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Fratello Duch e gli orrori del Campo S-21

Intervista all’avv. Maria Stefania Cataleta, legale italiana al Tribunale speciale per la Cambogia

Il suo nome era Kaing Guek Eav ma si faceva chiamare con il suo nome di guerra: Duch. Anzi, “Fratello Duch”; tutti i dirigenti dei Khmer Rouge usavano questo appellativo davanti al loro nome. Lo stesso Pol Pot si faceva chiamare Brother Number One. Si è spento lo scorso 2 settembre in una cella della prigione cambogiana dove scontava la condanna all’ergastolo.

Il suo processo, avviato il 17 febbraio 2009 e conclusosi con la sentenza emessa il 26 luglio 2010, fu il primo ad essere celebrato davanti all’Extraordinary Chambers in the Court of Cambodia (Eccc), meglio conosciuto come Tribunale speciale per la Cambogia. Una corte di giustizia composta da personale internazionale ma istituita in accordo con le leggi nazionali del Paese.

Il processo a Duch suscitò molto scalpore perché porto alla luce gli orrori compiuti dal regime dei Khmer Rossi in Cambogia. Con la sua morte si chiude una delle pagine più nere della storia dell’umanità. Ne parliamo con l’avvocata Maria Stefania Cataleta, unica legale italiana ammessa all’Eccc e che nel 2009 ha fatto parte dell’equipe che ha difeso le vittime di Kaing Guek Eav.

Per capire cosa sia successo in Cambogia in quegli anni sanguinari, torniamo a quel 17 aprile del 1975, quando l’esercito rivoluzionario uscì dalla foresta e conquistò Phnom Penh, prendendo il potere su tutta la Cambogia. Molti, in Europa, salutarono con favore l’arrivo dei rivoluzionari che si prefiggevano di sradicare la corruzione, ripristinare la giustizia e l’eguaglianza, e affermare l’indipendenza nazionale.

Fu davvero così?
In realtà, si trattò della rivoluzione più radicale e segreta della storia. Il movimento dei Khmer Rouge era un universo vietato agli osservatori internazionali e così rimarrà fino al suo smantellamento, nel 1979. I leaders che lo componevano erano di modesta origine contadina o intellettuali che avevano studiato anche in Europa, come il loro leader Pol Pot. Subito dopo il loro ingresso in città, i Khmer Rouge, evacuarono Phnom Penh e i due milioni e mezzo di abitanti, in colonne sterminate, furono costretti a dirigersi verso le risaie. Fu una vera e propria deportazione per liberare Phnom Penh dai complici dell’imperialismo e dai fautori della borghesia e del capitalismo.

Ma perché svuotare la città?
Non fu solo per attuare un’ideologia ottusa, improntata a un ruralismo primitivo, ma anche per ovviare alla carestia. Phnom Penh aveva viveri solo per una settimana e i rivoluzionari non avrebbero saputo come sfamare la popolazione, che fu costretta a lasciare la città senza cibo, bevande, medicinali e non trovare alloggi nei villaggi dove avrebbero dovuto collocarsi. Era l’attuazione di una ruralizzazione coatta, il cui slogan era che il cibo era nei campi e che lì il popolo avrebbe dovuto guadagnarselo con il lavoro. Nulla contava che il popolo cittadino mancasse di competenza, formazione, allenamento, tecnica e utensili per lavorare nelle risaie. E con la capitale, vennero svuotate tutte le cittadine in una frenesia irragionevole di disurbanizzazione. Le città erano viste come centri del piacere, del profitto e dell’emulazione dei modelli stranieri.

I Khmer Rouge costrinsero l’80 per cento della popolazione cambogiana a trasferirsi nelle risaie che divennero dei veri e propri campi di conferimento e di sterminio. Come si viveva e come si moriva in questi luoghi?

La razione giornaliera era di due ciotole di riso per sfamarsi dopo dieci ore di lavoro ad una temperatura di 30°- 40°. Era vietato integrare questa dieta con pesce, carne o frutta, così come era vietato toccare i beni collettivi riservati ai quadri della rivoluzione. La pena per ogni trasgressione era la morte immediata, come quella di una bambina uccisa a colpi di vanga per aver raccolto una mela da terra. Era proibita la vita di famiglia e i bambini, anche di 8 anni, venivano strappati alla scuola e assegnati a centri di lavoro produttivo, come fabbriche, officine e cooperative agricole. Veniva interrotta ogni forma di insegnamento secondario o superiore, attività considerate reazionarie e figlie del colonialismo e dell’imperialismo e vietata ogni attività religiosa, con distruzione dei luoghi e simboli. I bonzi vennero destinati al lavoro agricolo e le pagode trasformate in stalle e porcili.
In una società senza più classi, nuove forme di esecuzione capitale e nuove forme di tortura vennero create: la trottola, per via del movimento della vittima mentre cade dopo aver subito un colpo di vanga alla nuca; il sacco, per via del sacco di plastica con cui viene incappucciata la vittima che muore soffocata; l’altalena, detta della vittima a cui si legano insieme mani e piedi e che viene appesa ad un albero dopo essere stata trascinata da un veicolo. Alcuni carnefici, prima che sopraggiungesse la morte della vittima, gli estraevano il cuore o le viscere per mangiarli.

