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I naufraghi di terra bloccati in Bosnia: storie di vere scelte politiche

Federico Martelli e Francesco Nobili*, febbraio 2019

Mappa geopolitica con i muri in Europa

Bianco come la neve, nero come la pelle

I territori all’estremo settentrione della Bosnia ed Erzegovina, vittime delle guerre balcaniche degli anni Novanta ora in lenta riabilitazione, vivono dai primi mesi del 2018 una crisi umanitaria, che ancora una volta vede dei profughi nell’indesiderato ruolo di protagonisti. La chiusura ermetica dei confini tra Serbia e Croazia ha reso il cantone Una Sana, lembo bosniaco protratto nel ventre delle terre croate, meta designata delle nuove “Vie Balcaniche” che hanno scelto questi territori economicamente arretrati e non densamente popolati come più sicura via d’accesso all’agognata Europa.

La porosità del confine turco, sbadatamente immemore dell’accordo firmato con l’UE solo tre anni fa, ha permesso a più di quattromila persone di attestarsi lungo il confine con la Croazia, bloccati tanto dalla gelida imponenza delle montagne croate quanto dalla drammaticamente più concreta violenza della polizia di confine.

Migranti provenienti dal Medio Oriente, ma anche dal cuore dell’Asia e dal Nord Africa, riempiono ora le strade delle cittadine bosniache di Bihać e Velika Kladuša, randagi come i cani autoctoni con cui condividono la sorte, costretti a vedere in una tenda fradicia su di un letto di fango o nell’insensibile cemento di una casa abbandonata un ambito riparo.

Sentendo parlare di una così drammatica emergenza umanitaria non lontana dai nostri tanto celebrati confini non sono bastate inesperienza e giovane età per placare il nostro fisico bisogno di verità. Forse la passione per tematiche sociali e politiche di ampio respiro, forse la scarsezza di analisi complete che unissero l’umanità della crisi al suo ben più asettico aspetto politico, ci hanno convinti a vedere coi nostri occhi. Decidiamo di partire con l’ambizione magari ingenua, ma certamente sorretta da appassionata determinazione, di comprendere, e di raccontare. Il timone punta verso Velika Kladuša.

Il freddo ci accoglie, o meglio ci respinge, all’arrivo, la neve è fanghiglia marrone nelle molte strade sterrate, il suo candore assopente lascia spazio a un tagliente realismo che come avremo modo di capire anima l’intera popolazione del paese; al pragmatismo tipico dei popoli slavi si aggiunge la più totale disillusione di chi sta migrando, disillusione per noi inizialmente destabilizzante ma dettata dall’afflato istintivo di sopravvivenza che celato in ogni uomo si sveglia vigoroso ai limiti dell’umanità.

Photo credit: Claudia Bouvier
Photo credit: Claudia Bouvier

Chi ci introduce nella complessità di questa realtà è Jack, un volontario statunitense poco più grande di noi. Se gioia ed entusiasmo distinguono i giovani del mondo occidentale, Jack rappresenta un’infelice eccezione: il blu dei suoi occhi è infatti assai diverso da quello del cappello che indossa, l’allegria di quest’ultimo si scontra rumorosamente con la rassegnazione alla malinconia che gli si legge in volto. Un tono di voce pacato ma fallace nel nascondere del tutto il tremolio che le emozioni gli suscitano ci immerge ruvidamente nella tragicità di ciò che sta accadendo qui sul confine. I racconti delle violenze inflitte ai migranti dalla polizia croata, che vengono raccolti in report mensili dalla sua associazione, gli tornano vividi alla mente e anche di notte, ci confida, non è facile abbandonarli. La sua voce disegna con emozionata precisione un quadro della situazione attuale.

Il cantone Una Sana (contenente Velika Kladuša e la città vicina, Bihać) conta una popolazione di trecentomila persone. In confronto i circa quattromila migranti (dati forniti dal ministero degli esteri) che ora vi si trovano bloccati rappresentano una minoranza; ma non trae origine dalla demografia la mutazione di atteggiamento che ha reso scettica la popolazione locale nei confronti dei migranti. È infatti improponibile per la zona periferica di un Paese, il cui PIL pro-capite è di soli cinquemila dollari (meno della metà di quello croato), riuscire a gestire economicamente una situazione così complessa.

Traspare subito l’abbandono che chi vive da queste parti attribuisce alla politica, e alla politica internazionale, e come troppo spesso accade le conseguenze delle (non) decisioni politiche gravano sui più deboli. Ai rifugiati viene ora impedito di entrare in molti bar e supermercati e la protesta dei commercianti di Velika Kladuša contro la chiusura del confine a ottobre era, più o meno direttamente, rivolta contro gli stessi migranti. All’esacerbante prova cui il rallentamento del traffico, anche commerciale, al confine sottopone la fragile economia locale vanno però ad aggiungersi casi di furti, risse e altri micro-crimini compiuti da alcuni migranti e che, anche a causa della prolungata mala gestione dell’emergenza, hanno portato a una generica diffidenza nei loro confronti.

