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I Giuristi democratici di Padova sull’Hub di Cona (Ve)

Un report della delegazione di avvocati entrata alla base di Conetta

La visita svolta sabato 23 aprile all’Hub di Conetta, cui abbiamo partecipato con una nostra delegazione, composta dalla Presidente della nostra associazione, avv. Maria Monica Bassan, e dalle avv. Giorgia Marzotto e Aurora d’Agostino, ha confermato la nostra posizione critica rispetto al sistema “accoglienza” in atto nel Paese e, in particolare nei nostri territori.
Nell’Hub di Cona stazionano in media, da novembre 2015 ininterrottamente oltre 500 rifugiati (il 23 aprile erano precisamente 542) ma il numero è variabile e non definitivo: sono grandi numeri, che da soli riflettono allarme dentro e fuori la struttura; nel piccolo Paese di Cona con meno di 3.000 abitanti e nel circondario si vive questa realtà “d’emergenza” come una vera e propria invasione.
Le condizioni di vita all’interno del Centro, (che ricordiamo era e rimane una struttura militare blindata), sono inammissibili: in un contesto di accoglienza strutturale: ogni rifugiato di fatto ha solo un posto letto in letti a castello addossati l’uno all’altro, o in camere anguste o in tendoni enormi con oltre cento persone che ci dormono dentro, senza neanche una sedia o un posto dove appoggiare i propri vestiti.
Non entriamo nel merito dei requisiti edilizi, tecnici e sanitari degli spazi, facilmente assicurati da disposizioni regolamentari e giustificati da necessità impreviste , ma abbiamo visto e e prendiamo atto che i rifugiati non hanno nient’altro che un posto letto, sul quale o sotto il quale sono costretti a tenere tutto, dai vestiti loro forniti, alle scarpe, ai propri effetti personali (chi ne ha).
Non abbiamo avuto modo di verificare la qualità e quantità dei pasti (veicolati e porzionati in loco) loro somministrati. Ovvio, tuttavia, che è estremamente difficile che gli alimenti forniti siano graditi ed accettati da centinaia e centinaia di persone di diversa provenienza, etnia e cultura anche religiosa.
Il problema non è solo l’oggettivamente sovraffollamento delle camerate, unico posto, oltre alla mensa, dove possono stare le centinaia di esseri umani anche di giorno, ma la lontananza della base dai centri abitati, l’isolamento a cui sono relegati, l’inerzia a cui sono obbligati stante l’assenza di effettive attività ricreative o educative loro proposte. Gli. “ospiti” sono di fatto costretti a permanere in una dimensione di bivacco collettivo che può generare facili contrapposizioni e insofferenze. Situazioni, quindi, necessariamente “a rischio”, come tutti i luoghi in cui vengono ammassati grandi numeri di soggetti, prevalentemente giovani, diversi e privi di tutto, anche di risorse economiche (tali certo non potendosi considerare i 2, 50 euro al giorno che vengono loro consegnati ogni 15 giorni).
Abbiamo anche visionato la stanza riservata all’eventuale temporaneo trattenimento di “soggetti vulnerabili” (donne e minori): in realtà, più che una stanza, una cella, buia ed ingombra di letti a castello, situata nello stesso stabile delle camerate comuni. Condizioni di sicurezza, quindi, assicurate solo se ci si chiude entro a chiave. Considerato che, a quanto ci è stato detto dai responsabili del centro, la pratica per verificare tramite esami di tipo medico l’effettiva minore età impiega più o meno 20 giorni, ci pare una sistemazione decisamente incongrua.
Ci chiediamo e chiediamo se l’asserita accoglienza possa ridursi ad un pasto ed un letto: Cona, ma anche le strutture successive di prima accoglienza, dovrebbero essere temporanea ma ci hanno confermato che le persone, per lo più ragazzi dai venti ai trent’anni, rimangono nella base militare molti mesi. E’ inimmaginabile che non si sia in grado di dare risposte immediate, in termini di salute, di sostegno psicologico, di mediazione linguistica e culturale a persone che sono sole, senza apparente futuro, in fuga da sofferenza e disperazione
Se permangono queste condizioni di ospitalità, nessuna accoglienza può dirsi reale.
E poiché l’esigenza di accogliere (doverosamente e dignitosamente) i profughi non accenna a diminuire, è necessario che si prenda atto del fallimento e della pericolosità di queste strategie emergenziali, di questi “ammassi” di esseri umani relegati nelle estreme periferie e praticare invece una politica dell’accoglienza che consenta l’inserimento nelle comunità locali di gruppi di profughi composti da numeri ridotti, nell’interesse di tutti.