Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da espressonline del 5 maggio 2005

I lager della libertà

Esclusivo: il rapporto della Commissione europea sui campi di detenzione di Gheddafi. E gli accordi con il nostro governo

di Fabrizio Gatti

Arresti arbitrari di cittadini stranieri. Uomini, donne, e perfino bambini soli, detenuti da mesi senza sapere il perché. Ammassati in campi di raccolta dove si sopravvive a pane e acqua. Nessun esame dei singoli casi, ma espulsioni decise con provvedimenti di massa. Nessuna possibilità per l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite, di verificare il rispetto dei diritti umani. Nessun riconoscimento delle convenzioni internazionali. Nessuna garanzia di difesa. Un rapporto riservato della Commissione europea sulla Libia smentisce otto mesi di politica italiana sull’immigrazione. Contraddice le rassicurazioni del governo al Parlamento italiano dopo l’accordo tra Silvio Berlusconi e il Colonnello ‘leader di libertà’ Gheddafi (così l’aveva chiamato Berlusconi). E smentisce pure le parole messe a verbale dal commissario per la Giustizia, Franco Frattini davanti al Parlamento europeo, a fine dicembre, e alla commissione Diritti umani del Senato, pochi giorni fa.

Settanta pagine di denunce agghiaccianti. È il dossier consegnato alla Commissione di Bruxelles dai delegati della Missione tecnica in Libia sull’immigrazione illegale che dal 28 novembre al 6 dicembre 2004 hanno visitato in lungo e in largo il Paese: da Al Zuwara, il porto sul Mediterraneo più vicino a Lampedusa, al campo di detenzione di Kufra, nel deserto del Sahara. Oltre agli inviati di 14 Paesi della Ue, la delegazione comprendeva anche l’Europol, con un funzionario del dipartimento Reati contro la persona. Per l’Italia, secondo l’elenco dei partecipanti, c’erano Renato Franceschelli, capo dell’unità Affari internazionali del ministero dell’Interno, e Angelo Greco, ufficiale di collegamento della polizia all’ambasciata italiana a Tripoli. La scorsa settimana il dossier è arrivato al Consiglio d’Europa che tra i compiti ha quello di tutelare i diritti umani. È vero che si tratta di un documento riservato. Ma già da dicembre la Commissione e i governi erano stati informati su cosa avevano trovato i loro inviati. Perché allora sia il Parlamento italiano, sia l’Europarlamento sono stati tenuti all’oscuro su quanto sta accadendo agli immigrati espulsi dall’Italia a Tripoli e agli stranieri in Libia?

Il rapporto della Commissione europea contiene, tra gli allegati, i dettagli dell’accordo Berlusconi-Gheddafi. È la prima volta che è possibile leggere qualcosa sull’argomento: l’Italia non aveva mai rivelato i particolari dell’intesa. Così si racconta che già dal 2003 il governo italiano “ha finanziato la costruzione di un campo per immigrati illegali, in linea con i criteri europei, da costruire nel Nord del Paese”. E nella Finanziaria 2004-2005, spiega il rapporto, “uno stanziamento speciale è previsto per la realizzazione di altri due campi nel Sud del Paese, a Kufra e Sebha”. Sempre dal 2003 l’Italia ha “finanziato un programma di voli charter per il rimpatrio di immigrati illegali dalla Libia verso i Paesi d’origine, che comporta un sostanziale contributo economico”. La tabella allegata elenca 47 voli, dal 16 agosto 2003 al dicembre 2004. Per ogni volo, ci sono numero, destinazione e nazionalità dei passeggeri. In tutto 5.688 espulsi, imbarcati su aerei della Air Libya Tibesti e della Buraq Air pagati, secondo il dossier di Bruxelles, dal governo italiano. Gli immigrati sono stati riportati in Egitto, Siria, Pakistan, Niger, Nigeria, Ghana, Bangladesh, Mali, Sudan. Ma anche in Eritrea. Atterraggio ad Asmara, il 21 luglio 2004: 109 immigrati espulsi. E condannati al peggio. Il regime di Asmara non ha mai concesso elezioni e considera tutti i suoi cittadini arruolati nella guerra latente con l’Etiopia. Chi è fuggito e ritorna, uomo o donna, viene trattato da disertore. Da anni i resoconti di Amnesty International accusano il presidente Isayas Afeworki di arresti arbitrari e torture. Per questo l’Europa concede agli eritrei il diritto a chiedere asilo. La Libia no. Pagando quel volo, l’Italia ha direttamente finanziato una grave violazione del diritto internazionale. E messo in pericolo la vita di 109 persone.

