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Rubrica: Speciale Hotspot

Gioco dell’oca con il migrante

La storia di richiedenti asilo portati su e giù per l’Italia e la denuncia delle associazioni

Tratto da Osservatorio Diritti, 4 maggio 2017

La storia di Negga risale a una notte dello scorso autunno, ma ricorda da vicino quello che sta accadendo proprio in questi giorni a Milano a tanti suoi connazionali. Negga, il nome è di fantasia ma la sua storia è vera, è un cittadino eritreo con permesso di soggiorno tedesco e problemi mentali che lo costringono a prendere una cura farmacologica. La sera tra il 21 e il 22 ottobre l’uomo si trovava vicino alla stazione Centrale del capoluogo lombardo, dove la sera prima c’era stata una violenta rissa tra persone straniere. Ebbene, quella notte Negga è stato preso dalla polizia insieme ad altre centinaia di migranti e portato in questura. E dopo qualche ora è stato messo su un autobus in partenza per Taranto, dove si trova uno dei quattro hotspot italiani istituiti dalla “roadmap migratoria” voluta dalla Commissione europea. Gli altri centri già operativi sono a Lampedusa, Pozzallo e Trapani. E secondo le istituzioni europee sono nati per garantire «l’identificazione, la registrazione, il rilevamento delle impronte digitali e l’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, e nel contempo assicurare la ricollocazione e i rimpatri».

Ma la storia di Negga non è finita qui. Quando la polizia di Taranto si è accorta che l’uomo aveva un permesso di soggiorno tedesco, lo ha messo alla porta. Abbandonato davanti ai cancelli d’ingresso dell’hotspot sorvegliati dall’esercito, una struttura che si trova lungo la statale 106 circondata dall’acciaieria Ilva e da diverse discariche. Negga non poteva restare là: in questi centri dovrebbero entrarci solo i migranti al momento dello sbarco, quelli che si presume non siano mai stati identificati in Europa. Così, nonostante l’evidente condizione di vulnerabilità, l’uomo è stato buttato fuori mentre urlava disperato. «Perché mi avete portato qui?». «Come torno ora a Milano, senza soldi?».

Storie come quelle di Negga sembrano non essere isolate. Quella stessa sera anche Souline (nome di fantasia), un richiedente asilo gambiano di 18 anni ospitato nel centro d’accoglienza straordinaria di via Gorelli, a Milano, è stato prelevato dalla polizia. Il giovane è stato privato di cellulare, orologio e di tutti gli effetti personali e caricato anche lui su uno degli autobus diretti a Taranto.

UN CRUDELE, E COSTOSO, GIOCO DELL’OCA

È una storia che si ripete. Anche da Como, Chiasso e Ventimiglia continuano a partire questi autobus “speciali” diretti a uno dei centro di identificazione, fotosegnalamento, espulsione o respingimento oggi attivi in Italia. Solo nell’hotspot Taranto, e solo nel 2016, sono passati oltre 15.000 migranti. Tra questi, appena 5.048 provenivano da sbarchi, mentre la maggior parte erano stranieri rintracciati sul territorio italiano e condotti nella città pugliese per essere identificati.

In un’interrogazione parlamentare presentata da Giuseppe Civati questo meccanismo è stato definito «un crudele gioco dell’oca». È un sistema che costa al ministero degli Interni qualcosa come 30.000 euro a settimana, come ha stimato la Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema di accoglienza e di identificazione e sulle condizioni di trattenimento dei migranti. Un ingranaggio che lo scorso è scattato da Como a Taranto ogni due giorni. Dallo scorso gennaio, invece, i trasferimenti da Nord a Sud – gli «alleggerimenti alla frontiera», per dirla con il linguaggio del ministero – sono disposti solo da Ventimiglia.

Il direttore dell’hotspot di Taranto, Michele Matichecchia, ha comunicato che «sono stati 7.000 finora i migranti trasferiti da Ventimiglia e quasi 2.000 quelli da Como». E il Viminale per questo “servizio” ha già speso oltre 10 milioni di euro.

Questi soldi pare siano spesi per viaggi che hanno un’utilità quanto meno dubbia. Molti richiedenti asilo, infatti, una volta arrivati nell’hotspot di Taranto fuggono per tornare indietro, oppure vengono rispediti dalle autorità perché non possono restare in una struttura pensata solo per identificare, fotosegnalare e registrare chi sbarca in maniera illegale. Così, dopo poche ore, queste persone sono spesso di nuovo in viaggio, in cerca di qualcuno che li porti dai parenti in Germania o Francia. Se saranno respinti ancora alla frontiera, invece, li aspetta un altro autobus, un’altra notte di viaggio verso Taranto. È il gioco dell’oca, che riparte.

