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I guardiani del Leviatano sovranazionale

Frontiere Blindate. «Polizia della frontiera. Frontex e la produzione dello spazio europeo» di Giuseppe Campesi per DeriveApprodi

di Dario Melossi

Difficile pensare ad un libro più «topico» di questo appena apparso di Giuseppe Campesi, Polizia della Frontiera. Frontex e la produzione dello spazio europeo (DeriveApprodi, pp.236, euro 17), specialmente perché tratta di questioni delle quali quotidianamente leggiamo e vediamo nelle news. Sembra essere in corso un tentativo di revisione della struttura, compiti e ruolo della «Guardia di frontiera europea» o come la si vorrà chiamare. Campesi ci fa vedere come Frontex costituisca un osservatorio privilegiato dal quale scrutnare in realtà il complesso della costruzione europea. Se ciò che è in gioco, come egli propone, è la costruzione di «uno spazio politico europeo», tramite la designazione dei «confini» (borders) di questo spazio, la questione che è lecito porsi, e che Campesi pone nelle prime pagine del suo testo è: per cosa sta tale «spazio»? Di quale spazio si tratta?

Campesi è assai cauto nel rispondere che questo è lo spazio di una sorta di «superStato» o forse meglio tout court di uno Stato federale europeo «in formazione». E che, così come per altri concetti fondamentali della convivenza politica, cittadinanza, fiscalità, forza, democrazia, anche per lo «spazio» si pone la questione di cosa significhi che esso è «europeo». In particolare, se ciò significhi semplicemente che si tratta dello spazio-somma di 28 (per il momento) spazi nazionali oppure se sia qualcosa di più e di diverso. Al fine di rispondere a questa domanda di fondo Campesi ripercorre prima la genealogia della costruzione dell’organizzazione il cui agire dà vita a questo spazio, Frontex appunto, e poi quella che ne potremmo definire la fenomenologia.

Frontex è quindi un «capitolo fondamentale della costituzione materiale d’Europa», che ha dato vita ad uno spazio europeo della sicurezza. Tale spazio costituisce un aspetto cruciale di quell’animale burocratico-amministrativo che verrebbe voglia di chiamare il Leviatano europeo. E che, così come il Leviatano di Hobbes prendeva forma – si veda il bel saggio di Carlo Ginzburg nel suo recente Paura reverenza terrore – dalla paura della moltitudine di soggetti che gli conferiva vita, così anche la sua nuova versione «europea» sembra essere sospinta da una sorta di mantra ripetuto incessantemente in decine di documenti, trattati e convenzioni, quello della lotta contro «il terrorismo, il crimine organizzato e l’immigrazione illegale». Si ripete qui, naturalmente, una storia che abbiamo già vista, nel corso del ventesimo secolo, sull’altra costa dell’Atlantico, laddove il sorgere delle «polizie federali», in primis l’Fbi, si nutrì della lotta contro anarchici e «tratta delle bianche» negli anni Venti del Novecento, «gangsters» come John Dillinger negli anni Trenta, comunismo negli anni della guerra fredda e infine pericolosi sovversivi, soprattutto il «Partito delle Pantere Nere», negli anni Settanta.

Sino ad oggi, secondo Campesi, il ruolo di Frontex veniva individuato in una produzione di conoscenza, a beneficio degli stati membri e delle loro forze di sicurezza, che si basava innanzitutto sulla individuazione di elementi di rischio. Particolarmente efficaci appaiono le pagine di Campesi ove egli spiega come il problema centrale di Frontex stia nel contemperare e bilanciare l’imperativo neoliberale di aprire, rendere fluidi, e quasi inesistenti, i confini, e presidiare al tempo stesso la sicurezza della società neoliberale. A ciò si è finora risposto con la politica definita, sulla scorta della leadership nordamericana, degli «smart borders». I confini sono «intelligenti» quando riescono a capire – preferibilmente in 12 secondi – se l’individuo che chiede di transitare dal confine corrisponda o meno ad un profilo prestabilito di pericolosità.

Profilo che si basa sull’incrocio delle informazioni provenienti da un numero sempre crescente di banche dati (di qui, ad esempio, il dibattito attuale tra chi vorrebbe estendere in modo ancora più universale l’acquisizione di dati, come nel caso del Pnr e i difensori invece della privacy dei viaggiatori).

Dopo gli attentati di Parigi, tuttavia, tendenze già presenti da tempo ma che erano state tenute a bada da una coalizione mista di euroscettici e difensori della privacy, sembrano essere emerse con maggiore aggressività, e il processo di costruzione della sagoma del Leviatano europeo sembra avere fatto passi avanti, al punto di prospettare addirittura la trasformazione di Frontex in una opportunamente denominata polizia, o guardia, o agenzia europea di frontiera, in grado anche di imporsi alle forze di sicurezza nazionali se queste sembrassero esitare nell’affrontare i compiti che l’Ue, come interpretata da Frontex, ha loro imposto. Tutta la tematica della creazione dei cosiddetti «Hotspots», che si dovrebbero accompagnare – ma qui, guarda caso, la «volontà europea» sembra vacillare assai – ad un superamento delle «regole di Dublino», è legata a tale impostazione. In luoghi come Lampedusa, Pozzallo, o Lesbo, l’iniziale registrazione dei rifugiati dovrebbe avvenire, si dice, anche a costo di usare la forza, sotto l’occhio vigile di «guardie europee» che non si capisce se siano più interessate a ispezionare i migranti o coloro che li devono registrare.

C’è infatti una curiosa ironia – verrebbe da chiamarla ironia se non si trattasse della vita e del destino di milioni di persone! – in ciò che è accaduto alle frontiere meridionali d’Europa negli ultimi due anni e cioè che la sostanziale «devianza» di migranti e rifugiati – devianza rispetto a quello che dovrebbe essere l’«ordinato svolgersi» degli spostamenti da un paese all’altro, e che nel caso dei rifugiati non ha alcun modo di svolgersi in maniera ordinata in quanto non esiste «visto» per i rifugiati e quindi chi voglia sottrarsi ai pericoli sulla propria persona e sulla persona dei propri famigliari lo può fare solamente in modo eslege, al di fuori della legge – tale devianza, insomma, si è magicamente comunicata agli stessi organi di vigilanza e di sicurezza delle nazioni presidianti i confini i quali hanno finito per assecondare la volontà di centinaia di migliaia di rifugiati di cercare di trasferirsi verso quelle zone d’Europa che essi, a torto o a ragione, ritenevano più accoglienti.

In pratica, ciò ha significato la creazione di vie di fuga analoghe a quelle che, ai tempi della lotta antischiavista negli Stati Uniti antebellum, si chiamavano underground railroad. I cosiddetti «trafficanti di esseri umani» non fanno infatti che fornire, per un prezzo, un servizio che gli aspiranti rifugiati richiedono, nella assoluta assenza di alternative, sacrificati sull’altare del nuovo Moloch della «legalità». Non vi è dubbio che il bel libro di Giuseppe Campesi abbia dato un contributo importante alla critica della costruzione del Leviatano europeo, critica che fa tutt’uno con l’emergere di un reale processo di costruzione della democrazia europea. Anche per questo ci auguriamo che venga al più presto tradotto in inglese e nelle altre lingue dell’Unione.