Gli inviati della Commissione europea non hanno potuto vedere i camion carichi di immigrati espulsi nel deserto del Sahara e le vittime di queste operazioni (rivelate nel reportage sul n. 11 de ‘L’espresso’). Ma il governo libico è sicuramente consapevole dei rischi. Tanto che ha chiesto e ottenuto dall’Italia mille body-bag, i sacchi per il trasporto dei cadaveri. In base all’accordo Berlusconi-Gheddafi, le tabelle allegate al dossier documentano inoltre la consegna di 100 gommoni Zodiac, 6 fuoristrada, 3 pullman, 40 visori notturni, 50 macchine fotografiche subacquee, 500 mute da sub, 150 binocoli, 12 mila coperte di lana, 6 mila materassi e cuscini, oltre a 80 kit per la stampa di documenti, 50 apparecchiature gps, mille tende da campo, 500 giubbotti di salvataggio.

La missione, guidata dal capo delegazione della Commissione europea a Tunisi, Marc Pierini, riconosce alle autorità libiche una “chiara volontà politica, apertura e sforzi”. I toni diplomatici dell’introduzione diventano subito resoconti drammatici quando si entra nelle pagine del rapporto. Gli inviati della Ue non sono stati portati all’oasi di Al Gatrun, a Sud, dove in un campo militare vengono raccolti migliaia di stranieri prima di essere deportati nel Sahara. Hanno visitato altri campi di detenzione e le principali città di transito degli immigrati: Ghat (al confine con Niger e Algeria), Kufra (al confine con l’Egitto), Al Awyanat (al confine con Egitto e Sudan), As Sarah (al confine con il Ciad), Al Zawara (sulla costa occidentale), Zliten e Misurata (entrambe sulla costa orientale). E hanno verificato la (non) conoscenza delle norme su immigrazione e richiesta di asilo tra gli ufficiali di polizia all’aeroporto di Tripoli. Alla fine della visita, la delegazione europea ammette di non aver trovato risposta alla domanda fondamentale della missione: cosa distingue in Libia un immigrato in regola da un immigrato illegale?

“È emerso durante le visite che la preoccupazione principale è l’organizzazione delle operazioni di rimpatrio. Nessuna informazione sulle procedure e sui criteri di detenzione delle persone è stata fornita dalle autorità libiche. Molti degli immigrati incontrati nei centri”, denuncia il rapporto, “sembra siano stati arrestati su base casuale. La decisione di rimpatriare gli immigrati illegali nei loro Paesi d’origine sembra essere presa per gruppi di nazionalità piuttosto che dopo aver esaminato casi singoli nel dettaglio”.

Continua il rapporto: “Sono stati visitati diversi tipi di centri, e si è scoperto che le condizioni di detenzione variano largamente da appena accettabili a estremamente povere, nonostante gli sforzi delle autorità libiche nel provvedere alle minime necessità. Ci sono centri a permanenza temporanea e a lunga permanenza, alcuni dei quali possono essere considerati delle prigioni. I centri di detenzione ricevono inoltre gli immigrati illegali che vogliono rientrare nei loro Paesi su base volontaria e possono rimanere in questi centri fino a quando i loro documenti non vengono preparati. È stato notato che alcuni centri contengono minori non accompagnati e donne, a volte non ospitati separatamente e che sono in evidente stato di pericolo. Questo aspetto necessita un intervento urgente”.

Mancano garanzie anche per quanti, una volta rimpatriati, rischiano di essere arrestati o uccisi: “La Libia non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra del 1951 sulla protezione dei rifugiati e nemmeno il suo protocollo del 1967. La Costituzione libica prevede una sorta di protezione per i rifugiati. Ma non c’è nessun ufficio che si occupi dei richiedenti asilo e non esistono accordi di cooperazione tra Libia e Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). L’ufficio locale dell’Unhcr non ha uno status ufficiale. Di conseguenza, in pratica, la protezione interna dei rifugiati non è garantita”.

