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#FragileMosaico – Le donne dell’Union Domestic Workers: dallo sfruttamento alla lotta per i diritti

Racconti dal viaggio della campagna overthefortress in Libano

Foto di Gloria Chillotti

Beirut – Tutto quello che non hanno saputo fare gli uomini. Alla sfilata del Primo Maggio, spiccavano come un fiordaliso in mezzo ad un campo di papaveri. Tutte raggruppate al centro del corteo, dietro ad uno striscione che reclamava diritti per le donne, con addosso una maglietta bianca con la scritta “Union of Domestic Workers in Lebanon”, unione delle lavoratrici domestiche nel Libano.

“Unione” e non “sindacato” perché il Governo non ha ancora concesso loro nessun riconoscimento formale. Quando ti passavano vicino cantando, sorridevano, e gridavano il nome del loro Paese di provenienza: Bangladesh, Etiopia, Filippine, Sri Lanka, Nepal, Madagascar…
Là per la, non ci ho fatto neppure tanto caso, lo ammetto. Poi, un signore tutto rossovestito, con la stella rossa in fronte, la bandiera con la falce ed il martello cucita sopra il cedro del Libano, e una maglietta con la foto del Che mi ha spiegato in un inglese oxfordiano che tutta l’organizzazione della sfilata è merito loro. Tutto merito di queste donne.

In Libano, il primo maggio lo festeggiano solo i comunisti – mi ha detto. «I comunisti come me» ha aggiunto. Sì, lo avevo intuito, gli ho risposto. Il partito comunista, ed i sindacati che gli fanno riferimento, però, dopo la guerra civile, si sono ridotti a percentuali omeopatiche. «Sono state loro, le compagne dell’Union of Domestic Workers a spingere perché fosse mantenuta la tradizione del corteo e della mobilitazione popolare del Primo Maggio».
E meno male che non le avete neppure fatte salire nel palco, ho pensato tra me e me, ricordando quello che mi hanno sempre detto le zapatiste del Chiapas: una donna deve saper fare due rivoluzioni una contro il capitale e una contro il patriarcato e il machismo che domina anche tra i compagni.

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«L’Union nasce formalmente tre anni fa – mi spiega Rossana Tufaro, una giovane dottoranda dell’Università Ca’ Foscari, che dal 2012 vive a Beirut occupandosi di tematiche legate la lavoro – anche se da almeno cinque anni queste donne lottano per un riconoscimento formale anche solo associativo. Riconoscimento che il Governo non ha più potuto negare quando, in una sola settimana, si è verificata una serie di episodi così terrificanti che che non poteva più essere fatta passare sotto silenzio. Una sequenza di abusi talmente eclatanti che sono finiti sui giornali: una ragazza si è buttata dal balcone per scampare dalle botte che il padrone le dava, suicidi per disperazione e video di domestiche brutalmente picchiate per strada che sono stati spammati sui social. Tutto questo divenne di dominio pubblico e fece esplodere, di punto in bianco, il caso dello sfruttamento delle lavoratrici domestiche».

Come funzioni lo sfruttamento, me lo spiega bene Rossana. Le donne vengono contattate da agenzie specializzate nei loro Paesi e entrano in Libano grazie ad un regime che viene chiamato “kafala“. Oggi sono oltre 250 mila. La lavoratrice può fare riferimento solo al datore di lavoro che le ha chiamate, che garantisce per loro con lo Stato e che risulta, in questo modo, “proprietario” dei suoi diritti.

«Molti chiedono il passaporto e la ragazza è obbligata a consegnarglielo – racconta Rossana -. Stipendio, diritti, possibilità di rimanere o di far ritorno in patria, anche qualche ora di libera uscita, sono appannaggio esclusivo del datore di lavoro. E se questa non è schiavitù, ditemi voi cosa è. Basta che il padrone si incazzi e bruci o strappi il passaporto che la ragazza finisce dritta in galera per immigrazione clandestina».

Inutile far presente che, dietro le mura domestiche, queste ragazze devono subire di tutto; percosse, umiliazioni, violenze e anche stupri. «Denunciare il padrone è impossibile. In tribunale c’è la sua parola contro la tua. E poi ti trovi immediatamente senza vitto, senza alloggio e senza documenti. Non passa settimana che l’Union registra episodi di violenze contro queste lavoratrici. Solo tre giorni fa una ragazza di 18 anni si è buttata, o è stata buttata, fuori della finestre dopo essere stata picchiata selvaggiamente. Guadagnava 82 dollari al mese e li spediva tutti alla sua famiglia. Adesso è all’ospedale con tutte le ossa rotte».

