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Rubriche: Racconti di vita, Confini e frontiere

Il caso di Amir Labbaf, una vicenda individuale e collettiva

Firma la petizione che chiede un corridoio umanitario

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Nella tarda mattinata dell’8 aprile Amir Labbaf ha messo fine allo sciopero della fame.
" Ora il capo della polizia è venuto a trovarmi e ha promesso di trasferirmi in un luogo sicuro e mi ha chiesto di porre fine allo sciopero, poi mi avrebbero trasferito in un luogo sicuro. Sto mettendo fine allo sciopero adesso" scrive Amir, che ringrazia tutte le persone che lo hanno sostenuto fino ad ora.

di Redazione community, Rossella Marvulli

Come altre migliaia di profughi imbrigliati nelle maglie dei campi della Bosnia, anche Amir Labbaf è stato costretto a lasciare il suo paese per non consegnarsi alla morte.

Quando viveva nella sua terra di origine, l’Iran, Amir Labbaf faceva parte dei dervisci, una confraternita inscritta nel sufismo, la componente mistica della religione islamica. Ma in Iran questa è una minoranza perseguitata, e Amir ha pagato con la persecuzione politica il suo impegno per la difesa del proprio credo: l’Iran è una repubblica islamica rigidamente strutturata sulle frange tradizionali dell’Islam; le richieste di riconoscimento politico da parte di qualsiasi deviazione da questo troncone è passibile di persecuzione da parte degli apparati del potere. Dopo essere stato arrestato più di otto volte, nel 2018 Amir è stato costretto a scappare.

Una volta fuori dall’Iran, Amir si è immerso nei sentieri di tanti rifugiati della "rotta balcanica": ha raggiunto la Turchia, ha attraversato l’Egeo a bordo di un gommone di fortuna. Dalla Grecia, dove ha vissuto per mesi nell’allora campo di Moria (cumulo di tende bruciate ora), ha risalito i Balcani chiedendo puntualmente asilo politico ovunque fosse possibile; ma le sue richieste sono state sempre ignorate. Era già in Croazia quando si è consegnato di sua volontà alla polizia per chiedere asilo ancora una volta; contro ogni costituzionalità, si è visto deportare in Bosnia. Anche Amir ha quindi tentato il game tra la Bosnia e la Croazia. Al suo secondo tentativo, nella notte del 28 giugno 2019, camminando per i boschi di quel confine, per salvarsi da un investimento è caduto in un dirupo, un incidente che gli ha procurato un danno alle vertebre lombari.

Da quel momento non gli è stato più possibile camminare sulle proprie gambe; requisito, questo, necessario se si è profughi in viaggio lungo una rotta di terra. Raccolto da un gruppo di migranti pakistani, è stato trasportato da una vettura di polizia all’ospedale di Rijeca. Il giorno dopo, una pattuglia lo ha prelevato, picchiato, spogliato e derubato di tutto e lasciato in piena notte sul confine bosniaco.

Strisciando per ore sui propri gomiti, Amir è riuscito a raggiungere una strada e resosi visibile, è stato notato da un camionista e caricato sul proprio mezzo. Oggi risiede al campo Sedra a Ostrozac, Bosnia; paralizzato dalla vita in giù e costretto su una sedia a rotelle, non gli è stato riconosciuto ancora il diritto di asilo e non riceve le cure necessarie per la sua difficile condizione fisica [1].

Il caso di Amir Labbaf è il caso della "rotta balcanica". È il calco negativo, scavato in un uomo, dell’intero sistema che sorregge le logiche di potenza con cui sono gestite le migrazioni; innanzitutto esibisce in modo lampante quanto già è scritto nella storia di ogni profugo lungo la rotta: il migrante subisce nei fatti delle profonde limitazioni personali a causa della sua irregolarità giuridica lungo i confini statali; Amir Labbaf e tutti loro sono vittime di violenze, furti, a pestaggi ai limiti della tortura, alla distruzione dei propri documenti da parte delle polizie di frontiera. La loro invisibilità agli occhi dello Stato consente alle autorità di cedere alla violenza: le loro vicende saranno difficilmente denunciabili e comprovabili.