Gli inviati della Commissione europea descrivono un centro di permanenza temporanea nel Nord della Libia: “I migranti sono detenuti qui fino a quando sono inviati in altri centri e viene presa una decisione: sia per essere liberati, o deportati direttamente, o forniti di un permesso previsto dalla legge. Questo tipo di centri sembra siano stati realizzati dall’improvvisazione. Quello di Sulmam è completamente isolato dalla popolazione. Ospita 200 migranti, seduti sulla terra e guardati da poliziotti armati. L’edificio è un precedente granaio, circondato da una cancellata e da diverse costruzioni a un piano. Gli standard di igiene sono al minimo e le pulizie erano state fatte appena prima della visita. Non ci sono cucine, luoghi dove mangiare o dove dormire su letti. La maggior parte della gente (principalmente da Niger, Ghana e Mali) sembra sia stata arrestata il giorno prima della visita. Secondo le interviste, erano lavoratori illegali che vivevano in Libia dalla fine degli anni ’90. Molti hanno dichiarato di avere avuto un lavoro regolare e di non capire perché siano stati arrestati”. Drammatico anche il resoconto sui campi di detenzione a lungo termine: “Possono essere considerati prigioni. La differenza è solo fisica. Non ci sono celle separate per sesso, età o nazionalità, ma stanze con circa 200 persone, che ospitano non solo donne, ma intere famiglie con i loro bambini, o minori non accompagnati, mescolati con il resto dei detenuti. Uno dei campi visitati è nel centro di Tripoli, in El Fatah Street. Un altro campo è stato visitato vicino alla città di Misurata, dove sono stati trovati circa 250 detenuti, anche se gli immigrati hanno dichiarato che fino al giorno prima c’erano più di 700 prigionieri. I detenuti sono sorvegliati dalla polizia. Sebbene gli ufficiali abbiano detto che i prigionieri hanno la possibilità di lavarsi e mangiare bene (la cucina era stata rifornita con frutta e verdura), secondo le testimonianze, il giorno prima la visita i detenuti hanno dovuto pulire il centro e il loro pasto normale è limitato a pane e acqua. Un gruppo di circa 20 marocchini, intervistati in francese, ha detto di non conoscere le ragioni della loro detenzione da più di sette mesi. Hanno detto che lavoravano in Libia da alcuni anni e che la loro intenzione era quella di lavorare in Libia e non in Europa”. A Sebha, Ghat e Kufra, nel deserto, “è stato notato che i campi contenevano un certo numero di minori non accompagnati, evidentemente in pericolo. Deve essere sottolineato”, insistono gli inviati di Bruxelles,”che la missione della Ue non ha avuto assolutamente accesso all’esatta procedura che viene seguita per questo tipo di espulsioni”.

Tre settimane dopo la fine della visita in Libia, il commissario alla Giustizia, Franco Frattini, risponde così a una interrogazione sui rimpatri da Lampedusa presentata all’Europarlamento: “La riammissione in Libia è stata condotta in conformità con gli accordi tra i governi libico e italiano, con la normitiva Ue e il relativo diritto internazionale”. Rassicurante è anche la dichiarazione in Senato del sottosegretario all’Interno, Michele Saponara, pochi giorni dopo gli sbarchi di marzo. E sempre Frattini, il 19 aprile a Roma, davanti alla commissione Diritti umani del Senato sugli stranieri restituiti a Tripoli: “Quanto alla situazione di Lampedusa, il governo italiano ha dato ampie assicurazioni che non vi sono stati respingimenti su base collettiva”. Ma già da quattro mesi la Commissione europea sapeva che per tutti gli immigrati, una volta restituiti alla Libia, avviene l’esatto contrario.

Stragi in mare e nel deserto

Quasi 2 mila morti in mare e 15 mila sbarcati vivi in Italia: 12 cadaveri ogni cento immigrati che salpano dal Nord Africa. È il costo del sogno europeo: il numero di annegati l’anno scorso tra Libia e Italia, calcolato nel dossier della Commissione europea sull’immigrazione illegale. Una strage che secondo Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati, i rimpatri forzati e le operazioni di polizia non fermeranno: “Questo ripetersi di drammi della fuga è uno scandalo per la coscienza civile dell’Europa”, dice Hein: “La politica della chiusura delle frontiere, l’impossibilità di ottenere un regolare visto di ingresso, la mancanza di politiche di reinsediamento e di trasferimento regolare

di rifugiati da Paesi terzi ha condannato decine di migliaia di persone a ricorrere a mezzi irregolari per arrivare in un posto sicuro o in un territorio dove la sopravvivenza economica possa essere garantita”. Proprio in questi giorni il Cir, l’organizzazione che segue

i richiedenti asilo nel loro difficile persorso verso una vita dignitosa, pubblica il rapporto sull’attività del 2004. Un altro anno macchiato dalle tragedie del mare, dai morti nel deserto e dalla disperazione di chi viene rimpatriato. Le convenzioni internazionali assistono, se vengono applicate, solo chi richiede asilo contro il rischio di persecuzioni politiche o religiose. Per il 2004, su 9.019 casi esaminati sono 781 i rifugiati riconosciuti in Italia dalla commissione centrale. Nel 2003 erano 555 su 11.319 casi. Dopo un ricorso di legali appoggiati dal Cir, la Corte europea dei diritti dell’uomo, ha recentemente aperto un procedimento contro il governo italiano sui rimpatri forzati da Lampedusa.