Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Gli attivisti di Italia, Spagna, Grecia e Croazia percorrono le rotte migratorie per creare la rotta della solidarietà

Maria Iglesias, Público - 14 aprile 2018

Avvocati, operatori sociali, laureati in materie politiche ma anche filologi, impiegati nel settore della logistica, nutrizionisti, fotografi, giornalisti, registi – alcuni dei quali appartenenti a ONG, altri a titolo individuale – parteciperanno questa settimana ad un incontro che avrà luogo sulla rotta balcanica, tra la Serbia e la Croazia, nell’ambito dell’iniziativa The Route of Solidarity (TROS), promossa dall’Associazione per i Diritti Umani dell’Andalusia (APDHA), dall’ONG italiana Un Ponte Per, dalla greca Antigone e dalla croata Udruga PANK con il supporto economico del programma UE ‘L’Europa dei cittadini’.

Proprio in questa settimana – in cui i bombardamenti USA, con l’appoggio di Francia e Regno Unito, hanno colpito una Siria già devastata al suo ottavo anno di guerra – quando, se c’è qualcosa che tiene legati questi attivisti, già riunitisi a Roma (dal 24 al 30 gennaio) ed a Siviglia-Ceuta (dal 12 al 18 marzo), è il punto di svolta che ha rappresentato nelle loro vite, dopo il 2015 della cosiddetta “crisi dei rifugiati”, il trovarsi di fronte al dolore di chi fugge dalla guerra, da Daesh, dal terrore. “Appena abbiamo guardato quelle persone, migranti, richiedenti asilo, e ci siamo abbracciati, avevamo già capito di avere il dovere di impegnarci”, ricorda l’avvocato Riccardo Bucci di Alterego Fabbrica dei Diritti.

Quando in quel settembre del 2015 Aylan Kurdi annegò io ero ancora ignaro di tutto”, ricorda Leire Itoiz, di Navarra, nell’auto con la quale trasferisce una delegazione di cinque dei venti partecipanti del TROS Zagabria-Belgrado fino alla cittadina serba di Sid. Un comune di 15mila abitanti nei pressi della frontiera con la Croazia, dove l’asturiano Bruno Álvarez ha fondato, nel febbraio del 2017, No Name Kitchen. Questa ONG offre due pasti al giorno, assistenza igienico-sanitaria di base , docce mobili e indumenti ad un numero di migranti che va dai 50 ai 150, che arrivano, cercano di attraversare la frontiera – serrata – con la Croazia finché non li respingono , per tornare poi a tentare. Vivono nascosti nella boscaglia, accanto ad una fabbrica in rovina, quello che in gergo viene definito col termine inglese ‘squat’. Giovani, soli, in maggioranza afghani e pakistani, benché ci siano anche algerini e marocchini.

Voglio arrivare a Cartagena”, spiega uno di loro. “Sono volato dal Marocco ad Istanbul senza bisogno di un visto. Ho attraversato l’Egeo, la Grecia, la Macedonia, fino in Serbia. E continuerò, perché a Cartagena ho già lavorato, è la mia seconda casa”. I giovani che ora sono a Sid sono fuggiti, insieme a siriani ed iracheni, all’inizio del 2016, quando era ancora attiva la sospensione della Convenzione di Dublino – voluta nel settembre 2015 dalla cancelliera Angela Merkel – che obbliga a richiedere l’asilo nel paese di primo ingresso. Ma nel marzo del 2016 sono rimasti bloccati dalla chiusura delle frontiere e dall’annuncio dell’accordo per le deportazioni in Turchia. Accadeva due anni fa. Con due inverni innevati nel mezzo. Ne hanno passate tante.

I cittadini europei non hanno colpa”, dice scuotendo la testa un afghano che è appena stato respinto alla frontiera con la Slovenia, nel suo ennesimo tentativo di oltrepassarla. “Ci aiutano. Guarda Leire, vive qui da novembre, è una nostra sorella”, dice della ragazza di Pamplona, master in Industria Agroalimentare che, dopo anni di volontariato con persone disabili, nel febbraio del 2017 si è spostata in Grecia. “Volevo vedere da vicino quello che stava accadendo a Lesbo, e lì ho capito che volevo fare qualcosa a lungo termine”. “Non ho avuto alcuna paura nel venire qui”, risponde decisa. “Né della polizia serba – perché sono europea – né dei ragazzi. Per quanto siano frustrati, nonostante alcuni di loro abbiano dei problemi con l’alcol e a causa della tensione sia scoppiata qualche rissa, mi apprezzano e mi proteggono”. Arriva il furgone con i pasti, dagli altoparlanti riecheggia la versione contemporanea di protesta del gruppo Las amigas de Yoli della canzone anti-franchista Que volent aquesta gent, di María del Mar Bonet. Cominciano ad arrivare giovani, fino ad essere una cinquantina. E mentre si mettono in fila e vengono dati loro pane, uova sode, mele, canticchiano una strofa del pezzo di Al Alba de Aute.

