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I paradossi della Bosnia ed Erzegovina. Come il Paese ostaggio delle politiche europee è diventato oppressore delle persone migranti

Intervista a Diego Saccora dell'APS Lungo la rotta balcanica

© No Name Kitchen - Squat a Velika Kladusa

A fine dicembre con l’incendio del campo di Lipa, forse per la prima volta con tale intensità, i media mainstream hanno ampiamente parlato di rotta balcanica e della situazione delle persone migranti in Bosnia-Erzegovina. Se da una parte è stato positivo che si fosse aperta una breccia nell’informazione, dall’altra molte letture sono apparse superficiali, utilizzando categorie e concetti abusati come “emergenza“, “inferno“, “catastrofe umanitaria” ecc. Voi avete scritto chiaramente che quanto sta accadendo non deve essere definito un’emergenza1 bensì il risultato di politiche europee ben orientate. Queste politiche cosa hanno in serbo per la Bosnia-Erzegovina?

Come “Lungo la rotta balcanica” abbiamo sin da subito scelto di usare un altro tipo di semantica che non è un’alternativa, ma è quella che secondo noi è corretta da utilizzare perché la narrativa dell’emergenza non è reale.
Quanto avviene è una situazione che dura da anni che non riguarda evidentemente solo la Bosnia ed Erzegovina, infatti, tutto ciò che accade anche nei paesi precedenti all’arrivo in questo Paese ha effetti su ciò che avviene qui e viceversa, perché le rotte si modificano anche sulla base di come funzionano le politiche e gli eventi nei vari Stati interessanti dal movimento delle persone. Questo è tra l’altro il motivo per cui si vedono molti rivoli di rotte che si stanno aprendo anche da altre parti.
Non è “emergenza” perché dobbiamo ricordare quanto è successo in questi ultimi anni: le tendopoli alla “palude” di Trnovi a Velika Kladuša da maggio a dicembre 2018; cosa fu Borici, un ex studentato mai finito di costruire poi diventato squat e successivamente divenuto campo ufficiale gestito da OIM, nonostante una ristrutturazione parziale che permise di aprire anche se ancora oggi ci sono delle lacune strutturali enormi; la tendopoli di Tuzla tra ottobre 2019 e gennaio 2020 creatasi alla stazione degli autobus e dei treni; il campo di Vucjak presso Bihac da maggio fino dicembre 2019 che solo la prima neve e l’intervento di Dunja Mijatovic portò al trasferimento, peraltro forzato, verso il campo ex base militare di Blazuj a Sarajevo e quindi un passo indietro rispetto ad un viaggio che va verso l’Europa.
Lipa stesso viene strutturato come campo emergenziale per il Covid e poi viene lasciato in condizioni che non sono adatte a trascorrere un inverno, la stessa OIM che ha degli aspetti molto criticabili nella gestione di questi campi, decise di andarsene e poi come sappiamo è scoppiato un incendio. E’ una situazione che abbiamo già visto anche in altri luoghi, come a Moria sull’isola di Lesvos quando a settembre 2020 stavano per sigillare il campo con del filo spinato.
Questi fatti possono essere anche una leva politica se vogliamo leggerla sotto un altro punto di vista.

Tornando alla questione della narrativa, se chiamarla emergenza non ha senso, chiamarla catastrofe, a nostro parere, è vergognoso perché ci sono paesi rasi al suolo da guerre e conflitti, milioni di persone che sono sfollate a ridosso dei paesi dove stanno succedendo questi fatti e bloccate dentro i campi, migliaia di persone che annegano nel Mar Mediterraneo. I cambiamenti climatici e lo sfruttamento dei territorio che stanno costringendo persone a spostarsi sono catastrofi.
Tende che bruciano in un campo di un migliaio di persone senza che queste vengano spostate immediatamente, creandola l’emergenza, non si può definire catastrofe ma si definisce una scelta politica criminale da parte di vari livelli che non si sono presi la responsabilità, anche laddove vi siano state delle proteste cittadine, di salvaguardare la vita a persone che stavano all’addiaccio.

