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I migranti hondureñi in marcia verso gli Usa. Trump: «Fermateli»

Luca Martinelli, Il Manifesto del 18 ottobre 2018

La marcia dei migranti dall'Honduras che sta attraversando il Guatemala © Afp

Sono almeno duemila i cittadini hondureñi che nei giorni scorsi hanno passato insieme, a piedi e cantando l’inno nazionale, la frontiera con il Guatemala. Fanno parte di una carovana organizzata di migranti, che è partita il 13 ottobre dalla città di San Pedro Sula, e hanno scatenato l’ira del presidente degli Stati uniti d’America Donald Trump.

VIA TWITTER, TRUMP ha spiegato che «gli Stati Uniti d’America hanno informato il presidente dell’Honduras (Juan Orlando Hernandez ndr) che se la massiccia carovana di persone dirette verso gli Usa non sarà fermata e ricondotta in Honduras, gli Usa cancelleranno ogni forma di aiuto o di finanziamento al Paese centroamericano, con effetto immediato».

Poche ore dopo, ha rincarato la dose, allargando la stessa minaccia a Guatemala ed El Salvador. Il suo vice, Mike Pence, ha chiamato al telefono Jimmy Morales, presidente del Guatemala, ribadendo la volontà di «difendere la nostra sovranità e i nostri confini», e sottolineando – sempre su Twitter – che gli Stati uniti si «aspettano che i propri partner facciano tutto quanto nelle loro possibilità per appoggiare le esigenze» del Paese.

E MENTRE MANUEL VELASCO, governatore dello Stato del Chiapas, al confine tra Guatemala e Messico, spiega di esser pronto accogliere i migranti, qualora riuscissero a superare anche quella frontiera, gli Stati uniti ribadiscono che devono essere fermati. Ancora Pence: «Nella telefonata con Morales ho reiterato il messaggio di Trump: non riceverete più aiuti se non li fermate!».

ALL’ALBA DEL 17 OTTOBRE, sono già in cammino. Un migliaio di persone aveva già raggiunto nella notte tra il martedì a Città del Guatemala, ospiti della Casa del Migrante, e altrettanti dovrebbero essere arrivati nella capitale durante la giornata di mercoledì 17. Sui loro manifesti c’è scritto «Donald Trump provoca l’emigrazione, perché appoggia un governo di corrotti».

Non ha fermato la carovana nemmeno l’arresto, da parte della polizia guatemalteca, di Bartolo Fuentes, ex deputato del partito di opposizione Libertad y Refundación (Libre) e leader della carovana. È sulla sua pagina Facebook che il 7 ottobre scorso era stato pubblicato il «manifesto» politico dell’iniziativa, nata per denunciare la morte dei cittadini hondureñi che cercano di raggiungere gli Stati uniti d’America, e per far pressione sul Messico affinché conceda loro asilo politico.

«OGNI GIORNO OLTRE TRECENTO persone lasciano l’Honduras verso gli Stati uniti, secondo i dati ufficiali. Sono quasi diecimila persone, tra i più poveri.

Partono senza denaro, lungo itinerari pericolosi, a volte a piedi. Pagano dei bus solo quando possono. Si appoggiano a 40 «rifugi», dove possono dormire e mangiare qualcosa. Chiedono l’elemosina. Migliaia di hondureñi hanno perso la vita durante il viaggio.
Nel 2018 sono stati rimpatriati 200 corpi. Quasi mille e seicento dal 2013. Siamo sicuri, però, che molti sono stati sepolti dentro fosse comuni. Questa tragedia potrebbe essere evitata, permettendo loro di attraversare il Messico usando mezzi di trasporto ed itinerari che non mettano a rischio la loro sicurezza».

PERCHÉ NON SI FERMERANNO, e per capirlo basta ascoltare le testimonianze raccolte dai giornalisti che stanno accompagnando la carovana, come Sandra Cuffe che scrive per Al Jazeera: «Ho preso la decisione di partire perché non avevo alternative. Ero sopraffatta dalla paura» le ha spiegato Daysi Pena, una nonna che è al seguito della carovana con i tre nipoti di 12, 14 e 16 anni. Vengono da Chamelecon, dove la ragazzina di 14 anni è stata minacciata dal membro di una banda criminale. Sono le miserie quotidiane di un Paese che dal colpo di Stato del giugno 2009 non è più stato una democrazia. Scrive Bartolo Fuentes: «I migranti continueranno a lasciare l’Honduras verso gli Stati uniti perché la realtà che vivono si chiama mancanza di opportunità, povertà, violenza, ed è molto più forte e pericolosa dei rischi che vivono durante il camino. E la risposta istituzionale nei confronti di coloro che protestano ed esigono un cambiamento è la repressione, il carcere, se non finire assassinati».

COME BERTA CÁCERES, leader indigena del Copinh, ammazzata nel marzo del 2016: in queste settimane, tra molto irregolarità, si celebra il processo nei confronti delle 8 persone ritenute responsabili del suo omicidio. Suona poco credibile, in questo contesto, il presidente Juan Orlando Hernandez: «Gli hondureñi non devono prestarsi a questo “gioco politico”. Il nostro governo è pronto a riceverli, chiediamo loro che tornino nelle loro case». Difficile che venga ascoltato da contadini come Oscar Javier Lemus, che ha deciso di lasciare l’Honduras perché «non c’è lavoro, nemmeno adesso per la raccolta del caffè, perché i prezzi del caffè sono bassissimi, mentre quello dei combustibili sono alti, e così l’energia. Non ce la facciamo più».