Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 18 marzo 2009

Guerra a Castelvolturno

La strage è passata. Via alla caccia

Pattuglie miste esercito-polizia girano in assetto da guerra per le vie di Castelvolturno. Camionette e blindati fanno avanti e indietro lungo la Domitiana, una lingua di asfalto che segue la linea di costa da Lago Patria fino al Lazio. Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, dopo la strage dei sei migranti del 18 settembre scorso, ha fatto del litorale casertano il banco di prova della politica di repressione del governo. Tra settembre e gennaio sono finiti in galera i responsabili dell’eccidio, il braccio armato del clan Bidognetti capeggiato da Giuseppe Setola, che tentava la scalata nell’organigramma dei casalesi a suon di kalashnikov. Il perché della spedizione di sangue però l’intelligence non l’ha fornito. Una prova di forza per dimostrare chi comanda o un messaggio agli africani: stanno arrivando i fondi dell’accordo di programma per la riqualificazione del territorio così non servite più. Sei cadaveri a terra e una vita quotidiana di inferno, ma per molti in paese «i neri» sono un problema, nonostante Castelvolturno di fatto funzioni come il Sudafrica di De Klerk: gli africani chiusi in ghetti a offrire manodopera a basso costo e i bianchi a occupare gli spazi del centro storico.

In circa 30mila nel 2008 sono sbarcati a Lampedusa, di solito vengono smistati nei diversi centri di accoglienza in Italia, dopo alcune settimane escono per far posto ad altri. Buttati in mezzo alla strada senza alcun programma di inserimento, liberiani, ghanesi, nigeriani, togolesi non avendo altri riferimenti se non quello dei propri compaesani, arrivano a Castelvolturno. Gli uomini lavorano nell’edilizia e nelle campagne, le donne come badanti oppure forniscono servizi alla comunità, come mense etniche in casa, negozi di abiti, cibo o parrucchieri. «Vivono da noi per anni e non imparano mai la lingua, non serve, non vengono mai a contatto con gli italiani, è sufficiente capire quei due, tre ordini che ricevono dal caporale» racconta Mimma, del centro sociale ex Canapificio, che lavora allo sportello per l’assistenza legale ai migranti: «Parliamo con loro in inglese o in francese, alla fine siamo noi che abbiamo assimilato un po’ dei loro dialetti. I loro figli vanno a scuola, imparano l’italiano e vivono a cavallo di due culture, spesso non riconoscendosi in nessuna».

Castelvolturno conta circa 20mila abitanti, di cui 18mila italiani e duemila stranieri regolarmente iscritti all’anagrafe. Di fatto la popolazione dei migranti ammonta in tutto a circa 6.500, di cui più della metà è senza permesso di soggiorno. Si tratta soprattutto di africani, alcuni giunti in Italia sbarcando sulle coste siciliane, altri in volo dai loro paesi. Di quelli arrivati via mare la maggior parte sono richiedenti asilo, o in attesa di audizione o hanno ricevuto un diniego dalla Commissione. Tra quelli giunti in Italia in volo la maggioranza è entrata con regolare visto di ingresso, che dopo qualche mese scade. Pagano dai 50 ai 100 euro a testa per vivere in appartamenti abusivi, spesso senza fogne e servizi, alle quattro di mattina sono già negli autobus di linea, tra i più frequentati l’M1, per raggiungere le rotonde dove vengono caricati per lavorare a giornata, la paga varia da 10 ai 25 euro se sono fortunati, perché può capitare di faticare per niente, vivere senza documenti significa sopportare un ricatto continuo. «Nella rotonda di Ischitella c’è la caserma dei carabinieri – racconta Mimma – Il mese scorso un ragazzo è stato minacciato con la pistola sotto lo sguardo delle forze dell’ordine, voleva solo la sua paga. C’erano 23 testimoni ma non conta, quando sei di colore è come se non ti vedessero». Lavorano per nulla, vengono rapinati per strada dai ragazzi del luogo, anche i loro risparmi a casa non sono al sicuro, si tratta di furti facili, nessuno denuncia, finirebbero in un Centro di identificazione. Anche le nigeriane che vogliono smettere di prostituirsi non vanno alla polizia, sono le associazioni sul territorio che le avviano in un percorso che le porta fuori dallo sfruttamento: La denuncia significherebbe espulsione la semplice denuncia porterebbe all’espulsione, per finire di nuovo per strada con il debito da pagare raddoppiato.

