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Gli alieni prima dello sbarco. Quando gli Eritrei non raggiungono Israele

di Umberto Pellecchia

Ard-El Lewa è uno dei tanti quartieri-città del Cairo. Di popolazione numericamente indefinita, con decine di varianti di arabo parlato corrispondenti alle altrettante nazionalità presenti, esso è un luogo estremo. Le strette strade tra i grossi blocchi di caseggiati intrecciano uno dei quartieri più insidiosi per i migranti presenti nella capitale egiziana. Gruppi diversamente organizzati prendono di mira soprattutto gli Africani, i neri, che ad Ard-El Lewa risiedono numerosi. Il rischio di stupro per le donne è all’ordine del giorno, come anche scontri, percosse e minacce. Oppure gli sfratti dalla sera alla mattina, senza un avviso, senza motivazioni. Qui il migrante è qualcuno che ha a che fare con una quotidianità il cui livello di rischio è altissimo, giorno per giorno, momento per momento. Quando si attraversano i binari della ferrovia, che simbolicamente dividono Ard-El Lewa dai quartieri confinanti, si entra in un mondo in cui si ha la sensazione che qualcosa di pericoloso sta accadendo.

Eppure – banalità del male – all’ingresso di Ard-El Lewa sulla sinistra, dopo quei binari ferroviari che segnano il gate a uno dei più grandi quartieri migranti del Cairo, c’è un allegro mercato di frutta e verdura, tuk-tuk posteggiati che con i loro impianti HI-FI a volumi altissimi aspettano di trasportare passeggeri all’interno del dedalo cariota, e in mezzo a un mucchio di rottami indefinibili una ruota panoramica, perfettamente immobile, non più alta di un autobus, che contribuisce a rendere il panorama distopico e attraente. Se si prende sulla destra, costeggiando i binari e i venditori di arance, datteri e dolciumi, si arriva ad un piccolo centro di aggregazione di comunità africane dove si insegna l’arabo e l’inglese, c’è l’accesso a internet e alcuni volontari accolgono i migranti e li indirizzano ad altri centri o organizzazioni secondo le loro necessità. John, il direttore del centro, sudanese, mi racconta, senza mai smettere di sorridere, che Cairo è sempre stata meta di migrazioni ma che dopo la guerra in Libia la cosiddetta East Route, che passa dall’Egitto per arrivare in Israele o in Turchia, ha iniziato ad essere molto più frequentata. La migrazione degli Africani in Egitto ha iniziato a diventare cospicua e migliaia di persone, principalmente provenienti dal Corno d’Africa, dal Sudan o dal Sud Sudan, dal Chad hanno eletto Cairo a luogo di passaggio o residenza. Stime, poiché le statistiche sono poche e discutibili, parlano di una popolazione migrante di circa 2 milioni. Molti arrivano al Cairo per ripartire lungo la East Route o per rimanerci o aspettare il resettlement delle Nazioni Unite offerto ai (pochi) richiedenti asilo. Altri arrivano al Cairo per ripartire ma ci rimangono forzatamente. Infine, altri ancora, al Cairo non sanno nemmeno come ci sono arrivati.

F. ha diciannove anni e vive ad Ard-El Lewa da alcune settimane, è di nazionalità eritrea. La incontro insieme ad altri migranti del suo paese in un appartamento all’ultimo piano di un edificio a pochi passi dal centro di aggregazione di John. Con me c’è R., che mi fa da traduttrice e informatrice, aiutandomi nella difficile impresa di raccogliere le storie dei suoi connazionali. F. ci racconta della fuga dall’Eritrea attraverso il confine sudanese, per raggiungere il campo profughi dell’ONU di Kassala, oppure Khartoum. Il passaggio viene garantito, a lei come ai suoi tre compagni di viaggio, grazie al pagamento di un’alta tangente alle pattuglie che controllano il confine, quelle stesse che dovrebbero riportare in mano all’esercito eritreo gli uomini accusati di essere disertori e le donne oppositrici del regime. Una volta in Sudan, F. e compagni incontrano l’esercito sudanese che gentilmente li carica sui pick-up e gli dà acqua e cibo dicendo loro che in poco tempo raggiungeranno Kassala dove potranno fare richiesta di asilo politico alla delegazione dell’Alto Commissariato. Ma il convoglio a un certo punto si ferma in mezzo al nulla e i militari, da cordiali salvatori, diventano rudi, li scaricano dal cassone delle macchine e li costringono a sedersi sotto un albero. F. e gli altri si spaventano, si guardano negli occhi senza capire. Vedono uno dei soldati parlare alla radio, poi una jeep arrivare con alcuni uomini col turbante rosso e bianco che li legano e li caricano sulle auto. Gli amici di F. protestano, gli uomini col turbante non ci fanno caso, come se non parlassero la loro lingua. Inizia l’odissea.

