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Il clima, ragione trascurata della migrazione

La politica non può più tardare, le persone sono già in movimento

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di Elettra Repetto, Redazione community

Mappa consultabile qui

I disastri climatici sono ormai all’ordine del giorno. Anche noi che viviamo in occidente, in zone temperate, stiamo facendo i conti con temporali di forza crescente, temperature torride, inondazioni.

Secondo l’International Displacement Monitoring Center, nel 2017 ci sono state più di 18 milioni di persone obbligate a spostarsi per cause climatiche [1], più di quante non si siano spostate per fuggire a guerre.

Persino gli Stati Uniti, il cui presidente continua a negare gli effetti del cambiamento climatico, negli ultimi mesi hanno dovuto fronteggiare i più devastanti incendi della loro storia. La crescente aridità del terreno, le acque che salgono mangiandosi con costanza tenace le coste, l’innalzamento delle temperature marine che minacciano la disponibilità di pesce hanno già portato molti a migrare, soprattutto in Indonesia, Africa Sub-Sahariana e Sud America.

Se si parla di rifugiati climatici come dei rifugiati del futuro infatti, i migranti climatici sono persone in movimento già adesso, la cui esistenza e diritti dobbiamo riuscire a garantire ora nonostante la mancanza di strumenti legali adeguati. L’importanza di riconoscere legalmente i migranti climatici e non semplicemente i rifugiati, è legata al fatto che molti migranti si spostano entro i confini dello stesso paese e si muovono ciclicamente, tornando in zone che abbandonano regolarmente alla ricerca di acqua, lavoro, cibo, cosa che non li qualifica come rifugiati e non dà loro accesso a quelle risorse di cui avrebbero invece bisogno.

Se il termine rifugiato ha una sua chiara definizione giuridica a livello internazionale che impone certi doveri di accoglienza agli stati, il termine migrante indica semplicemente una persona che cambia luogo di residenza e non impone azioni precise di protezione. Gli strumenti, a livello internazionale e locale, mancano, anche a causa della difficoltà di definire unilateralmente chi è migrante [2]. La migrazione stessa infatti, come messo in evidenza dall’Organizzazione Mondiale per la Migrazione (IOM), può essere “forzata, volontaria, circolare, temporanea, stagionale, permanente e di ritorno [3]”, molte persone sono migranti o lo sono state, e non tutte hanno bisogno delle stesse forme di protezione.

Chi sono dunque i migranti climatici e che cos’è la migrazione climatica?

Nonostante la mancanza di un consenso internazionale sui termini e sulle loro implicazioni pratiche, possiamo dire che ogni persona che lasci temporaneamente o permanentemente il proprio luogo di residenza per motivi legati anche ai cambiamenti climatici come l’erosione del terreno, l’acidificazione delle falde acquifere, la desertificazione, l’incentivarsi di tornado è un migrante climatico. Le zone costiere e i paesi in via di sviluppo privi di risorse e mezzi di adattamento, sono i più colpiti dalle conseguenze dei cambiamenti climatici, ma anche le minoranze nelle aree più ricche del mondo, le persone con meno accesso a risorse e informazioni.

La maggior parte si muove prima che i cambiamenti siano irreversibili, che l’accesso all’acqua potabile [4] e al cibo non siano totalmente compromessi quindi non si sposta forzata, ma sceglie di farlo. Per questi, la definizione di rifugiato non si applica, anche perché molti si spostano all’interno dei confini del loro stesso paese.

Photo credit: Rapporto "Time to act"


Parlando di rifugiati, proprio chi è già adesso rifugiato sarà colpito più duramente dal cambiamento climatico, anche se alcuni potrebbero essere più resilienti [5] di chi non si è mai spostato.

