Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Gli stranieri detenuti e le misure alternative alla detenzione

Come è noto, fino a poco tempo fa, si considerava che gli stranieri detenuti anche se arrestati quando privi di pds, dovessero essere equiparati ai cittadini italiani dal punto di vista della possibilità di beneficiare delle cosiddette misure alternative alla detenzione. In altre parole (nell’interpretazione della magistratura di sorveglianza) non faceva differenza se al momento dell’arresto, si trattasse di detenuto regolare – munito di pds – o di detenuto cosiddetto irregolare, clandestino. In ogni caso la persona condannata, così come previsto per i cittadini italiani, ha diritto di beneficiare, se ricorrono le condizioni previste dalla legge, delle cosiddette misure alternative alla detenzione che permettono di espiare la pena in base ad un trattamento fuori dalle mura del carcere, in tutto o in parte come nel caso della cosiddetta semilibertà.

Su questo non vi erano particolari dubbi e la magistratura ammetteva alle cosiddette misure alternative anche i detenuti extracomunitari privi di un valido pds in Italia, , sia pure con criteri di fatto più restrittivi di quelli applicati nei confronti dei cittadini italiani o degli stranieri regolarmente soggiornanti, ciò in quanto l’essere in condizioni irregolari spesso veniva considerato come una sorta di elemento indicatore della mancanza di effettivi e praticabili riferimenti di sostegno sul territorio.
Esempio pratico: è complicato per un detenuto irregolare ottenere l’affidamento in prova al servizio sociale perché è difficile che qualcuno gli procuri un alloggio fuori dal carcere. E’ ancora più difficile che persone in queste condizioni ottengano la possibilità di un regolare rapporto di lavoro perché vi sono dubbi di carattere interpretativo da parte delle amministrazioni, normalmente convenzionate con cooperative sociali per l’inserimento in progetti lavorativi di ex detenuti che stanno beneficiando delle misure alternative. Spesso ci sono stati posti quesiti dalle stesse cooperative sociali che hanno convenzioni con enti locali per svolgere e realizzare progetti di reinserimento lavorativo di ex detenuti, fondamentali per poter essere ammessi al godimento di queste misure alternative. Veniva spesso sottolineato, infatti, che nell’ipotesi in cui fosse stato ammesso ad un progetto di inserimento lavorativo un ex detenuto privo di pds la cooperativa non avrebbe potuto in seguito beneficiare dei contributi pubblici previsti per l’avviamento e lo svolgimento dei progetti. In altre parole, il detenuto extracomunitario irregolare o clandestino poteva usufruire di queste misure salvo incontrare maggiori problemi nella realtà pratica oltre a quelli che normalmente incontra un detenuto italiano.
Tuttavia in linea di principio questo era ammesso.

Abbiamo però un’inversione di tendenza anche nella prassi quotidiana dei tribunali di sorveglianza, in base ad una recente sentenza, la n. 30130 della Corte di Cassazione Penale sezione I^ del 17 luglio 2003. Con questa sentenza viene ribaltato un orientamento interpretativo di fatto consolidato da lungo tempo. In essa si sostiene che l’affidamento in prova al servizio sociale e in genere tutte le misure di trattamento al di fuori del penitenziario alternative alla detenzione non possono essere applicate allo straniero extracomunitario che si trovi in Italia in condizioni di clandestinità, poiché tale condizione renderebbe illegale la permanenza del medesimo straniero nel territorio dello Stato e non si potrebbe ammettere che l’esecuzione della pena abbia luogo con modalità tali da comportare la violazione o l’elusione delle norme che rendono configurabile detta illegalità.
In termini più semplici, si vuol dire che ci sarebbe un’incompatibilità tra il godimento delle misure alternative alla detenzione e la condizione di irregolarità di soggiorno. Incompatibilità che viene affermata e risolta dalla Corte di Cassazione con l’esclusione categorica di possibilità di godere di qualsiasi misura alternativa alla detenzione da parte di uno straniero privo di pds.
Ci sarebbe poi da vedere cosa si intende con “straniero privo di pds” in quanto abbiamo più volte verificato che lo straniero che al momento dell’ingresso in carcere aveva un pds, poi non riesce di fatto a rinnovarlo, quindi c’è il rischio che tutti gli stranieri detenuti, anche se originariamente in regola con il soggiorno, vengano poi trattati come se fossero dei semplici clandestini.
La sentenza del 17 luglio trae origine, per l’appunto, dall’impugnazione da parte del Procuratore della Repubblica di un’ordinanza del 17 aprile del 2002 del Tribunale di Sorveglianza di Taranto, che a suo tempo aveva disposto l’affidamento in prova al servizio sociale di una cittadina extracomunitaria priva di pds affermando quanto costituiva un orientamento consolidato, ossia che la pena deve essere obbligatoriamente espiata e quindi che una diversa soluzione comporterebbe un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto ai condannati alla pena detentiva che siano cittadini italiani oppure stranieri in possesso di regolare pds.
In altre parole, la misura alternativa alla detenzione è pacificamente una forma di espiazione della pena, una forma alternativa che però viene computata – non a caso – ai fini dell’espiazione della pena. Quindi anche il periodo di semilibertà o di affidamento in prova al servizio sociale è a tutti gli effetti per legge un periodo di espiazione della pena.
Conseguentemente, poiché l’espiazione della pena è obbligatoria e non si potrebbe ammettere una disparità di trattamento tra cittadini stranieri regolarmente soggiornanti e stranieri irregolarmente soggiornanti, le stesse misure devono (quantomeno in linea teorica) essere ammesse per i cittadini extracomunitari privi di un regolare pds.
Questo in effetti era l’orientamento consolidato della magistratura ma la Corte di Cassazione, con questo provvedimento, ritiene invece che non sia ammissibile perché non vi è compatibilità con le norme che disciplinano l’ingresso e il soggiorno nel territorio italiano.

