Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Corriere della Sera del 27 dicembre 2003

I predoni sulla via dei disperati

di Fabrizio Gatti

La prima puntata è stata pubblicata il 24 dicembre

SUL TRENO PER BAMAKO (Mali) – Il Mistral si infila come un pugno nel buio della savana. Undici carrozze fradice di sudore. Tremila uomini e donne, inscatolati a più di quaranta gradi. Bambini nudi intontiti dal caldo. Sacchi di farina ovunque. Bidoni pieni di pesce e mosche. Un televisore giapponese ancora imballato. Borse, scatoloni, valigie. E là davanti i fari della vecchia locomotrice Diesel: nell’aureola luminosa appare un baobab, e scompare, poi il nulla, un’acacia, di nuovo il nulla. L’Africa maltratta fin dalla prima notte di viaggio i suoi figli costretti a partire. Perché questo non è solo il treno degli immigrati. Questo è il convoglio dei banditi che nel buio assoluto dei villaggi assaltano gli scompartimenti e arraffano tutto ciò che riescono a toccare. È la fila di vagoni ondeggianti che quando scavalcano sferragliando i fiumi si riempiono di insetti, cimici e zanzare come se fossero fatti di carta moschicida. È la ferrovia che unisce l’Oceano Atlantico al Sahel, la porta del deserto e dei camion carichi di clandestini che salgono al Mare Mediterraneo. Da Dakar, Senegal, a Bamako, Mali: 1.420 chilometri, la via più veloce, si fa per dire, tra le due capitali.
Il viaggio sul Mistral dieci anni fa durava trenta ore. Oggi, quando la linea è bloccata per un deragliamento, come in questi giorni, se ne impiegano anche sessanta. Mohamed Touray, 31 anni, è partito da Bijilo, in Gambia. «Voglio andare in Svizzera – racconta -. Ora vado a cercare lavoro a Bamako. Qualunque cosa. Poi, se avrò soldi, chiederò il visto per la Svizzera. Se non me lo danno? Troverò qualche modo».
Con i camion del deserto?
«Sì, ma solo se non avrò alternative. Il deserto è pericoloso» sorride Mohamed Touray e mette la mano in tasca. «Ecco qua – dice mostrando una tessera con la sua foto -: era la mia carta d’identità a New York. Ci sono stato nel 1999. Poi il visto è scaduto».

LUNGA ESPERIENZA – Mohamed non ha bagagli sul treno. Tutta la sua vita è nelle tasche dei pantaloni, compreso un metro da muratore. Tira fuori un’altra foto: «Sono sempre io a New York. Facevo il carpentiere».
Quando decidono di affrontare il Sahara per aggrapparsi alle scogliere di Lampedusa, molti clandestini hanno già una lunga esperienza da emigranti. Il primo viaggio di solito li porta a Sud, nelle piantagioni della Costa d’Avorio. Ma anche lì il sogno si è infranto nelle disastrose conseguenze della guerra civile. Se la situazione non migliorerà, il Mali, dieci milioni di abitanti, già calcola il rientro in massa di almeno quattrocentomila connazionali. E la perdita di sessanta miliardi di franchi in rimesse, 92 milioni di euro all’anno. È come se in Italia ritornassero in un colpo due milioni e 240 mila emigranti.
Le stesse preoccupazioni riguardano Senegal, Niger, Nigeria e Ghana. Un ritorno già cominciato che non si fermerà nei villaggi d’origine ma, secondo le previsioni dei governi, consumerà i pochi soldi risparmiati nel viaggio più lungo e avventuroso: il deserto e, là in fondo, l’Europa.
Durante la sua visita in ottobre, Jacques Chirac ne ha parlato con il presidente del Mali, Amadou Toumani Touré. Il presidente francese ha chiesto più impegno contro gli emigranti che attraversano il Sahara.
E Touré gli ha risposto con una battuta che ha fatto ridere il pubblico: «Anche il primo francese entrato nella nostra Timbouctù arrivò da clandestino: disse di essere musulmano e di chiamarsi Abdallah».
Era il 1828 e l’esploratore Réné Callié non aveva alternative. Due anni prima il maggiore scozzese Gordon Laing, primo europeo a vedere Timbouctù, era stato assassinato perché non si era convertito all’Islam. Ma anche la richiesta francese, quaggiù, è sembrata scherzosa.
Fermare l’emigrazione clandestina significherebbe per il Mali poter controllare 4.434 chilometri di confine. Una successione di linee inventate dopo le conquiste coloniali. Tutte in pieno deserto.

IL PRESIDENTE CHIRAC NON SA – Forse il presidente Chirac non sa nulla di questo avviso appeso a Bamako, nella bacheca del Centro culturale francese. Dice che uno studente in Francia può vivere con seicento euro al mese. E poiché qui un falegname o un muratore spendono meno della metà di uno studente, c’è chi deduce che allora in Europa si possa vivere con meno di trecento euro al mese.
Djimba Diakite, 28 anni, ne è convinto. Non ha un diploma e nemmeno un compleanno da festeggiare. Sul suo passaporto il giorno e il mese di nascita sono indicati con xx e xx. Conosce soltanto l’anno: 1975. È nato a Deguela, duecento chilometri a Nord Est di Bamako. È il più grande di tre fratelli, etnia malinké. Quattro anni fa è immigrato a Bamako: «Perché – dice – Bamako è sinonimo di lavoro e arricchimento». Ma è un abbaglio.
Nella capitale solo un quarto dei giovani tra i 15 e i 25 anni ha un lavoro retribuito. Una percentuale che non è cambiata dagli anni ’70. Il 73 per cento della popolazione attiva si mantiene con occupazioni «informali».