Possiamo considerarlo un vero e proprio genocidio?
E’ stato configurato il genocidio del popolo cambogiano limitatamente ad una parte sociale di questo popolo, ma, se non vi fosse il limite giuridico della discriminazione politica, questo sarebbe certamente un genocidio, come molti storici l’hanno definito, a dispetto dei giuristi. Il mantra della rivoluzione, così come trasmesso dai media, si basava su tre principi cardine: indipendenza-sovranità; contare sulle proprie forze; difesa e costruzione della patria. Il popolo, sotto i Khmer Rouge, si componeva di due parti: da un lato, l’antico, ovvero gli aristocratici, la borghesia, gli sfruttatori; dall’altro, il nuovo, costituito dalle masse contadine e operaie. Gli studiosi hanno definito questa dei Khmer Rouge come la più estremista e violenta delle rivoluzioni.

Torniamo a Kaing Guek Eav. Il suo ruolo era quello di direttore del centro di detenzione di Tuol Sleng a Phnom Penh, chiamato anche col nome di Campo S-21. E’ proprio da qui, dai circa 4 mila verbali di confessioni rinvenuti, che, come ci ha spiegato lo storico David Chandler, sono emerse le principali testimonianze degli orrori perpetrati sotto il regime della Kampuchea Democratica, come si chiamò la Cambogia tra 17 aprile 1975 e il 7 gennaio 1979, in cui furono massacrate 3 milioni di persone. Cosa sappiamo di questa prigione?

L’S-21 era una scuola ma durante il regime dei Khmer Rouge fu adibito a centro di detenzione e tortura. La mole incredibile di documenti ci racconta che circa 14mila tra uomini, donne e bambini sono transitati da quella prigione tra il 1975 e i primi del 1979. I prigionieri venivano interrogati, torturati lungamente per ricavarne delle confessioni e, nella maggior parte dei casi, giustiziati. Solo nel 1978 giunsero nel centro almeno 5mila prigionieri. La lunghezza delle confessioni e dei dossier dipendeva dalla gravità delle accuse, che potevano anche consistere nel semplice fatto di indossare gli occhiali. Ciascuno dei detenuti era costretto, attraverso la tortura, a confessare crimini mai commessi contro il partito, quasi sempre si trattava dell’ammissione di essere controrivoluzionari o spie al soldo delle potenze straniere.

C’è qualche parallelo con le purghe staliniane?
Il trattamento dei detenuti si richiamava proprio alle purghe di Stalin degli anni ’30 e ai processi farsa dell’Europa dell’Est durante la Seconda Guerra Mondiale. In Cambogia erano stati adottati esattamente quegli esempi. I metodi di tortura erano particolarmente ingegnosi e crudeli, tanto da costringere persone del tutto innocenti a confessare qualunque crimine. Per tali ragioni, queste confessioni non sono considerate dagli storici delle fonti attendibili. Un’altra ragione della loro inattendibilità è che tutti i prigionieri risultavano colpevoli. Quei carteggi sono inattendibili eccetto che per la cura meticolosa con cui i detenuti venivano identificati, schedati e fotografati sia prima che dopo le torture. Le confessioni dimostrano la fobia del partito verso coloro che considerava traditori, tanto che la S-21 era un’operazione del tutto supportata dai leaders del partito.

Quali furono le responsabilità di Kaing Guek Eav in queste operazioni?

Lui era il direttore del centro S-21 e quindi responsabile di quanto avveniva all’interno. Non solo da un punto di vista organizzativo. Duch prendeva parte personalmente alle torture. Considerava tutti i cambogiani dei traditori bugiardi. Aveva un passato da insegnante e si faceva supportare da torturatori per lo più giovani e poco istruiti. La corte lo ha condannato in primo grado a 35 anni di reclusione per crimini contro l’umanità e gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra del 1949, come persecuzione a carattere politico, sterminio, riduzione in schiavitù, detenzione illegale, tortura e trattamento inumano, omicidio ed altre condotte illecite. La condanna, su appello della Procura, è stata in seguito commutata in ergastolo dalla Camera della Corte Suprema, il 3 febbraio 2012.

Come si è giustificato Kaing Guek Eav sul banco degli imputati?
Ha ammesso le proprie responsabilità e chiesto scusa alle vittime.

Riccardo Bottazzo

Sono un giornalista professionista.
La mia formazione scientifica mi ha portato a occuparmi di ambiente e, da qui, a questioni sociali che alle devastazioni dei territori sono intrinsecamente legate. Ho pubblicato una decina di libri tra i quali “Le isole dei sogni impossibili”, edito da Il Frangente, sulle micronazioni dei mari, e “Disarmati”, edito da Altreconomia, che racconta le vice de dei Paesi che hanno rinunciato alle forze armate. Attualmente collaboro a varie testate cartacee e online come Il Manifesto, Global Project, FrontiereNews e altro.
Per Melting Pot curo la  rubrica Voci dal Sud.