Molti sono e saranno i migranti nazionali, moltissimi gli spostamenti locali, le campagne continueranno a spopolarsi e le città diventeranno sempre più grandi, con quartieri formicaio con condizioni igienico-sanitarie sempre più precarie.
Guatemala, Messico e il Sud America in generale, insieme all’Africa Subsahariana vedono già spostarsi migliaia di persone all’interno dei loro confini, e, se non vengono presi provvedimenti al più presto, queste potrebbero diventare presto milioni.

Secondo uno studio pubblicato dalla Banca Mondiale, nella regione Sudamericana gli effetti del cambiamento climatico infatti porteranno 17 milioni di persone a cercare rifugio in zone meno aride entro il 2050, mentre altri 86 milioni si sposteranno in Africa. Moltissime persone si affolleranno nelle città, contribuendo ad un’urbanizzazione che già ora mette in difficoltà molti centri.

Nel solo Messico, la Banca Mondiale stima che 1,7 milioni di persone si muoveranno dalle zone più aride e secche verso Mexico City. Tutte queste persone si troveranno a vivere concentrate in una città i cui servizi saranno messi a dura prova, in lotta per l’accesso a cibo e acqua potabile. Se le città offrono opportunità, allo stesso tempo possono diventare trappole, scrive Abrahm Lustgarten del New York Times.

Se prendiamo El-Salvador come esempio e l’esplosione che la capitale ha avuto negli ultimi vent’anni con l’arrivo di migranti da zone rurali, vediamo come, scrive Lustgarten, “in questi luoghi... lavori ben pagati erano già difficili da trovare prima della pandemia e dei suoi effetti, la povertà stava incrementando e il crimine innalzandosi... Quanto più la società si indebolisce, quanto più le gangs estorcono e reclutano”.

Di fronte a questo stato di cose, è comprensibile come le persone cerchino di fuggire verso gli Stati Uniti, che, dal canto loro, innalzano muri, non si impegnano a ridurre le emissioni di CO2 (dopo il meeting di Parigi, anche il summit COP24 è stato un disastro) e non firmano documenti che riconoscono il cambiamento climatico come causa legittima di spostamento (il Global Compact for Migration del 2018).

Photo credit: Fabeha Monir/Oxfam


Se chi ha i mezzi non creerà progetti a lungo termine per sostenere paesi in difficoltà climatica, da questi stessi paesi partiranno sempre più persone che premeranno su quegli stessi confini che gli stati così ostinatamente vogliono proteggere. Lo stesso Lustgarten ha messo a punto un modello che evidenzia i drammatici effetti della chiusura dei confini. Si stima che la chiusura delle frontiere e la non cooperazione potrebbero portare alla morte annuale di 1.5 milioni di persone solamente per caldo, senza contare le persone che perderebbero la vita per fame, disidratazione e conflitti per l’accesso all’acqua [6]. Se gli stati più ricchi decidono di chiudere le frontiere e non permettere accesso ai migranti, i risultati saranno sconcertanti e inumani: un terzo della popolazione mondiale potrebbe ritrovarsi a vivere al di fuori delle zone climatiche dove è possibile la civilizzazione.

Questo atteggiamento di chiusura e non cooperazione, di cui gli Stati Uniti si fanno ora portatori a livello mondiale, è cieco rispetto al futuro che gli stessi Stati Uniti stanno già ora affrontando e con il quale dovranno presto venire a patti: un futuro di incendi selvaggi, aridità, uragani e mancanza d’acqua. Mai come quest’estate, gli Stati Uniti hanno visto bruciare le loro terre, mangiate da fiamme violente. Mai come a San Francisco, il nord del mondo si è reso conto che i cambiamenti climatici possono rendere tutti noi migranti.

Pensiamo infatti sempre ai migranti come a persone provenienti da zone altre, dal Sud del mondo, pensiamo a chi parte come a persone i cui paesi non hanno mezzi.