In altre parole, la Corte di Cassazione afferma una ontologica incompatibilità tra misure alternative fuori dal carcere ed esecuzione della pena nei confronti dello straniero clandestino. Questo, tra l’altro, troverebbe conferma – sempre secondo la Corte di Cassazione – in quella norma introdotta dalla legge Bossi Fini che prevede all’art.16 del T.U. la sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione per i c.d. “clandestini”, ovvero l’espulsione con l’allontanamento obbligatorio del condannato dal territorio italiano nel caso in cui abbia subito una condanna a una pena inferiore a due anni di reclusione o abbia una pena residua da scontare inferiore ai due anni. In altre parole, questa previsione sulla misura alternativa o sostitutiva alla detenzione sotto forma di espulsione, confermerebbe l’incompatibilità tra la fruizione delle misure alternative e la condizione di irregolarità del soggiorno.

Per la verità questa sentenza (che tra l’altro consta di una motivazione assolutamente sintetica) lascia pensare e suscita quantomeno perplessità. Suscita perplessità specialmente l’ultima affermazione laddove si sostiene che la conclusione a cui è pervenuta la Corte di Cassazione non si presterebbe a dubbi di legittimità costituzionale poiché la disparità del trattamento riservato ai cittadini e agli stranieri regolarmente presenti nel territorio dello Stato rispetto ai clandestini troverebbe giustificazione nella differenza delle situazioni giuridiche che fanno capo a queste diverse categorie. In altre parole, esiste sì una disparità di trattamento ma ci sarebbero anche diverse condizioni che giustificherebbero questa disparità di trattamento.

Ad avviso del sottoscritto, la sicurezza ostentata dalla Corte di Cassazione nell’escludere i difetti o rilievi di legittimità costituzionale rispetto alla soluzione prospettata, non sembra così pacificamente condivisibile perché esistono dei principi generali rispetto ai quali non sembra che le argomentazioni della Corte risultino convincenti.
Innanzitutto, come aveva giustamente affermato sia il Tribunale di Sorveglianza di Taranto e più in generale praticamente tutti i Tribunali di Sorveglianza, l’esecuzione della pena è obbligatoria. Non ci può essere da questo punto di vista nessuna disparità di trattamento tra soggetti regolarmente soggiornanti o soggetti irregolarmente soggiornanti e cittadini, perché la legge è uguale per tutti.
D’altra parte è altrettanto pacifico che la pena ha una funzione rieducativi, quindi indipendentemente dal fatto che il detenuto sia straniero clandestino o regolare, la funzione della pena è parimenti uguale per tutti i soggetti. Per tutti il trattamento detentivo, come pure le misure alternative, hanno la funzione di promuovere la rieducazione del soggetto e la sua reintegrazione nella società.
Questo anche indipendentemente dal fatto che poi, a pena espiata, debba eventualmente essere eseguito un provvedimento di espulsione per mancanza di un valido pds in Italia. In altre parole, se una persona si è per così dire rieducata, poi può mettere a frutto la sua rieducazione anche nel suo paese d’origine, dopo l’espulsione. Questo non sarebbe impedito dall’attuale normativa, tuttavia la medesima funzione rieducativa dovrebbe valere per tutti i soggetti che in Italia sono detenuti o ammessi alle misure alternative.

Un altro principio pacifico è che per legge e non per opinione del sottoscritto, le misure alternative alla detenzione sono a tutti gli effetti forme di espiazione della pena e, non a caso, si contano come se fossero anni, mesi, settimane o giorni di detenzione ai fini del computo della pena residua. Di conseguenza non si vede perché non vi dovrebbe essere anche sotto questo profilo una parità di trattamento.
D’altra parte l’argomento forte utilizzato dalla Corte di Cassazione – ossia l’attuale introduzione da parte della legge Bossi Fini della misura alternativa o sostitutiva alla detenzione come l’espulsione per chi si trova in determinate condizioni – non confermerebbe l’incompatibilità con la possibilità di fruire delle misure alternative Questo per il semplice motivo che le espulsioni sotto forma di misura sostitutiva o alternativa alla detenzione non sono provvedimenti automatici ma provvedimenti che possono essere adottati dal magistrato competente, come pure possono non essere adottati. In altre parole, quantomeno nei casi in cui non si ritenesse di applicare l’espulsione come misura alternativa o sostitutiva, non dovrebbero esservi ostacoli perché il giudice possa riconoscere l’ammissibilità del soggetto alle misure alternative in ragione delle sue particolari condizioni e della condotta precedente.

In buona sostanza, i dubbi sulla disparità di trattamento tra stranieri cosiddetti clandestini o stranieri regolarmente soggiornanti e cittadini italiani per quanto riguarda l’assoggettamento alla legge – che è uguale per tutti – e quindi i dubbi di legittimità costituzionale permangono. L’unica possibilità a questo punto (visto che la Corte di Cassazione ha affermato questo orientamento) per i magistrati di sorveglianza che dovessero avere delle perplessità sulla correttezza di questo ragionamento giuridico è sollevare la questione della legittimità costituzionale quindi chiedere direttamente alla Corte di pronunciarsi a riguardo con particolare riferimento alla parità di trattamento dei soggetti di fronte alla legge penale.
Non mancheremo naturalmente di dare informazione sulla eventuale proposizione di ricorsi di questo genere, chiedendo anche a chi è interessato alla materia di fornirci informazioni che dovessero essere raccolte sul territorio.