Su questo dato banalmente giuridico occorre insistere, perché è la matrice di una politica della forza che da anni viene perpetrata lungo i nostri confini. Ma la vicenda di Amir urla ancora più forte la tensione di questi corpi, perché è sulla fisicità dei corpi che si gioca il successo del loro passaggio in Europa; il corpo deve essere sano, deve reggersi in piedi, deve poter procedere attraverso i boschi: su una sedia a rotelle, Amir non può più nulla contro il game; la sua immobilità fisica lo condanna fuori dai confini dell’Unione Europea. Il suo caso, già eloquente per la singolarità della sua persona, diventa il segno fisico della marginalizzazione di una parte di uomini che non contano nulla per lo Stato.

La storia di Amir è stata portata all’attenzione della comunità europea e di associazioni del pubblico e del privato dall’attivista Lorena Fornasir, psicoterapeuta, da anni impegnata nella cura dei migranti della rotta balcanica fra Trieste e la Bosnia.

Lo scorso febbraio ha lanciato una petizione [2] rivolta alla Corte europea dei Diritti dell’uomo per aprire un corridoio umanitario che consenta ad Amir Labbaf ciò che non può più permettersi con le sue stesse gambe: tirarsi fuori dal campo di Sedra e fare domanda d’asilo in un paese dell’Unione Europea. Sebbene la petizione abbia avuto grande risonanza, non ha portato nessun concreto supporto alla causa. Non serve neanche ricordare che l’apertura dei corridoi umanitari, prassi complessa e destinata ad un numero molto limitato di casi di estrema vulnerabilità, viene solitamente promossa da organi istituzionali e Chiese europee e poi passata al vaglio di una lunga burocrazia. [3]

Il 28 marzo Amir Labbaf ha iniziato uno sciopero della fame per difendere i diritti legali e umani suoi e di tutti i migranti che come lui, nel campo di Sedra e in tutti i campi profughi stipati contro i confini dell’Unione Europea, subiscono lo stigma della propria condizione e la violazione sistematica dei diritti dei rifugiati. Ad oggi 7 aprile è al suo undicesimo giorno di sciopero della fame e al suo quarto dei medicinali (Amir dichiara di avere malattie respiratorie e cardiache e di assumere psicofarmaci in seguito alle torture subite).

In una recente intervista ha affermato “Quello che chiedo è un posto sicuro e protetto dove stare, un posto che non possa essere raggiunto da chi cercava di uccidermi in Iran. Chiedo al governo di concedermi l’asilo. Perché devo affrontare tutto questo e sacrificare la mia vita per difendere la legge e la giustizia? L’asilo è un nostro diritto. Finora non ho avuto cure mediche adeguate e la mia sicurezza non è stata garantita”. [4]

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Note

[1] Oltre Lipa. Reportage sulla Rotta Balcanica ai margini dell’Europa

[2] Firma la petizione: https://bit.ly/3tbhR9q

[3] https://www.nev.it/nev/wp-content/uploads/2019/12/191205-Concept-Note.pdf

[4] https://bit.ly/2Q95216

Vedi anche

  • La polizia di frontiera croata accusata di aver aggredito sessualmente una migrante afgana
  • I paradossi della Bosnia ed Erzegovina. Come il Paese ostaggio delle politiche europee è diventato oppressore delle persone migranti
  • Dossier - La rotta balcanica. I migranti senza diritti nel cuore dell’Europa
  • Romania: aumentato del 134% in un anno l’arrivo di persone migranti
[ 8 aprile 2021 ]
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ARGOMENTI:
Balcani, Bosnia e immigrazione, Confine tra Bosnia e Croazia, Diritto di asilo, Est Europa, Europa
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