Lavorano, comprano, pagano l’affitto al nero, ma sono troppi, se ne devono andare, dice la gente al bar. Maroni, lo sceriffo, veglia sullo stillicidio di retate che si sono susseguite da settembre. L’operazione più spettacolare si è svolta presso il Condominio Colella, un ecomostro figlio della politica del mattone facile anni ’60/’70, che il governo vuole riportare in auge. Nella zona lo chiamano American Palace perché ci vivevano i militari americani di stanza a Pozzuoli. Andati via loro, sono arrivati gli africani: circa 250 residenti distribuiti in 25 appartamenti, stanze grandi da stipare fino all’inverosimile. Il 20 novembre alle cinque del mattino è arrivata la cavalleria: esercito, forze dell’ordine e pompieri per sfondare porte e rastrellare extracomunitari. Obiettivo: latitanti, armi e droga. Risultato: dell’operazione sessantanove lavoratori africani trasferiti nei Cie di Modena, Bologna, Lamezia e Ponte Galeria. Scortati singolarmente in auto con tre uomini a bordo, come pericolosi criminali. A Bologna sono stati subito liberati, perché il giudice ha riscontrato numerose irregolarità, negli altri casi è stata fatta solo una ricognizione amministrativa, così sono rimasti chiusi da una settimana a sessanta giorni, in tre sono stati rimpatriati, in sessantasei sono tornati a Castelvolturno con l’ennesimo foglio d’espulsione in tasca. Latitanti, armi e droga non pervenuti. L’operazione però è costata alla collettività complessivamente circa 200mila euro.

Iniziative analoghe sono seguite: a gennaio agenti del locale commissariato più cinquanta poliziotti e sei camionette dei militari, stipate di soldati in assetto antisommossa, si sono mossi alla conquista di Parco Lagani, proprio di fronte al Villaggio Coppola. Un blitz durato quattro ore per arrestare cinquanta lavoratori migranti finiti nel Cie di Ponte Galeria. Stessa sorte per gli africani della zona tra via Messina e via Palermo, scortati nel Cie di Bari. Altri vengono rastrellati direttamente alle rotonde: «Ci hanno presi a Califfo ground», ci dicono. Califfo è il nome che danno al caporale, un termine che hanno imparato in Libia, una delle tappe obbligate per arrivare da noi. Strano, però, che l’intelligence continui a sparare nel mucchio e non riesca a individuare le basi dei narcotrafficanti, intatte. Un mistero solo per loro perché in zona le conoscono tutti. «Anche quelli che trovano un datore di lavoro che li vorrebbe assumere regolarmente – spiega Mimma – si trovano di fronte a una legge che impedisce di regolarizzare gli irregolari. E’ così che il migrante è costretto a nascondersi per sfuggire ai controlli di polizia e spesso a mischiarsi con veri criminali (spacciatori e sfruttatori) che invece non hanno difficoltà a procurarsi un permesso di soggiorno. Lo sanno tutti, incluso il governo, che il decreto flussi è una presa in giro».

Vengono da Castelvolturno la maggior parte dei braccianti di colore delle campagne italiane: in autunno raccolgono arance e mandarini a Rosarno, poi a maggio si spostano in Puglia e Basilicata (soprattutto nel foggiano e nel potentino) per la raccolta dei pomodori, dopo l’estate arrivano fino in Sicilia, a Cassibile, per le patate.

Un’intera economia funziona grazie a loro ma l’unico modo per finire sui giornali è in forma di emergenza criminalità. Così il ministero dell’Interno ha deciso che anche in Campania dovrà essere istituito un Cie, il luogo scelto una caserma dell’esercito dimessa a San Nicola alla Strada, a due passi dalla Reggia di Caserta: «Siamo contrari a tutti i Centri di identificazione figuriamoci se ne vogliamo uno qui – ribatte Jamal Quaddora, responsabile regionale immigrati della Cigl – e non lo vogliono nemmeno i sindaci di Caserta e San Nicola, che hanno scritto al ministro. I migranti sono una risorsa multietnica per il territorio, la polizia deve servire per il contrasto alla camorra».

Mentre sui giornali si discute in modo isterico di sicurezza, le associazioni non si lasciano distrarre e continuano a chiedere come saranno utilizzati i fondi per la riqualificazione del territorio, «per i campi da golf a 18 buche o per ripulire uno dei litorali più inquinati d’Italia – conclude Mimma – per far arricchire l’industria del cemento o per fornite servizi a una collettività deprivata di tutto, a prescindere dal colore della pelle?». Qui, a partire dagli anni sessanta, è stato realizzato il più grande abuso edilizio d’Italia, il Villaggio Coppola – Pinetamare, ma anche una galassia di ristoranti, bar, villette, grattacieli, alberghi, persino una chiesa, una scuola, un ambulatorio e una caserma dei carabinieri, tutto abusivo. Una colata di cemento che ha ricoperto terreni del demanio statale e comunale, accanto ai suoli privati. Sullo sfondo il sogno, finito presto, della villeggiatura di massa, con la camorra che governava il processo fornendo prima cemento, ferro, legno e manodopera. Rifiuti da interrare illegalmente poi. Il 18 aprile la comunità migrante tornerà in piazza per una manifestazione nazionale (appuntamento alle 9.30 proprio all’American Palace), con loro il Centro sociale ex Canapificio, Caritas, Comboniani di Castelvolturno, l’associazione Jerry Masslo, Cgil, Arci, Agesci per promuovere il Patto sociale di solidarietà per i diritti di cittadinanza, cioè percorsi di emersione dalla clandestinità, accoglienza e inclusione.