La crisi umanitaria ha preso avvio un anno fa, agli inizi della verde primavera bosniaca e, dopo il picco di arrivi di quest’estate, si è lentamente trasformata in una situazione stabile, sotto la spinta implacabile dell’inverno. Mutate le circostanze è mutato anche l’approccio al problema: la moltitudine di ONG che sono state vitali durante l’emergenza estiva, tra cui “No Name Kitchen” di cui Jack fa parte, vengono oggi allontanate da un Governo che mira al controllo e la messa in sicurezza dell’area. Di fornire assistenza e rifugio a chi migra si occupa l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM), ad oggi unico soggetto formalmente riconosciuto e dunque autorizzato a prestare soccorso.

Gli interventi sono stati peraltro finanziati dall’Ue per un ammontar di sette milioni e mezzo di euro nel solo 2018. Le grandi dimensioni e l’approccio macroscopico dell’agenzia ONU rendono tuttavia lacunosa l’assistenza fornita e abbiamo raccolto diverse testimonianze di instabili condizioni igieniche e mancanza di letti o altre strutture essenziali nei campi. L’apice è stato raggiunto dalle violenze perpetrate ai danni di un giovane Afghano dalle guardie del campo Miral su cui, sebbene esse siano documentate in un video, il responsabile dello IOM al campo si è rifiutato di dare risposte. Il problema si pone anche politicamente, come sottolineato dall’europarlamentare Elly Schlein in un’intervista a noi rilasciata: «non si capisce dove stiano andando questi soldi perché le condizioni di vita delle persone in queste strutture sono assolutamente inumane. Manca tutto, mancano beni di prima necessità, manca assistenza medica, manca assistenza legale».

L’intervista con il volontario però catalizza la nostra attenzione su un altro aspetto: il traffico di esseri umani. Portato avanti localmente sin dall’inizio degli arrivi, il trasporto illegale oltreconfine è oggi un business di una certa portata; Il prezzo del viaggio, come suggerito dalle più basilari teorie economiche, è aumentato con l’inasprirsi delle condizioni. Mentre “bastavano” 2400 euro per arrivare da Velika a Trieste quest’estate, l’arrivo del freddo, che di recente ha stroncato la vita a un giovane iracheno sulle montagne croate, ergendolo a monito dei rischi che quotidianamente vengono corsi da chi prova “The Game” (questo il nome attribuito al tentativo di viaggio verso l’Europa dai trafficanti), unitamente all’intensificarsi dei controlli lungo la frontiera, ha fatto schizzare il prezzo del viaggio a 3.500 euro. È sorprendente però l’immagine che i migranti hanno di quelli che, sebbene siano effettivamente criminali, ai loro occhi appaiono come le uniche fonti di speranza e vengono dunque trattati con un’ammirazione intrisa di rispetto.

La neve che pacata ci si posa sul viso è intrisa di una contraddizione in termini: alla chiusura che una città per metà disabitata e per metà rinchiusa dal freddo mostra, si contrappone un’inaspettata apertura da parte di chi ospite, seppur di passaggio, sembra essere caso isolato nell’animarne le strade. Alla paura cui violenze, pericoli e istinto di sopravvivenza sottopongono, chi migra risponde con un’innata voglia di vivere. Così un sorriso appena accennato diviene finestra per guardare alla resilienza radicata in profondità in ciò che è umano. Basta un saluto a dare in un immediato senso di confidenza, e basta esprimere curiosità per sentirci narrare, con commozione ma al contempo schiettezza, le storie tragiche che hanno condotto Lyess, Abdenoure e Mohamed nelle dure terre bosniache.

Photo credit: Claudia Bouvier
Photo credit: Claudia Bouvier

Con la bocca amara di chi vede e sente ingiustizie senza potervi, almeno nell’immediato, porvi alcun rimedio, ci dirigiamo verso quello che è un virtuoso esempio di solidarietà espresso dalla popolazione locale. Arrivati al ristorante Kod Latana veniamo accolti dai profumi forti della cucina bosniaca e da un gran numero di uomini che ne stanno apprezzando il conforto. Il proprietario e il cugino portano avanti il ristorante aiutati da alcuni amici e da Mohamed, ragazzo tunisino che con inaspettata razionalità ci descriverà la situazione e narrerà la sua storia, una razionalità però non fredda ma carica di speranza e gioia di vivere anche nei suoi aspetti ai nostri occhi più drammatici.

