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Gli abusi al confine di Melilla arrivano al cinema con “Adú”

Marta Maroto, Desalambre (El Diario) - 25 gennaio 2019

Una fotografia tratta dal film

Le moschee recitano l’ultima preghiera prima della notte a Melilla. La telecamera viaggia rapidamente verso la recinzione contro la quale dozzine, centinaia di migranti sub-sahariani si precipitano, si arrampicano e, a cavallo delle concertine, gridano “Boza, boza“, canto della vittoria e della libertà.

Nel frattempo, a migliaia di chilometri di distanza in Camerun, Adú e sua sorella Alika sono i tragici testimoni della morte di un altro elefante per mano dei bracconieri.

Con il nome del bambino di soli sei anni, Adú, il regista Salvador Calvo ha voluto intitolare questo film basato su eventi realmente accaduti.

Prodotto con la collaborazione di Mediaset Spagna e registrato ininterrottamente tra Benin, Marocco, Murcia e Madrid. Sarà distribuito nelle sale il 31 gennaio e per ogni biglietto venduto online verrà donato un euro alla costruzione di un ospedale nella Repubblica Democratica del Congo, un progetto della ONG Proyect Ditunga.

Il film, con un pesante carico di critiche sociali, è un ritratto degli ostacoli che i migranti che cercano di raggiungere l’Europa devono affrontare mentre fuggono dalla miseria, dalla violenza e dallo sfruttamento nei loro paesi di origine. Traccia tre linee in tre storie parallele che convergono nella comune brutalità di un confine.

La prima racconta la rotta di Adú, che migra dal cuore dell’Africa a Nord, verso quel Mediterraneo pieno di morte. Dal Camerun, aggrappato al carrello di un aereo, riesce a raggiungere il Senegal dove incontra Massar, un adolescente somalo in fuga dalla violenza sessuale nel suo paese.

Nel frattempo, Luis Tosar e Anna Castillo, lavoratore in una riserva di elefanti e sua figlia, hanno problemi con la droga. Dalla Spagna all’Africa, hanno bisogno di questo continente per parlare, capire e riconciliarsi con la loro storia comune.

Infine, la terza storia è quella degli agenti della Polizia civile che sorvegliano la recinzione di Melilla, “i guardiani che fanno da tramite tra quei due mondi“, occidentale e africano, “pur rimanendo distaccati“, dice il regista del film Salvador Calvo, in una successiva intervista.

Abbiamo avuto un’enorme responsabilità perché le persone ci hanno detto di aver vissuto esperienze uguali“, ha detto Calvo sulle sequenze girate nel Gurugú, la montagna nel nord del Marocco, dove i migranti attendono ammassati in attesa di attraversare la recinzione di Melilla. Molte persone del cast sono riuscite a superare il confine e tra una ripresa e l’altra hanno ricordato le loro esperienze: “Ho nuotato e ho perso le dita per il freddo“, ha detto uno di loro.

La crudezza della storia ha reso necessario che alcuni attori fossero veri migranti o sopravvissuti alle zone di conflitto. Calvo ricorda quanto sia stato difficile trovare Adú, il protagonista. Dopo un mese e mezzo senza successo, dice, hanno deciso di cercare nelle università del villaggio nel nord del Benin, tormentato dal terrorismo di Boko Haram. E così è apparso Moustafá Oumarou: “Ehi, bianchi, che fate qui con una macchina fotografica?” Rise quando incontrò i direttori del casting.

Le vere storie a cui il film è ispirato

La prima storia si ispirata alla vicenda reale di un ragazzo arrivato alle Isole Canarie con la madre e le sorelle. Quando il gruppo viene ricevuto all’interno di un centro della Commissione spagnola per l’assistenza ai rifugiati (CEAR), i dipendenti scoprono che non si tratta di una vera famiglia ma di un gruppo di trafficanti di organi. La pellicola mette dunque in mostra anche l’altro lato dell’immigrazione. D’altra parte, il suo nome e l’intenzione di registrare il film hanno a che fare con la notizia diffusa dai media, riguardo un bambino di otto anni di nome Adou scoperto in una valigia da uno scanner al valico di frontiera di Tarajal.

“Una scena così terribile non poteva essere facilmente girata da nessun bambino di sei anni. Moustafá vive in una baracca, senza acqua o luce, non sa leggere né scrivere e quando vede per la prima volta un aereo rimane paralizzato. Anche Alika, la sorella maggiore di Adú nel film, proviene da un ambiente simile.

La storia di Massar è tratta dalla fuga di un adolescente che è riuscito a raggiungere le Isole Canarie. Parla di un ragazzo somalo e di suo zio, un potente uomo di guerra, che lo costringe a travestirsi da donna e a ballare per i suoi amici, che lo violentano ripetutamente in gruppo. Quando il padre ne viene a conoscenza, riesce solo a consigliargli di fuggire il più lontano possibile. Attraversa il Sahara, viene torturato e ridotto in schiavitù in Libia. Alla fine arriva in Marocco, dove si lascia sfruttare sessualmente per poter racimolare soldi e poter pagare il suo viaggio per la Spagna.

Questo personaggio viene interpretato da Zayiddiya Dissou, un adolescente francese figlio di migranti di Las Comoros, che aveva già avuto esperienza come attore.
Calvo parla del gioco degli specchi tra le storie dei bambini in fuga e le storie di Tosar e Castillo, intrecciate in qualcosa di innocente come una bicicletta. Racconta di aver dato al suo film un nome proprio (il secondo della sua carriera, dopo il 1898: The Last of the Philippines) per insistere sul fatto che dietro le cifre trasmesse dai media, c’è una storia dietro ogni migrante. Un mondo intero che “appartiene a tutti e non solo a noi. Mettere recinti e confini è un errore”, afferma il regista. E conclude: “Chi dovrebbe andare a vedere il film?” “Il Presidente del Governo e il Ministro degli Interni, Grande-Marlaska, dovrebbero davvero“, ride.