Verona – Gli immigrati stanno mettendo in piedi il loro
sindacato. In silenzio, sempre più numerosi, i lavoratori
stranieri si staccano dalle confederazioni che li hanno accolti a
braccia aperte al loro arrivo in Italia (in particolare la Cgil)
e cominciano a strutturare i propri Cobas. Il fenomeno nasce nel
Nordest, dove si concentra buona parte della manodopera di
provenienza extracomunitaria. Da Venezia a Vicenza, da Verona a
Treviso, alcune associazioni di migranti attive da anni hanno
deciso di federarsi alle Rdb, le Rappresentanze di base. La
prospettiva è quella di creare un vero sindacato, tutto di
immigrati auto-organizzati, con una catena di patronati che
sottraggano alle strutture «storiche» la montagna di pratiche
relative alla regolarizzazione. Il business degli stranieri,
molto redditizio per la Triplice.
Il cuore dei nuovi Cobas è a Verona, dove il Coordinamento
migranti conta 2mila iscritti su quasi 70mila stranieri regolari.
In primavera l’associazione ottenne dalla questura scaligera il
rinnovo in giornata dei permessi di soggiorno.
Un grande risultato conseguito dopo lunghe proteste. «In
qualsiasi città d’Italia – dice l’avvocato Roberto Malesani,
consulente legale del coordinamento – ci vogliono anche più di
sei mesi mentre la legge Bossi-Fini fissa un termine di 20
giorni. A Verona adesso bastano sei ore, anche se il meccanismo
sta rallentando per la carenza di personale».
Il rafforzamento degli organici è la prima richiesta del neonato
Cobas. La seconda è una maggiore elasticità nell’applicare il
nuovo regolamento della legge che obbliga i lavoratori stranieri
ad abitare in case che abbiano una superficie minima, secondo i
parametri dell’edilizia residenziale pubblica: per esempio,
alloggi di almeno 46 metri quadrati per una persona, 60 per due,
e così via. «Vogliamo parametri meno restrittivi e
discriminanti», protesta l’avvocato veronese.
Ma è la prima questione, la gestione delle pratiche, il vero nodo
sindacale. Lo snellimento burocratico in questura è un disastro
per le confederazioni: meno code, meno lungaggini, meno
scartoffie significano meno stranieri che si rivolgono ai
patronati. «Io non voglio fare nessuna polemica – anticipa
Malesani – sarei contentissimo se Cgil Cisl e Uil volessero
davvero difendere gli stranieri. Ma non lo fanno, è un dato di
fatto, e i migranti gli voltano le spalle. I sindacati non hanno
mai sostenuto le nostre rivendicazioni, non sono mai venuti in
piazza a fianco degli stranieri a ribellarsi contro le lentezze,
anzi chiedono di tornare al vecchio sistema. Perché la
burocrazia, ai sindacati, conviene».
Che fa uno straniero appena giunto in Italia? Bussa a un
patronato sindacale, la porta d’accesso ai segreti del Belpaese,
che insegna come ottenere documenti e certificati, ma anche case
popolari e sussidi di disoccupazione, indennità di
accompagnamento, posti negli asili nido eccetera. La legge
stabilisce che consulenze e informazioni siano gratis; tuttavia i
patronati ci guadagnano: più pratiche aprono, maggiore sarà il
punteggio accumulato in vista della spartizione dei finanziamenti
pubblici. I patronati infatti si sostengono con una quota (lo
0,226 per cento) del gettito previdenziale di Inps, Inpdap, Inail
e Ipsema. Soldi delle pensioni che, per il 2005, supereranno i
320 milioni di euro.
Ma ci sono pratiche che si pagano care. Per esempio, proprio il
rinnovo del permesso di soggiorno. E se queste pratiche vengono
sveltite gli incassi crollano. «Il patronato Cgil chiede 60 euro
a fascicolo – dice Malesani -, noi invece ci autofinanziamo con
una tessera di 30 euro che comprende consulenza legale (che fa il
sottoscritto) totale e gratuita. E quando anche noi apriremo un
patronato e attingeremo al fondo statale, non faremo pagare nulla
a nessuno, nemmeno i 30 euro. I sindacati tradizionali non fanno
più gli interessi degli stranieri. Solo patronati, solo
affari».
da Il Giornale del 12 novembre 2005
Gli immigrati scappano dalla Cgil e si fanno un sindacato tutto loro
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