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#FragileMosaico – L’oro della Bekaa

Racconti dal viaggio della campagna overthefortress in Libano

Fotografie di Gloria Chillotti

È mattino presto e il sole è già alto.
Le elezioni, i caroselli che le hanno precedute e le schermaglie che le hanno seguite sono ormai passato.
Pare che a vincere siano stati gli astenuti, il partito Futuro di Hariri perdente, il blocco Hezbollah-Amal ha guadagnato consenso, alcune scaramucce tra sunniti e sciiti in città e una “poetessa ribelle” derubata di qualche seggio da oscure trame politiche.
Le orecchie cominciano a fischiare per l’altitudine, ci stiamo addentrando proprio in una delle roccaforti sciite del paese, si nota dalle bandiere, stendardi e mausolei gialloverdi che ornano la strada nella vallata della Beeka.

Il paesaggio scorre lungo i finestrini, oltre alle case, alle insegne elettorali, alle cassette di frutta e verdura esposte, ai pick-up di marche coreane e americane padroni della strada, i fotogrammi mostrano estese porzioni di terreni occupate da baracche, autentici prodigi di architettura dell’autosostentamento, ed evocano scenari post apocalittici.

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Ma come le case dei libanesi nel centro di Beirut che da fuori ricordano i palazzi crivellati della periferia di Sarajevo, e all’interno nascondono appartamenti eleganti, ricchi di specchi, quadri e cornici, così anche le baracche dei profughi siriani, apparentemente dei semplici ammassi di detriti, al loro interno svelano corridoi, ariosi “salotti”, tappetini e moquette morbidi e accoglienti come la dignità di una persona.

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Qua e là, tra le abitazioni e i panni stesi capeggiano loghi sbiaditi dell’UNHCR, come reliquie di guerre atomiche lontane.
Li chiamano insediamenti informali e proprio secondo i dati raccolti dall’agenzia per i rifugiati circa 360.000 persone trovano alloggio in quest’area, a pochi chilometri da Damasco, oltre quei monti laggiù.
Il Libano non aderisce alla Convenzione di Ginevra del 1951 sullo statuto dei rifugiati e allo stesso tempo risulta essere il paese con il più alto numero di rifugiati pro capite al mondo.
La maggior parte di questi hanno nazionalità siriana.

Ci addentriamo in una zona poco urbanizzata, dominata da appezzamenti di tabacco e patate.
Molte persone, soprattutto donne, lavorano per 7 euro al giorno nei campi di quelli che molto spesso sono anche i proprietari dei terreni dove sorgono le abitazioni dei profughi stessi.

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Veniamo accolti da un paio di ragazzi, che notiamo essere un punto di riferimento anche per le altre persone presenti.
Occupano la tenda più grande e sono loro che ci accompagnano all’interno del campo, mentre i bambini attorno a noi cominciano a moltiplicarsi.
Ci raccontano che altre ONG sono state lí e che li hanno aiutati nella costruzione delle baracche, ma che gli allacci, sia elettrici che idraulici, sono stati fabbricati da loro.
Ciò che si creano molto spesso sono dei rapporti economico-sociali tra chi arriva e chi abita qui, totalmente in nero, non alla pari.
Sono zone molto povere, abitate da famiglie estese dedite di solito alla pastorizia e all’agricoltura, le quali hanno subito immensi disagi dovuti alla marea di persone che si sono dislocate in quest’area, in fuga dalla Siria in fiamme.
Alcune di esse però hanno anche avuto inaspettati vantaggi economici provocati da questa nuova presenza.

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“Prima coltivavo patate e tabacco, ora coltivo Siriani”, è stato il commento di un membro di una di queste famiglie, conosciuto più a nord.
Il profugo, il rifugiato, l’esule, sembra da pazzi pensarlo, eppure è una fonte di reddito.
Sono isolati nel loro mondo di speranze, sono lavoratori sfruttati, pagano l’affitto del suolo su cui costruiscono le baracche in cui vivono, fatte di materiali spesso acquistati o recuperati da loro stessi.
Vengono costruite molto vicine l’una all’altra per occupare meno spazio possibile.

