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I diversi aspetti delle politiche di controllo della mobilità

Dalla rivolta della comunità cinese agli sbarchi di Porto Empedocle.

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A qualche giorno di distanza dalla rivolta della cosiddetta “Chinatown milanese” è possibile forse provare a riflettere su quanto è accaduto lo scorso giovedì 12 aprile in Via Paolo Sarpi.
Abbiamo chiesto a Ulia Conti e a Federica Sossi, due cittadine di Milano che, in contesti diversi, sono da anni vicini alle questioni politiche legate alle migrazioni nel nostro paese, di raccontarci il loro punto di vista e aiutarci a trovare una prospettiva diversa per interpretare gli avvenimenti in questione.
Il presupposto da cui parte Federica Sossi è che si possa parlare di quanto è accaduto “solo inserendolo in un contesto più generale articolato sia a un livello locale milanese-lombardo, sia a un livello globale: sul primo livello, quello che è successo con la comunità cinese è una delle tante forme di controllo e di attacco a tutti quei fenomeni che a Milano e in Lombardia sviluppano una modalità indipendente e autonoma di esistenza, anche attraverso forme di esistenza economica, diversa rispetto al modello che si vuol fare valere come modello normale o normativo”. “Non a caso”- continua Federica – “queste forme di controllo si stanno sviluppando a Milano, una delle città più produttive d’Italia. Il controllo dell’economia del tutto parallela dei grossisti cinesi passa attraverso l’ invenzione di strane forme di protezionismo comprensibili soltanto nel caso in cui la forma autonoma di economia che viene attaccata, tra l’altro del tutto liberista, ha a che fare con delle persone “etnicamente” diverse. Questa forma di protezionismo è comprensibile quindi solo se la si legge in una chiave razzista”. Per Federica quanto avvenuto con la comunità cinese attarverso l’imposizione di regole molto restrittive per l’attivita commerciale di Via Paolo Sarpi, è abbastanza simile a quello che, poche seettimane fa, è accaduto rispetto ai Phone center milanesi quando un regolamento regionale ha preteso dai proprietari di questi esercizi degli adeguamenti logistici sostenazialmente inattuabili: “Si tratta cioè di forme di controllo sempre più insistenti seppur invisibili, e non è un caso che la rivolta al quartiere cinese sia scoppiata su una multa, e quindi sull’intervento della polizia municipale che è diventata a Milano quella forme di controllo deputata a stabilire delle nuove linee di confine”.

La politica portata avanti dall’amministrazione Moratti, nelle parole di Ulia Conti, “ha preso di mira tutte le comunità etniche di Milano creando mappature improbabili di una città divisa in quartieri buoni e quartieri cattivi da bonificare”. E la memoria corre ai terribili fatti di Opera, quando alcuni cittadini milanesi hanno dato fuoco al campo rom, o alla triste conclusione della vicenda di Via Lecco, dove centinaia di rifugiati politici avevano creduto di poter trovare una casa e sono stati poi sgomberati, o amcora ai permessi negati alla scuola araba e alla mancata soluzione dei problemi legati alla moschea di Milano. “Se anche la tranquillissima Chinatown è esplosa”, ci racconta ancora Ulia, “è il frutto di mesi e mesi di tensione accumulata. L’unica differenza, come tenevano a sottolineare i ragazzi cinesi nel corso della mobilitazione del 12 aprile, è stata che a fronte delle vessazioni, delle intimidazioni, delle provocazioni di tipo sistematico da parte della polizia locale, e di fronte all’ennessima violenza, la gente ha deciso di fermare l’attività e tirare giù le saracinesche per scendere in strada e ribellarsi. Fatto che rappresenta sicuramente una sorta di “Anno Zero” che rompe un silenzio che c’è da troppo tempo. Cade così la divisone fittizia tra migranti cattivi e migranti buoni che lavorano e che prima erano risparmiati da queste campagne di tipo demagogico e razzista”.
Come residente di Via Paolo Sarpi, Ulia ci parla poi di come quella sia in realtà “una delle poche zone vivibili di Milano” e di quanto “sembri estremamente ridicolo mettere al centro dei problemi di una città i carrellini dove i cinesi trasportano le merci e marchiare per questo una comunità e una zona. Il contesto in cui si sviluppa questo tipo di attacco” conclude Ulia “probabilmente non va cercato nella ragione strumentale e locale del carrellino né tanto meno in vicende milanesi. Il contesto di questo attacco al lavoro migrante che va a rompere un’ipocrisia fondata sul fatto che l’integrazione è possibile per quelli che stanno alle regole e si mettono al lavoro, si sviluppa sicuramente oltre Milano”.

