”.

Foto: Gabriele de Bonfils
Foto: Gabriele de Bonfils

Un altro bambino disegna una casa: il tetto, la finestra, la porta, le nuvole. Tutto con la mano sinistra, perché la destra è fasciata, si è fatto male giocando. Lui della sua casa in Siria ricorda ogni dettaglio, ci spiega il papà, “perché i bambini memorizzano ogni cosa, molto più degli adulti”. Questa famiglia composta da madre, padre e tre figli di 8, 5 e 4 anni, è fuggita in Libano, e ha vissuto in un campo: “in Libano non eravamo al sicuro, non eravamo felici, c’era la povertà, ma non la guerra”. “Sono preoccupato per i miei bambini”, ammette, la guerra e i continui spostamenti negli anni hanno lasciato su di loro tracce evidenti: “qui si sta bene ma già cambiare il proprio letto è difficile. Ogni cambiamento ha il suo costo”. E poi la guerra di cui ricorda ogni dettaglio, pur essendo un adulto: un’esplosione nella casa accanto ha fatto volare la porta della stanza dei bambini.

Da quel momento uno dei suoi figli ha smesso di parlare: bastava un rumore improvviso e si andava a rifugiare in bagno, il posto più sicuro della casa. “Anche adesso è sufficiente che una porta si chiuda e torna la paura dei bombardamenti. In Libano stava male, non voleva uscire: dopo un anno ha ricominciato a parlare, ma tutto ciò che faceva era ripetere le domande che gli venivano dette”. I suoi bambini ora sono in giardino con gli altri, a giocare, litigare e poi riappacificarsi: “quello che vorrebbero è la playstation e un computer”, dice sorridendo.Finché non hai dei figli non capisci quanto ti hanno voluto bene i tuoi genitori, e con orgoglio mostra le foto della sua famiglia sul cellulare, sono rimasti in Libano, li sente ogni pomeriggio. Tutti i venerdì va alla moschea e spera che i famigliari possano raggiungerlo in Italia.

(13 aprile 2016)