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Il Cas dalle porte aperte: la cooperativa Caracol di Marghera (Ve)

C’è un Centro di accoglienza straordinaria (Cas) con le porte aperte. C’è un Cas che organizza feste musicali e cene “accoglienti” aperte a tutta la cittadinanza per raccontare il lavoro svolto dagli operatori e dagli ospiti.

E se, come è capitato a me, vi è toccato di vederne altri, di Cas, sapete bene che tante, troppe, di queste strutture destinate all’accoglienza dei richiedenti asilo sono poco meno che fortezze, con portoni sbarrati e filo spinato sopra muri, dove agli operatori è vietato parlare con i giornalisti e gli attivisti della campagna LasciateCientrare che chiedono di ispezionare le strutture vengono accolti a colpi di querele.

Ma che alla Cooperativa Caracol si respiri un’aria radicalmente diversa lo si capisce non appena ti ci trovi davanti, con tutte quelle biciclette recuperate e messe a disposizione degli ospiti che hanno voglia di farsi un giro per la città. Siamo in via Fratelli Bandiera a Marghera, nell’entroterra veneziano. Il Cas senza porte sorge a ridosso del Centro Sociale Rivolta. Sull’esterno dell’edificio, un grande murales colorato ricorda che “Non dobbiamo chiedere il permesso per essere liberi“.

All’interno, gli spazi comuni e le sette stanze da letto sono colorate con fantasia e arredate in maniera… artistica. E si capisce presto il perché. Mobili e infissi provengono niente meno che da una installazione della Biennale. La celebre architetta indiana Anupama Kundoo, nell’ambito del progetto Rebiennale per l’utilizzo delle istallazioni dismesse, ha messo a disposizione della Caracol i materiali del padiglione “Building Knowledge” e ha organizzato un laboratorio di riutilizzo al quale hanno partecipano tanto gli operatori della Caracol quanto le persone ospiti.

Vittoria Scarpa, operatrice della Caracol, ricorda quel 18 luglio in cui la Prefettura ha deciso di affidare alla cooperativa i primi profughi: “Erano ventuno ragazzi provenienti dal Mali, dalla Nigeria, dal Senegal e dal Ghana. Venivano dal campo di Cona dove avevano trascorso un anno intero. Tutti stanchi dello scorrere delle giornate senza prospettive o cambiamenti. Ci dissero subito che volevano cucinare loro e noi gli abbiano detto che andava bene. Gli abbiamo affidato il budget mensile destinato alla spesa e non ce ne siamo mai pentiti. Ora gestiscono loro la cucina e i pasti. Così abbiamo fatto anche per il vestiario. Perché dovrei essere io a scegliere per loro?“.
La gestione in prima persona di cucina e degli spazi comuni ha rinforzato il senso di comunità, superando i confini delle diverse nazionalità. Senso di comunità che ha coinvolto anche il giovane bengalese, l’unico richiedente asilo del gruppo che non proviene da un paese subsahariano.

L’accoglienza funziona se è diffusa su tutto il territorio e con centri di piccole dimensioni – spiega Vittoria -. Non è umanamente possibile pensare di accogliere in maniera adeguata in un Cas con centinaia o addirittura migliaia di richiedenti asilo. Neppure se hai a disposizione un battaglione di operatori. Magari si riescono a garantire i servizi fondamentali ma è quasi impossibile seguire un’adeguata assistenza legale, percorsi di integrazione e ricerca lavoro che sono le condizioni per potersi costruire una vita nel nostro paese. Ma questo è quello che succede quando molti comuni chiudono le porte e quindi l’unica risorsa sono i grandi centri di accoglienza. Queste persone, per arrivare in Italia, hanno subito trattamenti inenarrabili come rapimenti, torture, ricatti. Senza contare la terribile e rischiosa traversata in mare sui gommoni. Non puoi pensare di gestirle solo come numeri, senza conoscerle di persona, chiacchierarci e fare amicizia. E’ anche di questo che hanno bisogno, loro e anche noi“.

L’accoglienza che funziona tiene meno banco nei media rispetto a quella dello sfruttamento e dei tanti scandali di cui ci tocca leggere ogni giorno. E’ una regola del giornalismo, che la notizia è più notizia se è brutta. Non possiamo farci nulla, ma ogni tanto per fortuna qualcuno racconta anche storie diverse. E la Caracol, pur nei suoi pochi mesi di vita come Cas, ne ha raccolte tante, di storie diverse. Come quella dell’aiuto che gli ospiti hanno dato all’associazione Il Portico, salvando la tradizionale festa con il loro impegno e rivelando le persone migranti per quello che davvero sono: una risorsa per tutti.

Anche per questo, la Caracol – nome che viene dai tanti viaggi nel Chiapas zapatista dei suoi fondatori, tra i “caracol“, vale a dire municipi autogestiti, degli indigeni ribelli – ha deciso che si merita una bella festa. E lo farà con l’orchestra più numerosa del mondo, quella degli Stregoni, la band che gira l’Europa per svolgere laboratori sonori con tutti i migranti, e poi organizza spettacoli aperti a tutta la cittadinanza.
L’appuntamento è per sabato 28 ottobre al Centro Sociale Rivolta. Seguirà una cena di autofinanziamento. Una cena solidale e accogliente, naturalmente.

Riccardo Bottazzo

Sono un giornalista professionista.
La mia formazione scientifica mi ha portato a occuparmi di ambiente e, da qui, a questioni sociali che alle devastazioni dei territori sono intrinsecamente legate. Ho pubblicato una decina di libri tra i quali “Le isole dei sogni impossibili”, edito da Il Frangente, sulle micronazioni dei mari, e “Disarmati”, edito da Altreconomia, che racconta le vice de dei Paesi che hanno rinunciato alle forze armate. Attualmente collaboro a varie testate cartacee e online come Il Manifesto, Global Project, FrontiereNews e altro.
Per Melting Pot curo la  rubrica Voci dal Sud.