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#FragileMosaico – Dentro Sabra e Chatila. Tra dedali di strade, diritti negati e tanta voglia di tornare in Palestina

Racconti dal viaggio della campagna overthefortress in Libano

Foto di Gloria Chillotti

BeirutNon c’è una pietra, in tutti i muri della città, che commemori Sabra e Chatila. Sono tanti, coloro che incroci su queste strade, a dirti che il massacro non è mai accaduto. Altri sostengono che i profughi palestinesi se lo sono meritato. Altri ancora cavillano sulle cifre. Le donne e i bambini ammazzati sarebbero “solo” 800. Al massimo un migliaio, ma non certo più di 3.500 come sostengono i palestinesi e gli osservatori internazionali. Ed anche quelle testimonianza dirette che anche Wikipedia riporta sotto la scritta “Alcuni dei contenuti riportati potrebbero urtare la sensibilità di chi legge” sarebbero tutte bugie.
Di sicuro, l’eccidio perpetrato delle milizie falangiste cristiane nel settembre del 1982 con la complicità dell’esercito israeliano, non ha intaccato quei muri che ancora dividono Beirut tra quartieri sciiti, drusi, armeni, maroniti o sunniti.
Nessuno ha pagato per quell’orrore. Nessun processo di pacificazione nazionale o di rielaborazione del dolore dei sopravvissuti è stato avviato. I volti dei mandanti di quella strage continuano a guardare Beirut con i loro sorrisi bonari, dai grandi manifesti elettorali che ancora penzolano pesantemente dagli alti palazzi.

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Oggi, Sabra è solo il nome di una strada. Chatila invece è ancora il quartiere palestinese della città. Lo chiamano “campo” ma è tutto tranne che un campo. Ci si entra dal suk, il tradizionale mercato arabo che sempre profuma di spezie e di frutta, situato alla periferia di Beirut sud. Non ci sono porte o indicazioni. I profughi palestinesi, per il Governo di Beirut, non esistono anche se sono 70 anni che sono stati sbattuti in quelle strade. Eppure, non ti serve la toponomastica per capire che sei entrato a Chabra perché, attorno a te, in pochi passi, tutto è cambiato. Anche la luce che fa fatica a filtrare tra le strettissime stradine coperte da vere e proprie tettoie di fili elettrici impazziti. Chabra è un dedalo di calli che neanche Venezia se lo sogna. Un labirinto talmente aggrovigliato che se non ci sei nato e ti ci azzardi ad entrare, non ne esci più. Eppure è piccola Chabra. Appena un chilometro quadrato o poco più. Gli edifici sono cresciuti tutti in altezza, uno sopra l’altro, e pigiati come nei bus dell’ora di punta, per ospitare tutta quella gente che non esiste.

«Per il Libano noi non esistiamo – spiega Kassem Aina – direttore di Beit Atfal Assumound, associazione palestinese che si occupa di educazione -. Non possiamo lavorare regolarmente, non possiamo neppure possedere qualcosa, come un’auto o una abitazione. Siamo gente senza diritti. Gente indesiderata. Gente non può neppure fare ritorno nella terra dove è nata. Gente che in questi vicoli bui non perde la speranza di tornare, un giorno, a rivedere il sole delle Palestina».

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Beit Atfal è una delle poche associazioni di sostegno ai diritti palestinesi fondate dagli stessi palestinesi. Ha una sede proprio dentro il campo di Chabra e si sostiene grazie alle offerte provenienti da alcune associazioni per i diritti umani norvegesi, giapponesi e tedesche. I suoi locali si inerpicano in altezza, come fanno tutte le case di Chabra, e ad ogni piano corrisponde una attività: il dentista, la scuola di inglese e quella di arabo, l’asilo, il doposcuola e altro ancora. «Qui svolgiamo tante attività – mi racconta Giulia di Torino, una dei tre giovani italiani impegnati con Beit Atfal – oltre che l’asilo che ospita una ottantina di bambine e bambini, facciamo corsi di alfabetizzazione per le donne ed anche per gli uomini, insegniamo le lingue, facciamo attività fisica in una piccola palestra. Nei nostri spazi ruotano pressapoco 200 persone al giorno. Palestinesi soprattutto, ma anche siriani, i nuovi profughi di guerra che, abbandonati da mondo, potevano trovare ospitalità solo qua, tra la gente dimenticata di cui nessuno si cura».

Non c’è legge a Chabra. Qui nemmeno la polizia entra. Non tanto per una questione di autonomia, quanto perché, semplicemente, di quanto accade dentro il campo, non gliene può importare di meno. Le circa 25 mila persone senza diritti che vivono in quei vicoli si governano tramite un Comitato Popolare e un Comitato per la Sicurezza. Il primo è composto dai portavoce dei vari partiti palestinesi ed ha tutti i compiti amministrativi. Il secondo si occupa dei crimini che vengono commessi all’interno del campo. Il colpevole, mi spiega Kassem Aina, viene portato fuori da dal campo e consegnato alla polizia libanese. Ma anche questo è un servizio che si paga. Proprio come l’immondizia, che gli abitanti di Chabra raccolgono da soli una volta alla settimana per portarla nelle discariche di Beirut. O come l’elettricità, che qui viene erogata per poche ore al giorno, staccata senza preavviso e costa molto, molto di più che nei quartieri eleganti della città.

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«Nessuno di noi vorrebbe vivere qui – conclude Kassem Aina -. Vorremmo tornare in quella terra da cui siamo stati cacciati. Oramai solo i più anziani tra noi, mantengono vivi i ricordi. I più giovani non possono conoscere quello che abbiamo vissuto noi. Per questo è importante mantenere viva la memoria. Ed è proprio questo lo scopo principale di Beit Atfal. Educare i bambini palestinesi a desiderare la libertà. Insegnare loro che la religione non può essere trasformata in una nazionalità e che quello che hanno creato in Israele è un ebraismo artificiale che è stato usato come arma per cacciarci dalle terre in cui vivevamo. Noi non siamo contro gli ebrei ma contro i sionisti che vogliono tutto per loro. Ci hanno rubato tutto, anche i diritti, solo la memoria non ci possono portar via. Ed è questa l’unica arma che abbiamo per combattere un doppio nemico: quelli che hanno occupato militarmente la nostra terra e l’integralismo che, senza educazione e nelle condizioni in cui ci tocca vivere, ha gioco fin troppo facile per insinuarsi nelle menti più deboli ed impreparate».

Riccardo Bottazzo

Sono un giornalista professionista.
La mia formazione scientifica mi ha portato a occuparmi di ambiente e, da qui, a questioni sociali che alle devastazioni dei territori sono intrinsecamente legate. Ho pubblicato una decina di libri tra i quali “Le isole dei sogni impossibili”, edito da Il Frangente, sulle micronazioni dei mari, e “Disarmati”, edito da Altreconomia, che racconta le vice de dei Paesi che hanno rinunciato alle forze armate. Attualmente collaboro a varie testate cartacee e online come Il Manifesto, Global Project, FrontiereNews e altro.
Per Melting Pot curo la  rubrica Voci dal Sud.