E infatti, passando a ragionare sul secondo livello, quello per così dire “globale”, Federica Sossi inserisce la vicenda di via Sarpi tra “tutte quelle strategie di confinamento che le nuove tipologie di controllo e le nuove forme di frontiera stanno stabilendo rispetto alla mobilità migrante”.
Le chiediamo se a suo parere esista una connessione possibile tra le politiche repressive che si attuano alle frontiere rispetto ad esempio agli arrivi dei migranti per mare (lo stesso giorno della “rivolta cinese” svariate decine di migranti africani sono sbarcati a Porto Empedocle) e le politiche altrettanto pesanti che esasperano le comunità stanziatesi ormai da decenni sul territorio italiano.
Sono fenomeni diversi” ci risponde Federica “che permettono però di vedere quella che è una politica comune di confinamento rispetto al controllo delle migrazioni, una politica che, da una parte, ha bisogno di spettacolarizzare alcuni luoghi come ad esempio le frontiere sud dell’Italia e dell’Europa per far passare l’immagine dei migranti come invasori (quando poi se si legge meglio il fenomeno delle migrazioni ci ci rende conto che da Lampedusa, ad esempio, transita una minima parte dei migranti presenti in Italia) e, dall’altra, ricorre a tutta una serie di controlli del tutto invisibili che segnano linee di confine, anche tra i migranti stessi, e che sempre più gli Stati delegano a soggetti altri, come ad esempio le agenzie marittime, aeree, turistiche, la polizia locale di Milano o, come nel caso dei Phone center, i migranti stessi”. In questo caso, infatti, “il decreto Pisanu esige che i proprietari di phone center che chiedano un documento di identità e un documento di soggiorno a chi vuole telefonare e usare internet. Diciamo quindi che si chiede ai migranti stessi di autocontrollarsi visto che sono loro, solitamente, a gestire i phone center. Gli si chiede, insomma, di esercitare il ruolo di poliziotti. Il che fa sì che i phone center siano diventati oggi in Italia forse l’archivio di Stato più importante dopo quello delle questure”.
Le politiche di controllo delle frontietre, infine, come i regolamenti vessatori nei confronti dei commercianti migranti, sarebbero volte da un lato alla costruzione “di una forza lavoro che deve esser inserita in determinati modi all’interno del mercato del lavoro” e dall’altro, anche in maniera contraddittoria, “a creare forme di protezionismo rispetto a chi acquisisce una modalità autonoma di gestione del proprio lavoro”.
Quella di Milano, ci dice ancora Federica, “è la prima rivolta di migranti così forte dal punto di vista economico. È la risposta al fatto che si sta colpendo proprio quella capacità di diventare “piccoli imprenditori di se stessi”, quella capacità imprenditoriale di autonomia, che invece viene richiesta generalmente a tutti quanti, dai lavoratori a progetto, ai piccoli commercianti eimprenditori, in tutte le forme flessibili del mercato del lavoro”.

Un’ultima nota alla vicenda di Via Sarpi è l’apparizione, nella notte tra sabato e domenica scorsi, di scritte offensive nei confronti della comunità cinese corredate da croci celtiche, e manifesti firmati Forza Nuova che offrivano ai cittadini italiani un numero verde per essere difesi dalle ingerenze degli stranieri. Fatti, questi, che danno riprova di come le politiche istituzionali producano le identità dei cittadini cui sono rivolte e abbiano un ruolo decisivo e una grandissima responsabilità nella costruzione dell’immaginario delle città in cui esercitano il proprio potere. Non è probabilmente una coincidenza che a Milano in questi giorni sia avvenuto un raduno generale di svariate forze di estrema destra che condividono tutte contenuti razzisti e xenofobi.

Quello che accadrà adesso in Via Sarpi è intanto oggetto di discussione un po’ in tutta Italia e non solo a Milano. Continuano le assemblee, le riunioni, e i momenti di dibattito e confronto all’interno della comunità cinese divisa tra quelli che vogliono continuare a portare avanti una mobilitazione e quelli che vogliono tornare al normale ritmo della loro attività quotidiana. Nessuno di loro, però, tollererà più soprusi o vessazioni. Da notare, come sottoline Ulia, che “sono soprattutto le giovani donne, e in generale le nuove generazioni, a volere tenere alto il ritmo della mobilitazione”.

Giovani cinesi nati in Italia che parlano perfettamente la nostra lingua e vivono esattamente come italiani, pur con un portato enorme di tradizione e storia legate alla loro origine.
Migranti fermati o uccisi alle frontiere dell’Unione europea mentre cercano di arrivare da questa parte del mondo.
Facce diverse e parallele di uno stesso immenso fenomeno che nessuna politica di nessun governo potrà mai veramente governare e che continua su livelli e con modalità diverse, a sviluppare formidabili strategie di resistenza.