Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 11 Novembre 2004

Gli immigati di Zapatero

A Siviglia. Non per (ri)ammirare le meraviglie della cattedrale, la più grande chiesa gotica del mondo costruita sulla vecchia Grande Moschea, né della Giralda, voluta dal califfo almoade nel 1184 per lanciare alto nel cielo il nome e il richiamo di Allah, né dell’Alcázar, splendido esempio dell’arte mudéjar, né per (ri)perdersi nel vivissimo dedalo del barrio di Santa Cruz, l’antica Judería, né per (ri)fare un salto nell’isla de la Cartuja, in mezzo al Guadalquivir, con le vestigia ancor fresche dell’Expo del `92 e i ponti e il viadotto di quel genio visionario di Santiago Calatrava. A Siviglia perché il governo socialista di Josè Luis Rodríguez Zapatero ha annunciato il 26 ottobre il nuovo Reglamento de Extranjería che, a partire dal 2005, consentirà ad almeno 800 mila stranieri «sin papeles» di regolarizzare la loro posizione esibendo un contratto di lavoro di 6 mesi e una residenza in Spagna di almeno 6 mesi (giudizi positivi di sindacati, Patronal e ong, negativissimi del Partido Popular che grida all’«effetto chiamata» della sanatoria). E perché l’Andalusia è – carta geografica e cifre statistiche alla mano – il naturale punto d’approdo del grande fiume della disperazione e della speranza che viene dal sud. Dal Maghreb – Marocco e Algeria prima di tutto – e da più lontano – dall’Africa sub-sahariana – ogni giorno, ogni notte decine, centinaia, migliaia di arabi e di quelli che qui chiamano «negritos» cercano di mettere piede sulle spiagge della terra promessa. Le più «frequentate» quelle di Tarifa, proprio di fronte a Tangeri e Tetuan e di Barbate. Lungo un arco che va da Cadice a ovest fino a Malaga e Almería a est, con in mezzo Algesiras, la più vicina di tutte. I due continenti, qui, quasi si toccano: 12 o 20 o 25 km che li dividono da un sogno che, come altrove è un business lucroso per i trafficante di carne umana e sovente finisce in tragedia per i migranti. Per passare lo stretto di Gibilterra la tariffa minima è di mille dollari, le carrette del mare, che qui si chiamano «pateras», molte volte non ce la fanno a resistere al sovraccarico e alla turbolenza delle acque e dei venti che si levano alla confluenza del Mediterraneo con l’Atlantico. Quasi ogni città lungo quest’arco di costa andalusa ha le sue tombe senza nome dei tanti N. N. che la risacca abbandona sulle spiagge.

La porta d’entrata

Lo stretto di Gibilterra è la naturale porta d’entrata nella fortezza Europa per i pirati moderni con i loro carichi di migranti e di droga. Quanto ai migranti, secondo i dati della Guardia civil, l’anno scorso sono stati «intercettati» 14 mila clandestini a bordo di 663 pateras, e quest’anno, fra il primo gennaio e il 31 agosto, sono stati respinti o espulsi 73.747 «sin papeles», ossia 303 al giorno. Ma per questi che sono stati «intercettati» e l’infinità senza numero che sono morti affogati, molti di più ce l’hanno fatta. Secondo l’Unione europea, del mezzo milione di clandestini che entrano in Europa ogni anno, il 25% entra dalla Spagna. E l’Andalusia – oltre alle Canarie nell’Atlantico, alla frontiera della Jonquera con la Francia a nord e l’aeroporto madrileno di Barajas – è il loro naturale punto di passaggio. Sotto pressione della Ue, la Spagna ha deciso di ampliare il SIVE, che sta per Servicio Integral de Vigilancia Exterior che finora copre le Canarie e l’Andalusia orientale ed è un sistema di radar, telecamere termiche, guardacoste, elicotteri e pattuglie terrestri della Guardia civil.

Tuttavia la Spagna, come gli altri paesi «ricchi», ha bisogno delle braccia a buon mercato e senza diritti, regolari o clandestine che siano. Anche se l’Andalusia vanta un indice di disoccupazione del 18.6%, superiore all’11% delle media nazionale, che la colloca – ormai unica fra le 17 Comunità spagnole – nella lista delle 25 regioni più arretrate della Unione europea.

Ma questi dati non importano niente ai maghrebini e ai sub-sahariani. La frontiera economica fra la Spagna e il Marocco è la più lunga del mondo, anche più lunga dei 3 mila e passa fra Messico e Stati uniti. Dice il professor Mehdi Lalou, economista dell’Istituto nazionale di statistica di Rabat, citando i dati della Banca mondiale, «il reddito pro-capite spagnolo è 13 volte più alto di quello marocchino e quello nordamericano è solo 6 volte più alto di quello messicano». Un baratro ancor più abissale se si compara la Spagna con i paesi sub-sahariani.

Ecco perché il fiume della disperazione e della speranza, nonostante controlli e repressione, non si ferma ma s’ingrossa. «La crescita spettacolare dell’immigrazione illegale dal Maghreb e in particolare dal Marocco è straordinariamente preoccupante», dice Juan Fernanbdo López Aguilar, il ministro della giustizia di Zapatero. Perché quasi inevitabilmente l’immigrazione maghrebina tende a essere identificata nell’immaginario collettivo come sinonimo di terrorismo islamico.