Mentre F. racconta e i suoi compagni di casa la osservano con aria incoraggiante, rifletto sulle centinaia di Eritrei che fuggono dal loro paese in cerca di fortuna, verso Nord, non importa dove. O di raggiungere la loro diaspora in Europa, USA, Canada. Un numero cospicuo di essi – fonti non governative parlano di 40.000 negli ultimi 5 anni – viene intercettato nel percorso verso nord da coloro che vengono definiti, con molte imprecisioni, “beduini”, che comprano letteralmente i migranti dalle forze armate sudanesi per venderli poi ai campi di prigionia nel Sinai egiziano. In questi luoghi, gli Eritrei, e in misura minore gli Etiopi, sono costretti a telefonare ai loro parenti della diaspora per implorare dei soldi come riscatto. Se i soldi non arrivano o si rifiutano di telefonare, la conseguenza è la tortura. Elettroshock, violenza sessuale, scarnificazioni, percosse. Per settimane, mesi. Le cifre richieste sono paradossali: 50 / 60.000 dollari. Gli aguzzini utilizzano telefoni cellulari con schede israeliane, e costringono i migranti sotto tortura a chiedere ai loro parenti di inviare il denaro presso alcune agenzie della Western Union poste al di là del confine con Israele. I campi di prigionia sono nel deserto, tuttavia anche se lontano da occhi indiscreti, tutti nel Sinai, da Al’Arish a Sharm El Sheick, sanno grosso modo dove sono.

F. e compagni viaggiano senza sapere la loro meta per giorni. Gli uomini col turbante si susseguono lungo il tragitto: quelli che li hanno presi dall’esercito sudanese li cedono ad altri, che a loro volta li consegnano ad altri ancora, e così via. F. sente che la lingua che parlano è l’arabo, ma un arabo sempre diverso. Lei non se ne intende, non lo conosce bene, ma i suoi compagni glielo dicono. Passa una settimana, penuria di cibo e acqua e progressiva perdita di speranza. Arrivano in una casa nel deserto, con alcune palme attorno. Ci sono altri Eritrei e degli uomini armati, arabi (egiziani?). F. viene separata dal resto del gruppo e portata in una stanza. Lì subisce violenze sessuali per giorni. Poi le viene consegnato un telefono e un eritreo, che accompagna gli aguzzini, le spiega in tigrino che deve chiamare i suoi parenti ricchi e farsi mandare dei soldi. F. non ha idea di cosa si sta parlando, è sotto shock. Fa tutto automaticamente, come se rispondere a quegli ordini fosse la cosa più normale da fare. Chiama ripetutamente, trova occupato o spento. Chiama i genitori ad Asmara, dice che ha bisogno dei contatti degli zii in America. Riprova a telefonare, li trova, spiega tutto. Gli zii dicono che hanno bisogno di tempo. F. subisce altre violenze. È sempre isolata, riceve poco cibo e acqua; un giorno le danno alcuni stracci per vestirsi. Dopo un tempo indefinito, i soldi arrivano. F. non ricorda più nulla, sa solo che si è ritrovata a pochi chilometri dall’autostrada che collega Al’Arish al Cairo insieme ad altri Eritrei. Tutti sono in condizioni disumane: tracce di violenze sui loro corpi, orrore nei loro occhi. F. chiede dei suoi amici, un uomo le dice di dimenticarli.

Come F., molti Eritrei vivono ad Ard El Lewa con i ricordi segnati sul corpo degli abissi che hanno attraversato. John cerca di supportare le vittime come può, coinvolgendo organizzazioni non governative, tutto lontano dagli occhi delle autorità egiziane. Il rapimento e la tortura degli Eritrei è cosa tristemente nota ai migranti presenti al Cairo. È conosciuta anche all’ONU, a molte organizzazioni per i diritti umani e anche al Governo egiziano. Ma il traffico di esseri umani non è ancora cessato. È una storia troppo complessa, non si sa dove cominciare. Coinvolge troppi attori e convoglia troppi interessi. Risente della marginalità che caratterizza quei fenomeni che, pure essendo conseguenza di disuguaglianze globali e forme di potere neo-coloniali, sono troppo poco “di moda” e hanno poco appeal per riempire le pagine dei giornali, le sedi dei dibattiti, gli scaffali delle librerie.

R., la traduttrice, commenta un mio post su Facebook dove segnalavo la manifestazioni degli Eritrei a Tel Aviv di domenica 5 gennaio 2014. Mi scrive che gli “alieni” – come li chiama lo stato israeliano – suoi connazionali avrebbero una storia molto lunga da raccontare, molte cose su cui far riflettere giornalisti, media, attivisti. Anche prima di arrivare in Israele, quando finalmente, alla fine dei gironi infernali, il mondo si accorge di loro.