Rispetto alle politiche dell’Ue queste continuano a finanziare il monitoraggio dei confini, la strutturazione e il mantenimento dei campi. Il campo di Lipa nel frattempo è finito sotto la gestione del servizio affari esteri bosniaco quindi è diventata una questione istituzionale bosniaca, a poche Ong è ammesso l’ingresso, solo a quelle che si occupano della distribuzione pasti, dell’aspetto medico sanitario, della manutenzione e delle attività ludico ricreative. La sicurezza è affidata ad un’agenzia privata di sicurezza che ha l’incarico di controllare chiunque entra ed esca. Non sono ammessi i giornalisti, non sono ammesse altre Ong e viene posto un veto sulle fotografie, infatti non viene mai fotografato il contesto di come si vive per non far vedere le condizioni di vita all’interno delle tende, dove vi è promiscuità favorendo così i contagi da Covid. Inoltre mancano i letti, l’acqua potabile spesso finisce perché non hanno i rifornimenti, ci sono poche docce e pochi bagni.
Ma al di là di questi elementi ormai strutturali, rimane il fatto che il campo è disperso in mezzo al nulla lontano dai centri abitati e il passaggio di informazioni dall’interno all’esterno viene ostacolata, lì come negli altri campi bosniaci. Quello che succede al camp Miral a Velika Kladuša, o quello che succede ad Usivak e Blazuj nei pressi di Sarajevo, oppure a Salakovac vicino a Mostar, non viene mai praticamente menzionato se non in termini meramente statistici nei report di OIM o di UNHCR.

Va anche sottolineata un’altra questione. Perché se ad esempio a Sarajevo o a Tuzla e in altre città c’è la possibilità anche di accedere a ostelli, hotel, appartamenti, magari con la mediazione di cittadini bosniaci, nel cantone di Una-Sana questo è vietato.
Ora quello che ci chiediamo e che tutti dovrebbero chiedersi è quale tipo di sistema per richiedenti asilo si intende strutturare in questo Paese laddove pare che solamente i campi siano l’unica soluzione di “abitabilità” per queste persone.
Se poi consideriamo anche il paradosso, come abbiamo visto negli sgomberi del mese scorso degli squat e delle jungle, che i numeri delle registrazioni non possono superare un certo limite, si nota che comunque le persone vengono tenute fuori dai campi. Siamo di fronte perciò ad un cortocircuito: le jungle e gli squat, altrettanto paradossalmente, vengono resi “ufficiali” attraverso i divieti ad entrare, togliendo qualsiasi alternativa ai campi. Vietando la possibilità di usufruire di ostelli e appartamenti si vietano quindi le autonomie.
Un sistema di accoglienza che si possa definire tale durante il periodo di attesa per la verifica della domanda di protezione e quello successivo prevede lo sviluppo di autonomie e inclusione sociale, e l’incontro con un popolazione che si dovrà rendere conto della presenza di richiedenti asilo che potrebbero anche fermarsi qui.
Invece negando a loro di poter accedere ad una casa o a una stanza si nega la possibilità di uscire dalla promiscuità di questi campi, di poter vivere una vita in autonomia secondo le proprie scelte, di poter dare – eventualmente – anche un contributo ad una comunità nella quale andranno ad abitare. Tutto ciò è assurdo e va assolutamente cambiata la rotta.

Quali tensioni interne tra i cantoni del Paese stanno provocando le politiche di esternalizzazione del confine e la costruzione di nuovi campi?

Le problematiche affioranti a livello di tensione tra le varie componenti di questo paese si stanno facendo certamente più critiche.
Fin dall’inizio la Republika Srpska 2 ha dichiarato di non voler assolutamente né la strutturazione di campi né di dare il benché minimo sostegno alle persone in movimento e tutt’ora continua ad essere ferma su questa linea. Di sicuro il passaggio dentro e fuori il confine tra l’entità della Repubblica e la Federazione è un aspetto di conflittualità perché le persone passano sia dall’uno verso l’altro quando, per esempio, arrivano dalla Serbia passando attraverso il fiume Drina, o quando rientrano in Serbia dalla Bosnia o addirittura ci passano per la prima volta se entrano dal Montenegro.
In questo periodo poi i tantissimi respingimenti nell’area di confine tra la Croazia e il Cantone di Una-Sana stanno portando molte persone a scegliere di tornare in Serbia e provare altre vie e quindi questo ulteriore spostamento attraverso i confini interni del Paese crea delle tensioni.
Poi ci sono dinamiche di conflittualità tra i cantoni della Federazione. Già nel 2018 quando vi fu la prima tendopoli a Sarajevo di fronte alla biblioteca, in occasione della visita di Erdogan, le persone vennero fatte spostare con degli autobus verso il campo di Salakovac e al confine tra il Cantone di Sarajevo e il Cantone Erzegovese ci fu quasi uno scontro a fuoco tra le due polizie per ordini diversi. Quello fu il primo degli eventi, ma ci fu anche il caso di Bosanska Otoka in occasione dei blocchi dei treni delle persone che arrivavano da Tuzla via Banja Luka per arrivare a Bihac, oppure lo spostamento coatto delle persone dalla stazione dei treni di Bihac da parte della polizia verso l’area di Ključ.