L’immagine del migrante che il Nord e l’Occidente hanno è un’immagine di una persona che deve essere disposta ad accettare le condizioni che noi le imponiamo per accoglierla e ora ci troviamo noi stessi a dover pensare a strategie di sopravvivenza. Presto, gli stessi USA, dovranno fare i conti con numeri sempre più elevati di migranti interni, obbligati a spostarsi dalla Florida e dalla California sempre più a nord, verso il Canada, senza avere, come ho sottolineato, un quadro di riferimento legale adatto a rispondere alle esigenze di queste persone. 50 milioni di persone negli Stati Uniti vivono adesso in megalopoli costiere che saranno interessate dall’innalzamento dei mari, molti altri in zone strappate al deserto, aree presto inospitali.

Photo credit: Dal documentario "Tropico del caos" di Angelo Loy


Se fare scelte politiche coraggiose e lungimiranti, impegnandosi a tagliare la CO2 e investendo in energie rinnovabili è la cosa più urgente al momento, non è tuttavia l’unica [7]. Il futuro non appare roseo, e la migrazione di grandi numeri di persone è un fatto inevitabile, i cui effetti possono però essere mitigati con politiche accorte.

Pensare al futuro significa pensare a come gestire la migrazione inevitabile di popoli che già ora soffrono per i cambiamenti del clima, significa investire in educazione e programmi di sostegno ai popoli meno capaci di affrontare disastri naturali [8].

Occuparsi di migranti climatici significa anche, a livello politico, non dimenticare chi non può migrare perché in condizioni economiche, sociali e culturali tali da non poterlo fare. Questo non solo riduce i costi in termini umani del cambiamento climatico, ma porta ricchezza in paesi che potrebbero sfruttare energie umane locali per affrontare i cambiamenti e imparare a usare le rinnovabili per ridare vita alle loro terre, ai loro paesi. Allo stesso tempo, è fondamentale spingere affinché tutti i paesi considerino le condizioni climatiche come determinanti nella scelta di migrare e si impegnino per riconoscere uno status ai migranti climatici interni ai loro paesi, prima che questi diventino rifugiati.

Questi punti sono essenziali, come messo in evidenza anche dall’UE [9] che promuove anzi un approccio globale di sostegno ai paesi più colpiti nell’adattarsi al cambiamento climatico. Diverse sono le risposte politiche richieste in diverse fasi della migrazione [10], il rafforzamento delle istituzioni locali e della loro capacità di risposta ai cambiamenti, la messa in piedi di un sistema di protezione e assistenza per le persone in movimento e, infine, un programma di integrazione o re-integrazione, dovessero le persone tornare dal paese da cui sono partite.

Soprattutto, per evitare un disastro in termini umani, bisogna riconoscersi tutti vulnerabili ed essere pronti ad abbattere muri e costruire ponti, per aiutare le persone a migrare ai loro termini, in condizioni umane dignitose e per aiutare i luoghi che le ospiteranno a prepararsi per tempo, con programmi di lavoro e inserimento adatti a creare nuove comunità, impiego e cultura.

La sfida è delle più complesse e richiede un eccezionale impegno politico, ma non possiamo permetterci di perdere altro tempo.

Elettra Repetto

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Note

[1] Global report on internal displacement, 2018

[2] https://eu.boell.org/sites/default/files/hbs_time_to_act.pdf

[3] https://publications.iom.int/system/files/pdf/mecc_outlook.pdf

[4] https://inweh.unu.edu/wp-content/uploads/2020/05/Migration-and-Water-A-Global-Overview.pdf

[5] https://publications.iom.int/system/files/pdf/wmr_2020.pdf

[6] https://inweh.unu.edu/wp-content/uploads/2020/05/Migration-and-Water-A-Global-Overview.pdf

[7] https://publications.iom.int/system/files/pdf/mecc_outlook.pdf

[8] https://publications.iom.int/system/files/pdf/wmr_2020.pdf

[9] https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/etudes/join/2011/462422/IPOL-LIBE_ET(2011)462422_EN.pdf

[10] https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/etudes/join/2011/462422/IPOL-LIBE_ET(2011)462422_EN.pdf

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Photo credit: Global report on internal displacement, 2018

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