Questa prassi «desta molte perplessità poiché in nessun hotspot accade una pratica di questo tipo», ha denunciato un rapporto della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato. E storie del genere sono accadute spesso dal 17 Marzo 2016 a oggi, cioè da quando è attivo l’hotspot. Come ha confermato la stessa dirigente responsabile dell’ufficio immigrazione della questura di Taranto, Rossella Fiore. «Sì, capita spesso che da Ventimiglia siano trasferite anche persone con i documenti in regola», ha detto.

LE DENUNCE DELLA SOCIETÀ CIVILE

Ad aprile 2017 le associazioni partner del progetto “Sostegno al transito di migranti e profughi” (Stamp) e “Un Ponte Per…” hanno condotto nei pressi della stazione dei treni di Taranto un monitoraggio delle condizioni dei migranti in uscita dall’hotspot intervistando diverse persone in transito.

La coordinatrice del progetto e membro del coordinamento nazionale di “Un Ponte Per…”, Giuliana Visco, racconta che «la maggior parte delle persone che abbiamo incontrato erano state prelevate da Ventimiglia e formalmente erano tutti richiedenti asilo». Visco aggiunge che quasi quotidianamente «migranti prelevati dalla polizia, alla frontiera con la Francia o con la Svizzera, siano poi abbandonati tra i fumi tossici dell’Ilva e la banchina del varco nord del porto di Taranto, senza che nessuno possa spiegare loro, almeno, perché sono stati trasferiti lì, a migliaia di chilometri di distanza, esponendoli, per giunta, al rischio della tratta e dello sfruttamento lavorativo».

Secondo un ricercatore di Amnesty International, Matteo De Bellis, c’è un doppio livello di esclusione alla base dell’approccio hotspot, «perché le vicende drammatiche di quelle migliaia di uomini, donne e bambini che fuggono da guerre e povertà, non terminano al momento dello sbarco». De Bellis racconta che «abbiamo documentato svariate violazioni dei diritti umani che hanno avuto luogo in Italia: l’eccessivo uso della forza nelle identificazioni, le detenzioni arbitrarie e le espulsioni collettive, molte pratiche vietate dalle convenzioni internazionali».

Le violazioni registrate l’estate sono state messe nero su bianco in un lungo rapporto, “Hotspot Italia. Come le politiche dell’Unione europea portano a violazioni dei diritti di rifugiati e migranti“, frutto di una ricerca che Amnesty ha condotto nel 2016 visitando diverse città e centri di accoglienza, intervistando 174 tra profughi e migranti e raccogliendo informazioni dalle istituzioni e dalle organizzazioni internazionali.

Franco Gabrielli, il capo della Polizia, si era affrettato a smentire categoricamente che «vengano utilizzati metodi violenti sui migranti sia nella fase di identificazione che di rimpatrio». Ma, dice ancora De Bellis, «resta il fatto che nel cercare di raggiungere un tasso di identificazione del 100% dei migranti, l’approccio hotspot ha spinto le autorità italiane oltre ciò che è ammissibile dal diritto internazionale dei diritti umani». Perché, riferiscono ancora da Amnesty, «nonostante non ci siano dubbi sul fatto che la maggior parte degli agenti di polizia abbia continuato a fare il proprio lavoro in modo impeccabile, le testimonianze raccolte indicano che alcuni hanno fatto uso eccessivo della forza e ricorso a trattamenti crudeli, disumani o degradanti».

LA CORTE EUROPEA

Due avvocati dell’Associazione per gli studi giuridici per l’immigrazione (Asgi), Dario Belluccio e Salvatore Fachile, hanno presentato anche un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) contro le violazioni che l’approccio hotspot avrebbe provocato. Racconta Fachile: «Il 22 dicembre del 2016 siamo andati a Khartum, capitale del Sudan, per una missione ufficiale al seguito di alcuni europarlamentari del gruppo Gue/Ngl. Qui abbiamo incontrato cinque cittadini sudanesi provenienti dalla regione del Darfour, tra i quaranta rimpatriati dall’Italia il 24 agosto scorso. Abbiamo raccolto le loro storie e così il 13 febbraio abbiamo presentato ricorso alla Cedu». «Il nostro ricorso si origina dal memorandum d’intesa per la gestione dei flussi migratori ed in materia di rimpatrio, siglato la scorsa estate tra il dipartimento della pubblica sicurezza del ministero dell’interno italiano e la polizia nazionale del ministero dell’interno sudanese», spiega ancora Fachile. «Accordi come questo sono tasselli che contribuiscono ad edificare quella fabbrica di esclusione e di violazione dei diritti umani che è chiamata “approccio hotspot”».

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[ 5 maggio 2017 ]
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