Lesbo è stata l’inizio di tutto. Non solo per Leire Itoiz, ma anche per la fotografa italiana Francesca Maceroni di Baobab Experience, per il greco Thanasis Vulgarakis o la belga Carmen Dupont di Lesvos Solidarity, ONG con sede nell’isola dell’Egeo. Altri attivisti hanno vissuto la vergogna eloquente della frontiera tra la Grecia e la Macedonia (Idomeni), come Ilaria Zambelli di Un ponte per, del confine tra Ungheria e Serbia, come Iva Brajkovic di Udruga PANK, oppure, ormai molti anni fa, della frontiera tra Ceuta e il Marocco, come il fotoreporter Antonio Sempere. Ma Lesbo è stata ‘la culla’ di questa Rotta della Solidarietà. Così la descrive la sua prima promotrice, l’italiana Caterina Amicucci, dal 2013 stabilitasi a Siviglia. In quell’estate del 2015, quando tutto sembrò iniziare – sebbene l’esodo sia stato documentato da ricercatori europei già dal 2011, quando Bashar Al Assad represse la ‘primavera siriana’ – la Amicucci si trovava in Grecia per protestare contro la miniera d’oro della penisola Calcidica, vicino Salonicco. “Alcuni attivisti arrivavano da Lesbo e mi parlarono di ciò che stava succedendo, che i media non raccontavano”.

Con l’arrivo di settembre l’immagine del piccolo Aylan Kurdi scosse l’opinione pubblica al punto da indurre gli Stati a stringere un accordo, a lungo posticipato, per accogliere 160mila rifugiati in due anni (17.680 dei quali in Spagna). Si sarebbe trattato dello 0,2% dei 500 milioni di abitanti dell’Unione Europea (a fronte del 10 e 20% di Giordania e Libano, rispettivamente). Tuttavia tale accordo non è stato ottemperato nel termine concordato di due anni, scaduto nel settembre del 2017. “Nell’autunno del 2015 mi trovavo a Lesbo, e per quanto cercassi di dare il maggior aiuto possibile, il mio obiettivo principale era quello di imparare, di trarre qualcosa dalla singolare esperienza di un soccorso umanitario – efficace per le 5mila persone che arrivavano quotidianamente – realizzato quasi solamente da cooperanti e attivisti”.

A contrastare un’Europa ufficialmente non solidale”, continua la Amicucci, “c’era un’Europa di cittadini non razzista, inclusiva, impegnata, e dopo quel 2015-2016 volevamo che quello slancio non si perdesse ma che, al contrario, assumesse nuovo vigore”. Questa è l’idea che anima l’iniziativa TROS, per la quale si stanno già organizzando cinque incontri aggiuntivi: Lesbo (23-29 maggio), Sicilia (17-23 settembre), Salonicco (3-9 ottobre), Pula (novembre) e Siviglia (febbraio 2019). I partecipanti non sono soltanto i membri delle quattro ONG organizzatrici, provengono anche dal tessuto sociale. Non è contraddittorio che la stessa Unione Europea che chiude le frontiere finanzi iniziative di questo tipo? “Lavorando nell’attivismo da vent’anni ci ho fatto l’abitudine”, risponde la Amicucci. “Probabilmente si ripuliranno la coscienza. Ma quei fondi sono nostri, li paghiamo con le tasse, ed è giusto che si costruisca un’Europa solidale, che noi cittadini vogliamo e della quale abbiamo bisogno”.

Qui in Croazia”, riporta Iva Bravjcovic, padrona di casa di PANK Zagabria, “dal 16 al 1 settembre del 2015 abbiamo visto passare 2mila persone dirette in Austria o in Germania. A partire dai vicini fino ad arrivare alla Polizia ci riversammo tutti lì: alla frontiera, con acqua, cibo, indumenti, organizzando i trasferimenti in autobus. E’ stato emozionante, tuttavia i media non hanno mostrato questa parte. Tutto sembrava un disastro”.