Le questioni sono diverse, lo stesso campo di Lipa costruito in un ex villaggio vissuto da serbi di Bosnia, mai ripopolato, è un‘area molto “calda” e anche questo ha creato diverse polemiche. La strutturazione di campi in quella zona portò le forti proteste della sindaca della città di Drvar, e infine ricordiamoci cosa è successo pochi mesi fa dopo l’incendio di Lipa nel momento in cui le persone dovevano essere spostate nell’ex base di Bradina tra Mostar e Sarajevo. Anche in questo caso la popolazione fece una protesta e riuscì a bloccare il trasferimento. In tutto ciò, secondo il nostro punta di vista, manca una voce di questa parte di popolazione bosniaca che quantomeno contrasti le violenze che lo Stato sta piano piano perpetrando nei confronti della persone in movimento. Ma queste violenze si riservano anche verso loro stesse perché il blocco dei mezzi di trasporto pubblico, l’apertura dei campi, l’abbandono di persone all’addiaccio sta creando problematicità anche verso la popolazione bosniaca già di per sé sofferente per molteplici motivi.

I cartelli del presidio fuori dal campo Bira – © Diego Saccora
I cartelli del presidio fuori dal campo Bira – © Diego Saccora

Nel corso degli anni le autorità della BiH hanno quindi modificato il modo in cui trattano le persone migranti. Da una certa “tolleranza“, anche con il pretesto dell’emergenza sanitaria, si è passati a forme di intervento più dure e violente, e una parte di popolazione si è incattivita, si sono creati gruppi organizzati anti-migranti. Ci puoi spiegare cosa avviene e quali sono a tuo parere i motivi?

Di pari passo al clima di violenza dello Stato, gruppi che si autodefiniscono anti-migranti si sono maggiormente radicati. Qui a Bihac ce n’è uno che è attivo dal 2018, organizza proteste e manifestazioni. Tutti i giorni tiene un presidio nei pressi dell’ex campo di Bira chiuso a fine settembre 2020, stazionando nell’area adiacente con cartelli, paradosso anche questo perché a poche decine metri vi è il Krajina Metal che insieme al Dom Penzjonera è uno dei più grandi squat della città dove centinaia di persone vivono. Eppure i cittadini presidiano l’ex campo ormai chiuso da 6 mesi. Questi gruppi si sono dotati di un sito web antimigrant.ba che quotidianamente pubblica articoli, fa considerazioni usando linguaggio dell’odio, gettando benzina sul fuoco e prendendo di mira i volontari che più si espongono anche a livello mediatico a parlare delle situazioni nelle loro città.

Quello di cui solitamente non si parla, però, è tutto il bene che esiste, che seppure carsico continua grazie a cittadini che ogni secondo della loro esistenza lo usano per dare sostegno e aiuto concreto. Il limite, ricollegandomi a quanto detto sopra, è che manca una forma politica di questo sostegno che ne manifesti l’esistenza e che la dichiari pubblicamente.
E’ ancora troppo flebile la voce di bosniaci organizzati che si erga a tutela della propria casa e quindi dei diritti dei bosniaci e della popolazione in movimento perché ogni cosa che viene fatta agli ultimi, ogni diritto che viene negato a qualcuno prima o poi verrà negato a tutti.
Ma questo è un fattore di cui si stanno rendendo conto.
Consideriamo, infine, che la Bosnia è un Paese piuttosto giovane rispetto alle migrazioni di questo genere per cui alcune dinamiche si stanno vivendo solo ora, quando le stesse dinamiche nei Paesi europei le viviamo già da 30-40 anni e quindi si è radicata una dottrina, si sono sviluppati dei servizi e delle politiche dal basso che qui ancora stanno faticando a nascere perché sono ancora in fase di elaborazione.

Per gli attivisti e volontari indipendenti come è cambiata la situazione?

