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Il controllo dei confini e la vita precaria dei migranti in Italia

Simon McMahon, Border Criminologies - Università di Oxford (Facoltà di Legge)

Photo credit: Tommaso Gandini, #overthefortress (sbarco al porto di Catania)
Photo credit: Yamine Madani, #overthefortress (Porto di Augusta)
Photo credit: Yamine Madani, #overthefortress (Porto di Augusta)

Al porto siciliano di Augusta il vento che spazza il mare odora di sale, gas di scarico e fumi industriali dalle fabbriche e dalle raffinerie circostanti. Mentre il sole splende, assieme allo staff della polizia italiana, dell’agenzia europea di controllo dei confini Frontex e di ONG internazionali, sono in attesa di una nave militare che sta per raggiungere la banchina. Qualche giorno fa più di 700 uomini e donne hanno lasciato la costa libica per raggiungere l’Europa. Presto saranno seduti di fronte a noi. Benvenuti in Italia.

Alcuni di loro saranno sollevati, altri preoccupati per quello che li aspetta. Molti scopriranno che il sistema messo in piedi per accoglierli e proteggerli risulterà in una vita precaria. Gli sforzi di accrescimento dei controlli sulle migrazioni stanno producendo un futuro incerto per la maggior parte di coloro che attraversano il Mediterraneo per raggiungere l’Europa.

Dal 2014 circa mezzo milione di persone sono partite dal Nord Africa e, attraversando il mare sono arrivate in Italia. Tanti poi hanno lasciato l’Italia, proseguendo il loro viaggio verso nord per arrivare in altri paesi. Come risposta, nel corso del 2015 i leader europei hanno cercato di rendere più rigorosa l’identificazione dei nuovi arrivi ai porti così da distinguere tra rifugiati e i cosiddetti migranti economici. Sono stati attivati anche quattro centri chiusi nei porti italiani, meglio conosciuti come “hotspot”, dove i nuovi arrivati possono essere ricevuti e identificati. Dopodiché possono essere traferiti da qualche altra parte in Europa, mandati ai centri d’accoglienza per rifugiati in attesa che la loro richiesta d’asilo venga esaminata, oppure rimandati al loro paese d’origine. Come ha affermato il Presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker: “le persone devono essere registrate. Niente registrazione vuol dire niente diritti.

Photo credit: Tommaso Gandini, #overthefortress (sbarco al porto di Catania)
Photo credit: Tommaso Gandini, #overthefortress (sbarco al porto di Catania)

L’anno scorso, per la mia ricerca sulla cosiddetta crisi delle migrazioni in Europa, ho visitato porti, hotspot e centri d’accoglienza del Sud Italia. Il Ministro degli Interni ha dichiarato che il loro approccio avrebbe “migliorato la capacità, la qualità e l’efficienza del sistema di asilo, di accoglienza e di trasferimento”. Ciò che ho visto però è che se da una parte sempre più persone vengono identificate tramite le impronte digitali, l’aumento della rigidità nell’identificazione e negli hotspot è pieno di contraddizioni.

Chiunque passi attraverso gli hotspot italiani è obbligato a dichiarare il proprio nome, età, nazionalità e a lasciare le impronte digitali. La registrazione delle sue impronte digitali in un database centralizzato dell’Unione Europea, poi, assicura che se vanno via senza documenti o fanno richiesta d’asilo in un altro paese dell’UE, possano essere rimandati in Italia.

Ma un recente rapporto di Amnesty International documenta diversi casi in cui sono state utilizzate violenze fisiche e psicologiche per ottenere la registrazione delle impronte digitali. Non sorprende dunque che le persone che subiscono violenze al loro arrivo cerchino una via per fuggire.

Tuttavia, il fallimento della gestione dei confini Europei va oltre l’attuazione dei controlli d’identità. Ciò cui assistiamo oggi è l’isolamento dei migranti in Italia e nuove forme di precarietà causate dall’intensificarsi dei controlli ai confini.

All’inizio gli hotspot sembravano fornire un’opportunità di condividere la responsabilità di supportare coloro che arrivavano in Europa in cerca di protezione e di una vita migliore; un meccanismo di condivisione dell’onere e una valvola di sicurezza in grado di diminuire la pressione sull’affollato e caotico sistema d’accoglienza italiano. La valvola di sicurezza è però rimasta chiusa. È passato più di un anno dall’inizio del programma di trasferimento dei rifugiati e pochi sono i risultati raggiunti. Dalla fine di novembre di quest’anno, soltanto 1.800 persone sono state trasferite dagli hotspot italiani in altri paesi dell’Unione Europea. Al contrario, nel solo 2015 diversi paesi dell’Unione Europea hanno chiesto all’Italia di riprendersi 25.000 richiedenti asilo.