Tornando al ristorante, il pragmatismo bosniaco non ci tollera come intrusi nullafacenti e non esita dunque ad invitarci a dare una mano: lavare i piatti, distribuire il pane. Riusciamo a immergerci, come le nostre mani nell’acqua rossa di pomodoro, in quella convivialità più sincera che si genera spontaneamente dalla solidarietà umana. Non siamo mai stati a Velika ma questo è il nostro ristorante da subito e dare una mano non è altruismo ma dettato morale di una spontaneità tanto disarmante quanto entusiasta. Cucchiaio di metallo e scodella di ceramica assumono in questo posto un profondo significato etico, custodendo involontariamente il frutto del giusnaturalismo lockiano, il figlio della rivoluzione francese nonché centro solare del sistema disegnato dalla dichiarazione universale dei diritti umani del 1950: la dignità di ogni uomo si erge fiera di fronte alle armate del becero opportunismo politico, sola ma retta dall’inestimabile forza di chi, senza dichiarazioni né precisi valori di riferimento, si abbandona alla solidarietà istintivamente, dando reale disegno della natura umana.

Non vi è giustizia di quanto accade quotidianamente sul confine, non vi è rispetto, non vi è etica alcuna; ma sono inconfondibili, nella nebbia dell’odio, le statuarie figure di speranza e determinazione che, inconsapevolmente, rendono coloro che ambiscono a entrare in Europa assai più consoni ad esserne cittadini, in riferimento agli ideali fondativi della nostra Unione, di chi invece li respinge.

Non è una partita a Risiko …

In materia di asilo, visti ed immigrazione l’Unione Europea ha progressivamente definito una politica volta a rispettare i seguenti obiettivi: – gestire l’immigrazione in maniera efficiente; – l’equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi regolarmente soggiornanti negli Stati membri; – combattere l’immigrazione ed il soggiorno illegali, nonché la tratta degli esseri umani. Ma l’efficienza, di cui si parla nel primo punto, non deve essere attuata in tutti i campi perché non tiene, per esempio, conto dei diritti umani, delle ingiustizie e della corruzione. Bisogna controllare come vengono spesi i fondi e verificare che essi siano sufficienti. Per quanto riguarda il secondo punto, la netta distinzione che si fa tra migranti legali e illegali dovrebbe essere oggetto di dibattito al fine di trovare una sintesi che tenga in considerazione le sfumature. Per combattere la migrazione illegale e la tratta di esseri umani è necessario disincentivare le cause primitive di esse tramite decisioni multilaterali e non continuare a approcciare di volta in volta i casi particolari perché, come si è visto, continuare a pensare a breve termine ed agire di conseguenza non ha portato e non porterà a soluzioni definitive.

La competenza in materia d’immigrazione tra UE e stati membri è di tipo concorrente: la gestione dei flussi migratori da un punto di vista quantitativo rimane una prerogativa degli Stati, ma le regole in base alle quali i cittadini di Stati terzi entrano e soggiornano all’interno dell’Unione è oggetto di una politica comune. Subito è evidente un’incompatibilità, ciò che viene affermato ufficialmente è discordante con la realtà dei fatti: non tutti gli Stati dell’Unione sono ugualmente esposti all’immigrazione da Stati terzi.

Come il Consiglio Europeo di Giugno 2018 ha mostrato, c’è grande differenza tra ciò che viene detto dai capi politici e ciò che sono le vere conseguenze. Tutti i capi politici hanno affermato che c’è stato un grande cambiamento dopo il summit di inizio estate, ma rimangono invariati i fondamenti del regolamento di Dublino III, «madre di tutte le ipocrisie» secondo Elly Schlein. Ogni migrante deve richiedere asilo nel primo paese in cui mette piede. Ad esempio, se un cittadino approda illegalmente in uno dei paesi europei, cosiddetti di primo approdo, ma poi raggiunge un altro paese europeo; anche se presentasse richiesta di asilo nel secondo paese, in teoria, dovrebbe essere riportato nel paese di approdo. Logicamente i paesi di primo approdo, come ad esempio Grecia, Italia, Spagna hanno tutto l’interesse nel cambiare e propongono il principio di solidarietà e corresponsabilizzazione tra i paesi membri secondo il quale chi entra in un paese europeo entra in Europa.