L’iniziativa TROS è iniziata con delle visite ai centri di accoglienza di Porin – il più grande della Croazia, con 300 accolti – e Kutina, il più datato – che ora conta solo 10 famiglie, circa 50 persone – , è proseguita attraversando la Serbia fino ad Info Park, ONG che ha sede tra i ribattezzati ‘Parco afghano’ e ‘Parco curdo’ di Belgrado. E poi a Sid, il punto di ritrovo non ufficiale i cui ‘abitanti’ hanno chiesto una visita circoscritta per passare quanto più inosservati possibile alla Polizia. Anche se la pattuglia con due agenti appostata lungo il sentiero mostrava che fossero già a conoscenza della loro presenza.

Le cose peggioreranno”, dice un pakistano che, come tutti, vuole tenere nascosta la sua identità. “Sono venuti in molti, attivisti e giornalisti. Capiamo che c’è della buona volontà. Ma nulla migliorerà, la società non fa nulla per far sì che i governi intervengano, continua. “Al contrario, più sentono parlare di noi, più ci temono e innalzano barriere”.

La frustrazione è un sentimento comune non solo a Sid, ma anche tra quanti vagano per Belgrado e tra quelli che vivono bloccati in centri come quello di Adasevci. Nella boscaglia adiacente a questo centro si è addentrato un gruppo di persone, con i catalani Oriol Andrés e Oriol López di Chapter2 – una startup che intende agevolare l’auto-imprenditorialità di coloro che in Spagna hanno già ottenuto l’asilo – e i greci Nikos Goutas della ONG Antigone ed Ero Koulakidou di OMNES. “Nessun problema, venite”, così i circa quindici uomini che erano nel bosco hanno acconsentito al contatto. “Dentro non ci lasciano cucinare i nostri cibi”, spiegano dinanzi ai resti del falò indicando il centro nel quale le loro mogli e i loro figli piccoli li aspettano. “Diteci, raccontarvi la nostra storia ci aiuterà ad attraversare la frontiera?”, chiedono. Apprezzano la sincerità con cui hanno ricevuto una risposta negativa che già conoscevano. Che tutti conoscono. Nonostante la quale, una volta ormai fuori dal bosco, alle porte del centro, una giovane afghana, assieme al marito, chiede: “Sarebbe tanto rischioso per voi cercare di portarci in Croazia all’interno della macchina, vero?”. Rischioso ed impossibile, dato che al ritorno, in frontiera, l’auto verrebbe perquisita. “Allora resteremo qui”, risponde la donna, “ma non metteremo al mondo dei figli. Non ci sono medicine né cibo, non è il posto adatto per dei bambini”, spiega circondata dai bambini delle altre.

La quota di rifugiati presenti lungo la rotta balcanica è modesta se comparata all’Italia, alla Grecia o alla Spagna. Serbia e Croazia sono paesi di transito nei quali i migranti non vogliono restare. Preferiscono andare in Germania, Francia, Regno Unito, dove gli stessi croati e serbi, spagnoli e greci emigrano già dal 2008. “Siccome la frontiera è chiusa, in Serbia si parla di arrivi zero”, spiega Stevan Taialovic di Info Park. Tuttavia questo paese ha gestito la cifra di circa 15.000 persone in transito, solo nel 2017. “Negli ultimi dieci anni abbiamo avuto 16.000 richieste di asilo e solo 98 con esito positivo”, precisa dopo averci riferito della sua lotta contro le celle di isolamento all’interno dei centri o contro le mancanze nella salvaguardia e nella tutela dei minori a causa della paura dei tutori di perdere lo stipendio statale se dovessero criticare il trattamento che la Polizia riserva ai loro assistiti. Neppure in Croazia i numeri sono insostenibili. Nel 2017, hanno fatto richiesta d’asilo 1.887 persone e lo hanno ottenuto in 211. Se si guarda al Mediterraneo, invece, stando ai dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni nel 2017 gli arrivi sono stati 119.369 in Italia, 35.052 in Grecia e 22.419 in Spagna. In quest’ultimo paese le richieste d’asilo sono duplicate rispetto al 2016: 30.445 richieste, delle quali 13.345 con esito positivo, soprattutto a beneficio di venezuelani. Molto lontano delle richieste presentate in Germania, Italia, Francia o Grecia, che vanno dalle 200mila alle 50mila.