L’occupazione del suolo costa almeno 50$ dollari al mese e la tenda non è di proprietà, e se una famiglia per qualsiasi motivo fosse costretta ad andarsene, la tenda verrebbe venduta ad un’altra famiglia (di solito per una cifra attorno ai 100$ dollari) che comunque poi sarebbe tenuta a continuare a pagare l’affitto e tutte le altre utenze.
Elettricità, acqua (non potabile) e addirittura in certi casi anche l’immondizia sono infatti tutte utenze che chi abita queste tendopoli deve pagare alle varie municipalità libanesi.
Senza però avere il diritto di voto.

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Oltre a tutto ciò le famiglie libanesi “ospitanti” spesso pretendono che le famiglie siriane usufruiscano dei servizi messi a disposizione dalla famiglia stessa: se devono comprare da mangiare lo devono fare nei negozi dei loro familiari, se hanno bisogno di spostarsi lo devono fare utilizzando i mezzi della famiglia, pagando ovviamente.
E sempre accordi non scritti determinano che qualora arrivino degli “aiuti” di qualunque tipo (alimenti, materassi, coperte, utensili vari) per i rifugiati, la famiglia ospitante se ne prenda una percentuale, una specie di tassa.
Non esistono regole scritte, sono tutti accordi informali, che si sostituiscono ormai da anni a una totale mancanza di istituzioni nel territorio.
L’assenza di un effettivo riconoscimento e controllo di tali insediamenti da parte delle autorità libanesi ha favorito l’emergere di fenomeni di sfruttamento ai danni delle comunità di profughi siriani che li abitano.

I libanesi dalla loro prospettiva hanno avuto anni fa la tragica esperienza della presenza di profughi palestinesi sul proprio territorio, la quale – ci dicono – “ha generato enormi spargimenti di sangue, tra massacri, attentati e guerre civili“.
Da parte della comunità c’è dunque tutto l’interesse a non rendere “stabile” e “duratura” la presenza dei profughi di uno stato che tra l’altro ha sempre rappresentato “una specie di cugino maggiore con il quale non vai molto d’accordo perché è sempre stato più grosso e ha fatto sempre il bullo con te”, così come lo ha descritto in un’intervista un ragazzo cresciuto nel sud, altra roccaforte Hezbollah.

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Sono tanti gli elementi che giocano in uno spazio così piccolo come il Libano, e anche i siriani si ritrovano a essere anche un sassolino all’interno di questo fragile mosaico, con la loro storia, e il loro senso di appartenenza religioso e politico, davvero importante in un contesto dove non sembra possibile prescindere da una loro fusione.
E anche se avessi potuto votare? Non avrei certo votato, a nessuno importava nulla di noi prima delle elezioni e a nessuno importerà di noi nemmeno ora che sono finite“. Questo il commento di un padre di famiglia conosciuto tra le baracche di un altro complesso in una zona vicina alla superstrada, dove le condizioni igieniche sono disastrose.
Lo spazio dove alloggiano le baracche è diviso in due parti da un fiume acquitrinoso, pieno di alghe e sacchetti dell’immondizia.
È di Raqqa, faceva l’agricoltore e l’allevatore, vive in Libano da 5 anni:
Stiamo aspettando, ma ancora abbiamo paura di tornare in Siria“.

La presenza di siriani in questi sei anni è solo leggermente diminuita (senza contare le estreme difficoltà riscontrate da parte dell’UNHCR nel rilevare il numero esatto delle presenze non registrate, alle quali contribuiscono anche le numerosissime nascite nelle varie comunità). La guerra in Siria non è terminata, le testimonianze di Afrin e della zona di Ghouta adiacente a Damasco ne sono drammatiche testimonianze.
Spesso le centinaia di migliaia di persone sfollate, non sono nemmeno state direttamente coinvolte nel conflitto, sono fuggite appena hanno visto la guerra.
Sono scappate per non essere arruolati né da una parte né dall’altra, per cercare di evitare di uccidere ed essere uccisi.

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Mentre usciamo dall’ultima tenda, nell’oscurità più totale, nel tanfo di una palude, leggiamo notizie di missili sulle alture del Golan, “bisticci” pericolosi tra iraniani e israeliani.
Sembra la più chiara e terribile risposta alle nostre continue domande ripetute in giro per la Valle della Bekaa: “Perchè continui a vivere qui? A queste condizioni? Perchè non torni in Siria?

* Fotografie di Gloria Chillotti

Raffaello Rossini

Antropologo e registra dei documentari "La Merce Siamo Noi", "Across" e "You//Spring" prodotti in collaborazione con Borders of Borders e Pettirouge Prod.