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Francia – Rifugiati: rimpatri forzati, la violenza invisibile

Maïa Courtois, Politis - 23 maggio 2017

Va a Venezia?” Con la valigia in mano, al banco del check-in, il viaggiatore guarda da dietro le lenti degli occhiali la giovane donna che gli ha appena rivolto la parola.

Julie è arrivata all’aeroporto di Roissy alle 7 e 30, con un gruppo di circa dieci persone. Con i caffè in una mano e i volantini nell’altra cercano i passeggeri del volo Air France delle 9 e 40. Adesso che ne ha trovato uno, Julie lo incalza con voce dolce, fissando negli occhi il suo interlocutore: “La polizia vuole costringere un rifugiato a salire sul vostro aereo. Si chiama Mohammed, è un nostro amico che viene dal Darfur. Vogliono espellerlo e mandarlo in Italia, poi non si sa cosa ne sarà di lui. Possono rimpatriarlo in Sudan, dove rischia la morte. Noi non possiamo salire sull’aereo, ma lei può rifiutarsi di essere complice.” L’uomo l’ascolta attentamente, annuisce, prende un volantino ma se ne va senza promettere nulla.

Mohammed non vede quel che fanno i suoi sostenitori nella hall dell’aeroporto. È in contatto soltanto con uno di loro, Mario, suo amico e insegnante di francese dell’associazione Welcome Nanterre. “Mohammed è ancora nell’aerea d’attesa… lui aspetta e noi aspettiamo con lui“, sospira Mario. Il giorno prima, all’una del mattino, il volontario stava ancora inviando delle email ad alcune associazioni in Italia, per risolvere la situazione di totale incertezza che potrebbe verificarsi al suo arrivo. “Sarà una roulette russa in Italia, potrebbe essere portato in un centro di permanenza temporanea con un biglietto per Khartoum” afferma con rabbia una delle sue colleghe.

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Dietro i bei sorrisi al termine di ogni sua frase, Mario nasconde una grande stanchezza. Mohammed è arrivato in Francia ad agosto 2016 e da novembre è entrato a far parte della sua associazione. Era tra gli studenti più motivati: in pochi mesi ha raggiunto il livello A2, tanto da poter sostenere una conversazione in francese e sperare d’iscriversi all’università nel giro di un anno.

Questa storia mi tormenta, sono esausto“, mi confidava Mario all’inizio della settimana, in una classe dell’associazione Nanterre dove i sostenitori si erano riuniti per organizzare l’azione all’aeroporto. “Ancora una volta i legami si spezzano...”.

Mohammed ha un fratello minore che vive in Francia, rinchiuso in un centro di permanenza temporanea, come suo fratello maggiore fino a stamattina. Mario si ricorda: “Tre settimane fa durante una precedente riunione un migrante si è alzato e ha chiesto: Cosa ha fatto di male Mohammed per essere rinchiuso? Cosa potevo rispondergli?“.

Ma quella mattina Mohammed non è salito sull’aereo. È la prima volta che tentano di espellerlo, generalmente il primo rifiuto è tollerato. Dal centro di permanenza temporanea di Mesnil-Amelot dove la polizia l’ha ricondotto, racconta: “Ho detto ai poliziotti che non sarei andato da nessuna parte. Mi hanno minacciato dicendomi: la prossima volta ti conviene stare attento perché ci salirai, su quell’aereo“. Al secondo tentativo spesso la polizia ricorre alla forza.

Le violenze della polizia, lontano dagli sguardi

La stessa sera presso la Camera del lavoro si tiene una assemblea pubblica contro le espulsioni forzate. Farhad prende la parola davanti a una sala stracolma, che ascolta in silenzio la sua testimonianza. Dopo essersi visto rifiutare la domanda di asilo in Francia, lo Stato ha stabilito che il giovane uomo fosse rimpatriato in Afghanistan passando per la Norvegia con un biglietto di sola andata. Farhad ha lasciato il suo Paese sotto minaccia dei talebani, perché lavorava come traduttore per una commissione incaricata dalle Nazioni Unite e dall’Unione europea di organizzare libere elezioni.