Per loro, ma anche per i componenti di Ong riconosciute a livello internazionale o europeo che non si sono registrate in Bosnia, la situazione sta peggiorando anche in virtù di come vengono interpretate le normative legate al Covid.
Diciamo che vengono fatte pesare delle disposizioni di distanziamento e di divieto di accesso solo in certi luoghi. Ad esempio, non si vedono poliziotti entrare nei bar e nei ristoranti dove centinaia di persone stanno senza mascherina e non distanziate, ma se un volontario viene visto accedere o trovato all’interno di uno squat, immediatamente viene fermato e gli viene richiesto un documento. Questa pressione avviene anche quando si viene sommariamente identificati come persone presenti per fare delle attività di solidarietà. Vengono registrati i dati anagrafici e l’indirizzo dove si risiede, quindi c’è anche una componente di rischio per i locatori che decidono di affittare anche laddove ci siano i documenti in regola per la permanenza legale nel Paese.
La pressione è tale che oramai la domanda se si è nel Paese per motivi “relativi ai migranti” è diventata una discriminante e viene posta ripetutamente ad ogni controllo. Questa modalità è replicata da più tempo e in più zone della Bosnia-Erzegovina quindi viene da pensare che sia una richiesta che parte dall’alto. Inoltre ci sono minacce di espulsione se si viene fermati o visti girare attorno a certi luoghi. E da una parte di cittadinanza locale c’è un monitoraggio in queste zone quasi da collaborazionisti.
La situazione non è perciò esattamente comoda per chi viene qui a portare solidarietà o a monitorare le violenze che le persone subiscono, ma anche per coloro che assieme a questo portano un sostegno alla stessa popolazione bosniaca.

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Il ministro della sicurezza bosniaco Selmo Cikotić, lo scorso novembre, ha firmato un accordo con il Pakistan che apre alla possibilità di rimpatriare i cittadini pakistani irregolari presenti nel Paese. Questo accordo è entrato in una fase operativa?

C’è un accordo sussistente con il Pakistan e pare che il ministero stia ragionando di stringere accordi anche con altri Paesi dell’area asiatica. Tuttavia non siamo ancora in una fase operativa e non è chiaro quando inizierà.
Gli unici rientri di cui si è a conoscenza sono quelli attraverso i cosiddetti rimpatri volontari assistiti, sui quali occorrerebbe capire se siano realmente volontari oppure siano una costrizione malcelata… .

In conclusione, in provincia di Venezia state collaborando con il progetto “Sentieri Partigiani”. Ci puoi brevemente spiegare di cosa di tratta?

Abbiamo stretto una collaborazione con “Sentieri Partigiani”, un gruppo di ragazze e ragazzi di Venezia legati dai valori della Resistenza, che ogni anno organizza camminate in particolare nel nord-est lungo i percorsi battuti dai partigiani. E’ un gruppo che crede fortemente anche nella pedagogia della montagna, nella fatica e nella condivisione, nello stare nella natura e nel tentativo anche di salvaguardare quello che i nostri nonni ci hanno lasciato in eredità. In queste giornate di cammino comune si affrontano anche questioni legate all’attualità.
L’idea di creare un ponte tra le montagne del nord-est Italia e i Balcani è stato uno dei punti sui quali abbiamo creato il progetto “Cronache balcaniche”, attraverso il quale si fa un po’ di informazione rispetto a ciò che accade alle persone qui, che magari sono esse stesse parte delle resistenze nei loro territori. Poi abbiamo lanciato una piccola campagna di raccolta smartphone e power-bank, perché sappiamo ormai dalle testimonianze di anni e anni che alle persone in movimento vengono, dalle varie polizie di confine, sottratti o distrutti i telefoni per impedire loro di spostarsi autonomamente e liberamente e per evitare la divulgazione di audio e video dei soprusi che subiscono.
Quando fanno rientro in Bosnia-Erzegovina dai respingimenti rimangono senza la possibilità anche di comunicare con le loro famiglie, di poter dire come stanno e dove sono, o poter mettersi in contatto con qualcun altro, magari in condizioni di difficoltà.
Ci sembrava un gesto non scontato quello di fare una raccolta di questo genere, anche perché si tratta di un oggetto che allo stesso modo anche per ogni giovane e non giovane italiano rappresenta qualcosa di non superfluo. Siccome in Italia vediamo molte raccolte effettuate con oggetti superflui, abbiamo anche pensato che fosse un’azione più potente e politica quella di privarsi di qualcosa che ha valore e donarla a qualcuno che ne ha bisogno e per cui il valore è ancora più alto. Ci sembrava una richiesta ancor più partigiana da fare, e su questo abbiamo creato quel progetto.

Per approfondire
Sito web Lungo la rotta balcanica
Raccolta articoli Altreconomia

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  1. https://www.meltingpot.org/Non-chiamiamola-emergenza.html
  2. conosciuta anche come Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina ndR.

Redazione

L'archivio di tutti i contenuti prodotti dalla redazione del Progetto Melting Pot Europa.

Stefano Bleggi

Coordinatore di  Melting Pot Europa dal 2015.
Mi sono occupato per oltre 15 anni soprattutto di minori stranieri non accompagnati, vittime di tratta e richiedenti asilo; sono un attivista, tra i fondatori di Libera La Parola, scuola di italiano e sportello di orientamento legale a Trento presso il Centro sociale Bruno, e sono membro dell'Assemblea antirazzista di Trento.
Per contatti: [email protected]