Le buone intenzioni e la solidarietà che riempiono i trattati europei collassano sotto gli implacabili colpi di un atomismo ciecamente volto al perseguimento dei particolaristici interessi nazionali. Gli stessi leader politici, i quali firmano i concordati internazionali, si trovano schiacciati tra il dover rispettare quest’ultimi e il dover mantenere il consenso elettorale. E ancora, il malumore diffuso per la consapevolezza di non poter migliorare il proprio tenore di vita è diventato breccia dei gruppi economici e politici, che hanno bisogno di mezzi per guadagnare consensi. L’attenzione dalle reali problematiche viene deviata e si cerca di indirizzarla ad una minaccia proveniente dall’esterno; la figura dell’immigrato si presta benissimo a tale dirottamento. Le notizie di cronaca, ormai all’ordine del giorno, in cui si evidenzia un crimine commesso da un determinato migrante alimentano le semplificazioni, lo stereotipo e le generalizzazioni che la moltitudine è solita fare. La realtà è complessa e causa inquietudine: come un singolo cittadino non rappresenta tutti i cittadini di uno Stato, un migrante non rappresenta tutti gli immigrati.

Per concludere, oggi i vari popoli europei hanno sviluppato una infondata “migrante-fobia”. Si assiste ad un ritorno, per fortuna ancora timido, dell’irrazionalità che ha contraddistinto il passato.
Al contempo, è semplificativo dire o scrivere: «Apriamo i confini a tutti!» perché è vero che la percentuale dei migranti odierni non rappresenterebbero un problema in relazione alla percentuale della popolazione Europea, ma si scatenerebbe un effetto a valanga di difficile controllo.

Nei trattati fondamentali dell’Unione Europea ovunque si parla di solidarietà e «unione sempre più stretta tra i popoli d’Europa» (Trattato di Maastricht), ma poi la realtà è ben diversa. La Convenzione di Schengen del 1990 è stato il picco più alto raggiunto verso la costruzione di una vera e propria unione. Ma con la caduta delle Torri Gemelle nel 2001, gli stati europei hanno adottato la dottrina della “sicurezza nazionale” sul modello americano. In questa direzione, nel 2004 è nata l’Agenzia Frontex allo scopo di tenere monitorati e controllati gli accessi ai confini di terra e di mare ai paesi dell’Ue. Ma dal 2012, con l’intensificarsi dei flussi migratori, senza aver imparato la lezione di Berlino, si è ricominciato ad alzare i muri senza tener conto della posizione dell’ente sovranazionale. Alzare delle barriere è la peggior cosa; significa affermare implicitamente: «Non voglio saper niente di qualunque persona stia dall’altra parte. Con te, alterità, non sono aperto ad alcun contatto o dialogo, non ti voglio neanche vedere. Ti odio a priori, senza neanche conoscerti perché sei diverso da me e la tua diversità ci minaccia».
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Se le barriere di filo spinato tra Grecia e Turchia e tra Bulgaria e Turchia chiudono le vie di accesso via terra dal Medio Oriente, l’accordo del 2016 tra Europa e Turchia cementa ufficialmente quei muri.

La Turchia ha ricevuto più di 6 miliardi di euro per gestire il fenomeno della migrazione per la rotta Balcanica. Ma, come la maggior parte dei migranti confermano, alla fine è facile arrivare in Grecia: «Basta volare come turista in Turchia e da lì prendere un traghetto per la Grecia».

Ad oggi il gruppo Visegrad, composto da Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, si è posto come fautore di una linea di totale chiusura, con le quote di ricollocamento da paesi di sbarco che rasentano tragicomicamente lo zero. Il tutto mentre i sopracitati stati dell’Europa dell’est beneficiano ampiamente dei fondi strutturali europei sviluppando dunque una retorica nei confronti dell’Unione concretamente contraddittoria.

L’Europa è nella paralisi joyciana: in balia dei venti spesso avversi dei singoli stati membri, l’Ue cerca di prendere decisioni forti che per strutturale mancanza di autorità rimangono lettera morta. Si è di fronte ad un aut aut. Per superare questo doppio legame, l’UE deve scegliere tra fare un passo avanti o farne uno indietro.

A tutto ciò si va ad aggiungere la posizione della Bosnia ed Erzegovina. Il 5 Febbraio 2019 il governo del cantone Una-Sana, constato il superamento di circa mille unità del limite di capienza dei propri campi, ha dato un ultimatum di dieci giorni al ministero della sicurezza e allo IOM per onorare gli accordi, riallocando altrove gli assistiti in eccesso attualmente ospitati nell’area e verificando le condizioni igieniche e strutturali delle strutture di accoglienza. Se gli otto punti imposti non verranno rispettati il Cantone sarà obbligato ad avviare misure per smantellare temporaneamente i centri e impedire qualsiasi ricezione di migranti nel territorio del Cantone. Ancora una volta, le necessità tragicamente reali si infrangono contro le dinamiche del Potere.