In Croazia l’80% dei migranti emigra in un altro paese, nonostante abbiano preso loro le impronte digitali e li abbiano obbligati ad avviare le procedure previste dagli accordi di Dublino. Del 20% che dice di voler restare, il 90% è diniegato e soltanto il 10% riesce ad ottenere l’asilo”, spiega il responsabile dei centri croati, Filip Stipic. “Il paradosso”, completa Drazen Klaric, del Servizio Gesuita per i Rifugiati del centro di Porin, “è che la Croazia ha talmente bisogno di manodopera che lo stesso governo ha messo a disposizione, nel 2017, 30mila permessi di lavoro per stranieri. Soltanto 5mila circa sono stati richiesti, per lo più da bosniaci e serbi. I restanti 25mila sono stati assegnati tramite un accordo bilaterale con l’Ucraina”. “Noi non vogliamo restare qui”, mormora uno degli accolti del centro di Kutina. “Ci tengono qui a giocare a calcio, ma senza lavoro, in attesa, per giorni e giorni. Ci danno lezioni di croato ma è dell’inglese che abbiamo bisogno per proseguire verso un luogo in cui potremo lavorare”, dice davanti alla sua bambina di due anni, con i denti già rovinati.

Rashed Gholami, 17enne afghano, incarna il caso opposto. È in Croazia da due anni e quattro mesi, ha ottenuto la protezione sussidiaria ed è felice di vivere la sua vita nella città croata di Pula, con la rete ormai quasi familiare dei volontari di PANK. “Voglio diventare un informatico. La prima ragione che mi ha portato a scappare dall’Afghanistan era la paura nei confronti dei talebani. Ma l’educazione è stata l’altra ragione fondamentale. Sono rimasto orfano all’età di 3 anni. A crescere me e mio fratello, che ora è in Germania, sono stati i nostri zii, in una fattoria. Non sono mai andato a scuola, una cosa abbastanza generalizzata lì. È stato qui, a Kutina, che non solo ho imparato il croato, ma ho addirittura imparato a scrivere nella mia lingua, il farsi!”.

Anche Sweta Pusaidini – 23enne nepalese – e Sadou Diagne – senegalese di 27 anni – stanno costruendo la loro strada grazie alla cooperativa Taste of home, che opera nell’ambito della ristorazione. “Rimettere in piedi la mia vita qui è stato molto difficile all’inizio”, ricorda lei. “Tutto è così diverso: dal cibo, al modo di relazionarsi delle persone. Eppure sono impegnata in questo progetto da un anno e mezzo, ho già il mio permesso di residenza e lavoro, ho già dei compagni e degli amici. Vado avanti”. Ti ci vedi a vivere in Croazia? “Per ora”, puntualizza nostalgica. “Malgrado tutto il mio paese, i miei amici e la mia famiglia sono il mio paradiso. Per ogni migrante il proprio luogo di origine è insostituibile. Per fortuna con internet riesco a vedere mia madre ogni giorno”. “Per aiutare migranti e rifugiati”, si intromette Diagne, “le cose migliori sono le cose concrete, quelle che ti insegnano ad affrontare la vita qui”. “Ma anche fare in modo che ottengano i documenti in tempi rapidi”, aggiunge l’afghano Rashed Gholami.

Il pragmatismo, alla fine dell’incontro, si traduce anche in azioni di condanna nei confronti della criminalizzazione dei migranti e dei soccorritori che cercano di aiutarli. Da un lato, sostenendo i cosiddetti “35 di Moria”, ospiti del campo profughi di Lesbo che in luglio, dopo alcune proteste contro le condizioni di vita nel campo, furono gasati e malmenati dalla Polizia e, varie ore dopo, tratti in arresto – tra le migliaia di altri accolti – con l’accusa di aver usato violenza. Tutto ciò per essere poi trasferiti nell’isola di Chios, dove venerdì 20 aprile saranno giudicati. Dall’altro lato, appoggiando la campagna di solidarietà #SalvarVidasNoEsDelito, in appoggio ai tre vigili del fuoco spagnoli di Proem-Aid accusati, assieme a due attivisti danesi di Team Humanity, di aver cercato di far entrare in Grecia alcuni migranti in maniera illegale. Un’accusa – per la quale sono previste pene per oltre 10 anni – alla quale risponderanno in un processo che si terrà a Mitilene, capitale di Lesbo, il prossimo 7 maggio.