UNA VITA DI ESPEDIENTI E BARATTI – Dal baratto degli ortaggi coltivati sulle aiuole degli incroci, alla vendita sotto gli alberi di scarpe false «made in China». E così in quattro anni Djimba Diakite non si è arricchito per niente. Fa l’idraulico per quarantamila franchi al mese, 61 euro e 53 centesimi. «Quindicimila franchi – racconta – se ne vanno nell’affitto della stanza dove dormo, quindicimila per il sacco di riso da 50 chili, diecimila in trasporti. A fine mese devo vivere con il credito. Io so che in Europa potrei guadagnare mille euro al mese».
Da un anno Djimba Diakite sta facendo l’investimento più importante della sua vita: mettere da parte 400 mila franchi per pagarsi il viaggio da clandestino. Ha già risparmiato qualche spicciolo. Ma più aspetta, più il percorso si allunga. A Bamako hanno saputo che l’Unione Europea ha convinto il Marocco a rimpatriare gli immigrati, prima che arrivino in Spagna e in Francia. Così, anche da qui, il traffico dei clandestini si sta spostando a Est. Verso il Niger e la Libia. Quindi verso l’Italia. Eppure non restano alternative. Al cancello blindato dell’ambasciata italiana più vicina, a Dakar, nell’ultimo anno si sono rivolti in ottomila.
Soltanto 400 hanno ottenuto il permesso di lavoro, mille il ricongiungimento familiare e 600 un visto temporaneo per turismo o affari. Gli altri seimila devono arrangiarsi. Come rivela Fatou Diouf, 24 anni, cameriera in un ristorante per 150 mila franchi al mese: «C’è un boss del commercio di vestiti che per tre milioni di franchi dichiara che lavori per lui e ti fa avere il visto italiano. Ma anche con l’aiuto dei parenti, tre milioni sono proprio tanti». La rotta del deserto costa molto meno. Se non si muore. Da Dakar a Tripoli, 165 mila franchi, 254 euro. Più gli ottocento-mille euro per la barca, dalla Libia all’Italia.
Il viaggio dal Senegal non sempre comincia in treno. «Oggi non si parte, è deragliato un merci», dicono in stazione a Dakar. Il Mistral è bloccato a Kayes, in Mali. Occorrono un giorno e mezzo di strada per arrivarci e tanti imprevisti. Mohamed Touray e gli altri passeggeri sbuffano e sudano in nove più l’autista, su una Peugeot da cinque posti.
Il tratto più lento è da Kidira, il confine, a Kayes: 106 chilometri in sei ore e mezzo, una foresta di baobab, un pastore peul con la radio appesa al collo e il motore che va a pezzi picchiando contro una pietra.
È buio fitto sulla stazione. Le uniche luci le muovono i passeggeri, che con le torce elettriche si guidano nella ressa. Le bancarelle sul piazzale di Kayes offrono pane, uova sode, pesce e datteri secchi. Il treno degli immigrati è già stracolmo. Mani sudate sollevano e passano sacchi e bidoni dentro i finestrini. Mohamed, in fuga dalla Gambia, riesce a sedersi sulla carrozza numero tre, posto 57, tra un commerciante di magliette che va a rifornirsi a Bamako e un meccanico che torna a trovare i genitori.

NEI VILLAGGI DI PAGLIA E FANGO – Rimbomba la sirena. Due richiami e l’eco che ritorna. Alle otto di sera le carrozze oscillano, rimbalzano, si muovono. Aziz vende carne di montone alla griglia. La tiene in una padella in equilibrio sulla testa. Ogni porzione viene avvolta in una carta polverosa, strappata da un sacco su cui in francese c’è scritto: cemento. L’arrivo nei villaggi di paglia e fango risuona di grida. Anche in piena notte. «Gilimeré, gilimeré», ripetono i bambini bambara dal marciapiede, porgendo sacchettini pieni d’acqua ai passeggeri stremati. Davanti ai finestrini danzano cesti di mele, banane, pomodori, una zucca gigante. Le donne li portano sulla testa, raggiungendo così le mani dei viaggiatori affacciati. Alla stazione di Bafoulabé il primo assalto. Una manciata di banditi sale sulle carrozze nel buio assoluto. Spariscono una valigia, una borsa, qualche sacco di farina.
Il viaggio da Kayes a Bamako dura sedici ore. Dicono che i piloti della Parigi- Dakar facciano lo stesso percorso in sei ore. Quello che pochi ricordano è il costo che ogni volta pesa sugli abitanti del Mali: un mese con la benzina esaurita e il 75 per cento delle vittime della gara, investite nei villaggi. A mezzogiorno la cappa e l’odore di smog annunciano Bamako. Il Mistral si fa strada nella folla che si agita in stazione. Mohamed Touray scende con calma africana. L’Europa è ancora tanto lontana per lui.

continua…