Photo credit: Tommaso Gandini, #overthefortress (sbarco al porto di Catania)
Photo credit: Tommaso Gandini, #overthefortress (sbarco al porto di Catania)

In Italia il sistema d’asilo e i centri d’accoglienza sono incapaci di affrontare la situazione. I tempi burocratici sono lunghi e imprevedibili, lasciando così le persone in un limbo. Per liberare spazio, le autorità italiane hanno adottato un approccio più restrittivo sulle richieste d’asilo provenienti da paesi che non sono in guerra, aumentando considerevolmente il numero di respingimenti. Verso la fine del 2015, l’ordine di espulsione è divenuto sempre più frequente nei confronti delle persone provenienti dai paesi dell’Africa occidentale, con l’obbligo di lasciare l’Italia in sette giorni.

Il sistema diffonde preoccupazione fra coloro che vi rimangono intrappolati. Come mi disse M., un ragazzo ghanese che incontrai circa un anno fa, “prego Dio e la commissione esaminatrice… Non mi hanno indicato una data precisa, ma hanno già preso le mie impronte digitali.. Ci sono state diverse deportazioni verso il Ghana, sono spaventato. Non dormo perché ho paura. Se mi mandassero indietro ora, perché dovrebbero rimandarmi là, a fare cosa? A rubare? A mendicare?

Sono poche le opzioni per coloro che stanno cercando di raggiungere i familiari da qualche parte in Europa, o che non vogliono stare in Italia e aspettare in condizioni di asilo incerte o nei sistemi di trasferimento. Per impedirgli di attraversare i confini, i paesi al nord hanno introdotto controlli sempre più rigidi per i migranti senza documenti. Dopo essere stati respinti al confine svizzero, in centinaia si sono stabiliti a Como. Lo stesso spettacolo si può vedere a Ventimiglia, al confine con la Francia, come al confine tra Italia e Austria, dove sono aumentati i controlli.

Photo credit: Tommaso Gandini, #overthefortress (sbarco al porto di Catania)
Photo credit: Tommaso Gandini, #overthefortress (sbarco al porto di Catania)

Nell’hotspot di Taranto, in Puglia, ho incontrato all’inizio di quest’anno due afghani che parlavano un fluente tedesco. Mi dissero che avevano ottenuto lo status di rifugiati in Austria, ma che erano stati portati al confine italiano e poi fino a Taranto per essere “identificati”. Si stima che da luglio siano state trasferite lì dal nord Italia dalle 40 alle 50 persone al giorno. L’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (.pdf) ha dichiarato che la maggior parte è stata identificata e sono state prese le impronte digitali.

Mandare di nuovo in un hotspot queste persone è inutile e costoso, dato che il costo di un autobus da Como a Taranto è di 5.000 euro. Ma al di là di tutto, è alienante per le persone coinvolte. Una volta trovati i dati delle persone nel sistema, il cancello di sicurezza si apre e vengono buttati fuori, lasciando che siano loro stessi a trovare in un qualche modo la via di casa.

I limiti degli hotspot e delle altre risposte che l’Unione Europea ha messo in atto sono causati da una volontà di controllo a tutti i costi e da una mancanza di solidarietà nel condividere l’onere. Allo stesso modo però stanno producendo nuove forme di vita precaria per coloro che arrivano in Europa dai suoi confini meridionali. L’attuale sistema fa sì che le persone che arrivano nei porti italiani e nelle strutture d’accoglienza si trovino poi faccia a faccia con ciò che Nick de Genova ha definito la loro “deportabilità”: anche se il Governo italiano non li espelle direttamente, la possibilità che loro possano essere espulsi dai centri d’accoglienza o presi e spediti lontano senza preavviso significa che il loro futuro rimane incerto.

La portata di tutto ciò potrebbe non essere evidente nei prossimi anni, ma al momento è chiaro che esiste una profonda contraddizione nel cuore dei confini europei: sebbene ci sia consenso sul valore di salvare vite in mare, esiste meno accordo su quel che bisognerà fare dopo.