La prima volta arrivato in aeroporto, come Mohammed, ha rifiutato di imbarcarsi.
La seconda volta la polizia gli ha legato mani e piedi. “In aereo ho detto ai poliziotti: preferisco morire qui, piuttosto che tornare in Norvegia. Ho chiesto ai passeggeri di aiutarmi. I poliziotti mi hanno messo un casco sulla testa ripetendomi di stare zitto. Uno dei due mi ha messo un braccio attorno al collo, non riuscivo più a respirare e mi hanno dato un pugno nello stomaco“. Due donne hanno cominciato a protestare. Il pilota, allertato, è intervenuto e si è rifiutato di essere complice. “Scendendo dall’aereo avevo la gola secca e ho chiesto da bere. Il poliziotto, appena salito in macchina, mi ha detto che non mi meritavo la bottiglia d’acqua, perché non ero partito. L’ha svuotata davanti ai miei occhi“. Contemporaneamente un altro poliziotto, sempre al riparo dagli sguardi, premeva il braccio sulla sua spalla: “Gli ho chiesto di toglierlo perché mi faceva male e mi ha tirato dei pugni“. Farhad ha sporto denuncia avvalendosi di un certificato medico ma non ha ottenuto nessun risultato.

I poliziotti se ne infischiano di noi perché non sanno chi siamo, non conoscono le nostre storie” pensa Mohammed. In Italia può essere espulso sulla base del trattato di Dublino, che obbliga i profughi a presentare domanda di asilo nel primo Paese dove hanno rilasciato le impronte digitali. Soltanto che il rilevamento delle impronte è alla mercé dell’arbitrio della polizia. Mohammed ricorda: “Non avevo scelta. Sono stato portato dentro il commissariato, ero circondato da molti poliziotti e non sarei potuto scappare. Pochi ci riescono. Se ti rifiuti di rilasciare le impronte, ti picchiano. Un mio amico si è rifiutato e l’hanno picchiato nella zona genitale“. Una relazione di Amnesty International del 3 novembre 2016 descrive le pratiche coercitive utilizzate dalla polizia italiana 1 per soddisfare le esigenze dell’Unione europea. Si tratta di percosse, scariche elettriche, umiliazioni sessuali.

Politica dei numeri e dell’invisibilizzazione

I poliziotti fanno solo il loro dovere. Obbediscono agli ordini che vengono dall’alto“, riassume tristemente Mohammed. Ordini che normalizzano il ricorso alla violenza e alla coercizione. In una relazione del 2007, all’epoca dell’amministrazione Sarkozy, la Cimade [NdT organizzazione francese di volontariato che si occupa delle questioni legate alla migrazione] aveva lanciato un allarme: “Dal 2003 (Nicolas Sarkozy all’epoca era ministro degli interni) assistiamo all’industrializzazione del dispositivo di allontanamento degli stranieri in situazione irregolare“. Condannava le “quote stabilite di espulsioni imposte ogni anno alle prefetture“.

Nel 2008 il governo Sarkozy mirava a raggiungere l’obbiettivo di 25.000 riaccompagnamenti alla frontiera. Nel 2015, sotto la presidenza di Hollande, se ne contano più di 40.000 di cui 25.000 oltremare, nei Paesi dove la possibilità di ricorrere alla giustizia è estremamente limitata. David Rohi, responsabile nazionale delle permanenze per la Cimade, descrive una “continuità impressionante” fra i governi che si sono succeduti, nel quadro di una “tendenza molto repressiva e coercitiva“. Tutto accade come se la politica dei numeri, orgogliosamente pubblicizzata da Sarkozy, sotto la presidenza di Hollande fosse semplicemente divenuta parte integrante della prassi dell’amministrazione “coinvolta da dieci anni in queste pratiche“.

Ieri mattina un giovane afgano imbavagliato e con piedi e mani legati è stato espulso e fatto imbarcare per Stoccolma, nonostante all’aeroporto di Roissy fossero presenti una quindicina di sostenitori del collettivo La Chapelle. All’arrivo è riuscito a scappare e ora vive in clandestinità per evitare di essere rimpatriato in Afghanistan. La stessa mattina un’intera famiglia, che si trovava nello stesso centro di permanenza amministrativa di Mesnil-Amelot, dove si trova rinchiuso anche Mohammed, è stata condotta all’aeroporto per essere espulsa con la forza. La Cimade, che ha diffuso la notizia, riferisce della presenza di tre bambini a bordo. È seguito un tweet amaro: “Gérard Collomb e Emmanuel Macron si stanno impegnando a battere il triste record dei loro predecessori“.

  1. in italiano (ndR.): http://www.meltingpot.org/L-Unione-europea-chiede-all-Italia-di-usare-la-mano-dura-su.html