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Gradisca d’Isonzo – Perché non riapra mai più

In queste ore si susseguono informazioni su una possibile riapertura nel 2015. i lavori sono quasi ultimati. La politica gioca ancora sulla pelle dei migranti e la vita dei territori

Sul CIE di Gradisca regna grande confusione. Secondo i piani del Viminale, sembra, la struttura di via Udine, chiusa dopo le rivolte di novembre, potrebbe ritornare ad essere la prigione di centinaia di migranti rinchiusi fino a 18 mesi tra le pareti di quel lager d’acciaio e cemento già nei primi mesi del 2015. L’ultimo passaggio, che assomiglia ad una flebile speranza, avverrà in questi giorni quando la neo-eletta Linda Tomasinsig, Sindaco di Gradisca, cercherà di mantenere aperta un’ipotesi contraria all’apertura, portando le istanze delle istituzioni locali di fronte al Comitato parlamentare per l’applicazione dell’Accordo di Schengen.

La storia del CIE di Gradisca è una storia di violenze e corruzione, di distorsioni prodotte sulla pelle dei migranti e di un intero territorio. Ma quella del CIE è anche una vicenda segnata da decine di denunce e rapporti di associazioni, movimenti e organi istituzionali (non ultima la ASL che ravvisava una intrinseca inadeguatezza all’accoglienza delle persone), che in questi anni hanno portato alla luce la realtà di un luogo considerato inumano anche dalla stessa magistratura. Ma quella del centro è soprattutto una storia di rivolte, una lunga stagione di ribellione da parte di chi si è opposto senza mezzi termini allo scempio della dignità, alla violazione sistematica dei propri diritti, fino a rendere largamente inagibile la struttura a tal punto da costringerne la chiusura.

Solo qualche mese fa alcune dichiarazioni confuse del Ministro Alfano avevano aperto la speranza di una chiusura definitiva del capitolo Gradisca. Sul piatto il Ministro aveva aperto all’ipotesi di un allargamento del CARA (che occupa metà del centro di via Udine). Anche da questo punto di vista le istituzioni locali avevano puntualizzato che, un eventuale allargamento del Centro per Richiedenti Asilo, doveva comunque servire per mettere fine al suo sovraffollamento e non invece ad aumentare i posti di un luogo di attesa che non permette di costruire alcuna condizione di inserimento, come invece potrebbe fare la progettazione di una accoglienza diffusa e ragionata sul territorio.

Qualsiasi sia però l’ipotesi, gli scenari che si sono aperti in questi giorni gettano lunghe ombre sul destino del centro. Perché mentre nel Mediterraneo si continua a morire, i lavori di ristrutturazione della struttura si avviano alla conclusione, che avverrà probabilmente entro ottobre. Alfano parla di una “rimessa in opera” del centro, con un totale di 800 mila euro spesi. E questo non fa ben sperare. Perché i plexiglas protettivi, il rafforzamento delle recinzioni e dei sistemi di sicurezza, non possono che gettare l’allarme sulla volontà di riaprire il CIE o peggio, introdurci in un scenario in cui, un ipotetico allargamento della struttura per richiedenti asilo, li vedrebbe costretti a vivere una nuova forma di “accoglienza” fatta di sbarre e gabbie.

Da ogni punto di vista, insomma, salvo sorprese dell’ultima ora, il futuro del centro di Gradisca d’Isonzo dovrà ritornare con forza al centro della nostra attenzione. Perché la storia di quel CIE e delle battaglie per la sua chiusura è un patrimonio di memoria troppo prezioso per essere cancellato dall’ostinazione della politica europea sull’immigrazione, fatta di frontiere e mura di cemento armato nel tentativo di imbrigliare la libertà di movimento e la dignità degli esseri umani.
Frontiere e confini che però si passano facilmente a pagamento mentre le guardie guardano ma altrove. Mura di cemento che servono da istituzione totale di ammonimento e controllo e nemmeno al loro scopo statutario.

Eppure, di nuovo, forse già ad ottobre di quest’anno, il Cie di Gradisca sarà in grado di contenere 238 persone. Il prefetto Vittorio Zappalorto sostiene: “la mia esperienza nel settore mi suggerisce di considerare in un’ottantina il limite massimo di immigrati da ospitare. Andare oltre a questo numero in caso di rivolta comporterebbe conseguenze pesanti sotto il profilo dell’ordine pubblico.”

Ecco, è proprio questo il punto: non si tratta di comprendere quanti o quali migranti debbano essere trattenuti, ma di cancellare definitivamente l’esistenza di un luogo in cui sono necessari psicofarmci per non impazzire, lamette da barba e pile ingoiate per potersi allontanare dall’incubo e passare qualche giorno in infermeria, lacrimogeni per privare della libertà, mura per contenere il desiderio legittimo di vivere liberi.

Perché se di confini si muore nel Mediterrano, sappiamo che di confini si muore anche quando questi prendono la forma di galere etniche, come è successo a Majid, morto in aprile perché caduto dal tetto durante una rivolta, mentre la polizia sparava i lacrimogeni sui migranti all’interno del centro.

E allora, se pensate di cancellare la storia delle vostre brutalità non abbiate dubbi, non temete, ci rivedremo davanti a quelle mura, per ricordarvi il nostro No al CIE di Gradisca, perché rimangano vuote veramente, questa volta per sempre.