E’ un fatto che dopo i tremendi attentati ai treni di Madrid dell’11 marzo scorso, le indagini dei giudici Juan del Olmo e Baltasar Garzón hanno messo a nudo una inquietante e ramificata rete del terrorismo di matrice islamica e che molti degli autori di quegli attentati venivano dal Marocco e dell’Algeria, quando non addirittura da Ceuta e Melilla, le enclave spagnole in terra marocchina. L’antiterrorismo spagnola parla di alemo 300 maghrebini pronti a trasformarsi in «martiri» kamikaze, con agganci ad al-Qaeda, al Gia algerino, ai gruppi «tafkir» e «salafisti» più estremi e fanatici.

Dopo l’11 marzo – in cui solo l’ex premier Aznar, prendendo per buoni i deliri del noto Magdi Allam sul Corriere della sera, continua a vedere una connessione con l’Eta basca – 101 radicali islamici sono finiti in carcere, un numero che fa della Spagna il paese leader in materia nel 2004. Dei 60 mila reclusi nelle 77 galere spagnole, 6 mila sono maghrebini. Molti di quei terroristi reali o potenziali sono stati presi proprio qui. Anche se il delegado del gobierno in Andalusia, Juan José López Garzón, giudica «prematuro parlare dell’esistenza di una rete organizzata di terroristi islamisti in questa Comunità autonoma», il dato è inquietante. E contribuisce a stabilire l’equazione immigrazione islamica uguale terrorismo islamico.

Oggi in Spagna ci sono 2.6 milioni di immigrati «empadronados» – ossia registrati, ciò che dà diritto all’assistenza sanitaria e alla scuola per i figli -, di cui 1.3 sono con regolare permesso di soggiorno.

Nel `96, quando Aznar formò il primo governo del Partido popular dopo i 14 anni di governi socialisti, gli immigrati erano 538 mila, quasi tutti regolari. Dopo 8 anni e 4 riforme – una più dura dell’altra – dell’originaria e strettissima Ley de Extranjería del 2000 da mezzo milione si è passati a 2.6 milioni, concentrati a Barcellona, Madrid, Valencia e qui in Andalusia. Gli immigrati sono ormai il 6.2% dei 43 milioni di abitanti della Spagna. «Fino a cinque anni fa – spiega il demografo Joaqín Arango – eravamo un paese a crescita zero della popolazione, oggi registriamo una crescita formidabile, la maggiore d’Europa, grazie all’immigrazione». Nel 2003 la Spagna è stata il destino di uno su ogni tre immigrati giunti nell’Unione europea allora a 15. Una crescita che supera perfino quella dell’India. Nonostante Aznar e le sue leggi, dal `98 il numero degli immigrati si è moltiplicato per 5. Se i latino-americani costituiscono sempre il nucleo più forte – il 40% -, gli africani sono a ruota – 38-39%.

Ma (anche) la Spagna della sua popolazione immigrata ha bisogno. E ne trae, oltre ai soliti problemi, anche grossi benefici. 4 su ogni 10 posti di lavoro creati, dati forniti dagli imprenditori, sono occupati da stranieri. Grazie all’impatto vertiginoso di questi nuovi abitanti, il calcolo del Pil per il 2005 è stato corretto al rialzo, portandolo a 782 miliardi di euro, il 5% in più del previsto.

Le moschee

Secondo le stime nel 2015 gli stranieri residenti in Spagna saranno 11 milioni, uno ogni 4 spagnoli. Opportunità e problemi aumenteranno di conseguenza. Che sono assai maggiori per gli arabo-islamici che per i latini. I musulmani che vivono oggi in Spagna sono fra i 700 mila e il milione fra immigrati e i convertiti spagnoli all’Islam, che qui si chiamano morabitunes. Sparse nel paese risultano esserci 427 moschee – altri dicono 256 -, ma se a Granada, nel quariere arabo dell’Albaicin, proprio di fronte all’Alhambra, nel luglio del 2003 è stata inaugurata una sfavillante moschea – la prima moschea dai tempi della reconquista dei re cattolici nel 1492 e «la sola indipendente, non finanziata né teleguidata dall’Arabia saudita come quelle di Madrid e Fuengirola», dice Malik Abderraman Ruiz, il morabitun presidente della Comunità islamica in Spagna -, in una città come Barcellona non esiste una sola moschea degna di questo nome. Quelle che ci sono – 110 in Catalogna, 77 in Andalusia – sono al massimo degli «oratori». Poi ci sono i problemi legati al finanziamento pubblico, di cui finora solo la chiesa cattolica ha fatto una scandalosa incetta, che Zapatero si è impegnato a concedere attraverso una fondazione per le religioni minoritarie, a partire dall’esercizio finanziario del 2005. E’ di due giorni fa l’annuncio dato dalla direttrice generale per gli affari religiosi del governo, Mercedes Rico-Godoy, che a partire dall’anno prossimo si comincerà a impartire lezioni (anche) di islamismo nelle aree del paese a forte presenza musulmana.

Grandi passi, come la sanatoria, e piccoli passi di Zapatero nel tentativo di addomesticare e risolvere un problema serio. Dice Gema Martín Muñoz, islamista all’Università autonoma di Madrid, «già prima degli attentati abbiamo visto svilupparsi nel nostro paese un discorso sull’immigrazione perniciosissimo. Si reclama che dobbiamo selezionare gli immigrati a seconda delle affinità di lingua, religione e cultura. Da lì si è costruito un poderoso sentimento sociale sugli immigrati “ben accetti” e immigrati “intrusi”, quelli di origine araba e musulmana».