Cosa fa l’Union in questi casi?
«Può fare ben poco, purtroppo. Il suo ruolo è quello di organizzare corsi di auto formazione o iniziative pubbliche come la sfilata del Primo Maggio ma può anche farsi sentire sui giornali. E questo ha cambiato qualche cose. Ora i giornalisti bussano alla porta dei padroni e questi sono obbligati a giustificarsi dicendo ‘Le volevamo tutti bene… ‘Lo facevamo per educarla…’ ‘Era come una della famiglia…’ e cose così».

Discorsi da vomito, insomma.
«A chi lo dici? Ma tieni presente che questo dà molto fastidio ai padroni perché vengono messi in piazza gli affari personali, e non troppo puliti, della famiglia. Per di più, si tratta di gente che ci tiene a farsi vedere come modelli di virtù. Le denunce e la paura di scandali sono riusciti, non dico a portare giustizia, certo, ma a mettere qualche pezza qua e là. Perlomeno, ora la questione dello sfruttamento dei lavoratori in kefala è un problema sociale riconosciuto. E d’altra parte cosa dovrebbero fare in più queste ragazze? Non possono mica organizzare uno sciopero!».

Mi domando come siano riuscite anche solo ad organizzarsi in un quasi sindacato.
«E’ quello che anche io ho chiesto a loro. Mi hanno risposto che si trovavano alle funzioni religiose, capita che il padrone permetta loro di assentarsi per un’ora alla settimana a questo scopo, oppure quando facevano la spesa, o anche negli internet point dove vanno per spedire i soldi che guadagnano a casa o a ricaricare il telefonino per parlare con i familiari lontani. Ci sono anche alcune donne che sono riuscite a sopravvivere e ad affrancarsi dal regime della kapala ed ora lottano per organizzare le ragazze che ci sono ancora dentro. In qualche rarissimo caso, ci sono anche dei padroni buoni che…».

Non ci sono padroni buo…
«Dai, non mi fare la comunista adesso, eh? Piantala con le frasi fatte e fammi finire. Ci sono anche padroni che hanno rispettato queste ragazze e che le hanno aiutate ad affrancarsi. Queste donne ora sono in prima linea nell’organizzazione del quasi sindacato, come lo hai definito tu. Bisogna anche ricordare che inizialmente sono state aiutate dal Fenasol che è il sindacato legato al partito comunista. Il loro segretario che ha un nome che è già un programma, Castro Abdallah (i suoi genitori lo hanno chiamato così in onore a Fidel), ha dato loro i primi strumenti per organizzarsi. Queste donne però, hanno sempre voluto mantenere la loro autonomia».

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Resta il fatto che queste donne, atomizzate in miriadi di case, sfruttate, imprigionate, ricattate, picchiate, violentate, lontane da casa e senza un soldo in tasca hanno saputo organizzarsi dal basso superando tutte quelle barriere di religione, provenienza, cultura, territorialità, colore della pelle che per tanti uomini sono muri invalicabili.

«Proprio così. E hai dimenticato la barriera linguistica. Una nepalese non parla come una etiope. Eppure sono riuscite a capirsi. Ma la cosa più stupefacente è che soltanto loro, tra tutti i lavoratori in regime di kafala, sono riuscite ad auto organizzarsi! Per farti un esempio, la gestione dei rifiuti a Beirut è demandata ad una società che assume praticamente solo lavoratori in kafala. Per la stragrande maggioranza sono tutti bangalesi. Parlano la stessa lingua, hanno la stessa provenienza, lavorano insieme tutti i giorni, non sono sfruttati di meno delle lavoratrici domestiche eppure di organizzarsi in un sindacato non ci hanno mai provato».
Come dire che hanno ragione le zapatiste. «Già. La rivoluzione, o la fanno le donne o non la fa nessuno».

Riccardo Bottazzo

Sono un giornalista professionista.
La mia formazione scientifica mi ha portato a occuparmi di ambiente e, da qui, a questioni sociali che alle devastazioni dei territori sono intrinsecamente legate. Ho pubblicato una decina di libri tra i quali “Le isole dei sogni impossibili”, edito da Il Frangente, sulle micronazioni dei mari, e “Disarmati”, edito da Altreconomia, che racconta le vice de dei Paesi che hanno rinunciato alle forze armate. Attualmente collaboro a varie testate cartacee e online come Il Manifesto, Global Project, FrontiereNews e altro.
Per Melting Pot curo la  rubrica Voci dal Sud.