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Il diritto di asilo e i curdi: il caso di Venezia

La legge Bossi Fini contiene una lacuna enorme, perché si è preoccupata di disciplinare solo il diritto al riconoscimento allo status di rifugiato disciplinato dalla Convenzione di Ginevra del 1951, ma non si è preoccupato di menzionare minimamente il diritto riconosciuto dalla Costituzione italiana all’art. 10, comma 3, che recita “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione Italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
Questa norma costituzionale, come ha stabilito la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, è un diritto soggettivo che non necessita di disposizioni attuative ovverosia, anche in mancanza di norme di legge che regolamentino questo diritto, egli può essere comunque esercitato. In mancanza di un organo amministrativo, preposto a valutare le domande di asilo proposte in base alla Costituzione (e non in base alla Convenzione di Ginevra), è direttamente all’autorità giudiziaria ordinaria (tribunale del luogo ove ha domicilio il richiedente) che può essere attivata la procedura per l’accertamento del diritto di asilo. Quindi esiste questo doppio binario “status di rifugiato previsto dalla convenzione di Ginevra” e “diritto di asilo previsto dalla nostra costituzione”, entrambi i diritti possono essere accertati davanti al giudice ordinario.
Recentemente sono diventati sempre più numerosi i casi di persone che avendo richiesto alla Commissione Centrale il riconoscimento dello status di rifugiato hanno ottenuto un provvedimento di rifiuto. In questi casi si può fare ricorso al tribunale e normalmente, in queste occasioni, gli interessati vengono consigliati non soltanto di richiedere l’accertamento del riconoscimento dello status di rifugiato ma anche, in subordine, il riconoscimento del diritto di asilo in base al principio stabilito dalla Costituzione italiana.
Il primo caso di accertamento giudiziario del diritto di asilo previsto dalla Costituzione è stato attivato dal signor Ocalan, presso il Tribunale di Roma, che ha portato ad una sentenza che ha dichiarato il suo diritto di ottenere asilo in Italia nonostante Ocalan avesse rifiutato di presentare la domanda dello status di rifugiato. Questa prima sentenza ha rappresentato una sorta di paletto nella interpretazione e applicazione della legge a questo riguardo. Altri casi si sono proposti alla magistratura in tutto il territorio italiano e recentemente abbiamo avuto ulteriori conferme sulla diretta operatività di tale principio. Citiamo una sentenza del Tribunale di Milano, pubblicata nel prossimo numero della rivista “Diritto, immigrazione e cittadinanza” a cura di Asgi e Magistratura Democratica, nella quale si prende in considerazione il caso de figlio di un noto esponente dell’opposizione al regime iracheno, condannato a morte mediante impiccagione. Questa persona ha dichiarato e dimostrato di avere collaborato con il padre nella gestione del partito Al Dawa svolgendo le attività di stampa clandestina ed espatrio clandestino in Iran dei compagni di partito ed altri oppositori ricercati dal regime. Il caso, sottoposto all’attenzione della commissione centrale per l’esame della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, è stato liquidato velocemente in quanto la commissione ha ritenuto che questi fatti fossero di ordinaria rilevanza penale. In altre parole che questi comportamenti fossero dei normali crimini, non delle attività di carattere politico e quindi la persecuzione nei confronti di questo signore non potesse essere considerata secondo al convenzione di Ginevra ma come una “normale” applicazione delle leggi interne dell’Iraq, rifiutando la domanda.
Il Tribunale di Milano ha valutato attentamente tutte le circostanze e le prove offerte dall’interessato e ha ritenuto fondato il timore di persecuzione nel caso dovesse rientrare nel proprio paese. Questo sia in ragione del fatto che il padre è stato già giustiziato tramite impiccagione, sia in considerazione che anche dal notiziario di febbraio 2000 di Amnesty International risulta che in Iraq, anche la semplice parentela con un oppositore comporta il rischio di arresto. Ed ancora, il Tribunale di Milano, considera non solo l’attore è stato arrestato ma ha subito rilevanti torture i cui gravi esiti sono documentati dai certificati medici prodotti.

Un’altra sentenza dello stesso tenore è stata emanata dal Tribunale di Roma con riferimento ad un cittadino turco di etnia curda, perseguitato dal regime. Anche in questo caso sono state documentate le torture subite durante la detenzione tramite le lesioni sul corpo. Nei confronti di questo cittadino curdo era stato emanato un provvedimento che riguardava altre 1.920 persone con il quale il Consiglio dei Ministri della Repubblica Turca le aveva private della cittadinanza turca quindi era fin troppo evidente la persecuzione nei suoi confronti. L’interessato ha ottenuto l’accertamento del diritto di asilo previsto dall’art. 10 comma 3 della Costituzione “in considerazione del fatto che nei suoi confronti risulta concretamente impedito l’esercizio effettivo delle libertà democratiche, di pensiero, associazione pacifica, personale, di esercizio della difesa, adesione a partiti politici, di parola e di stampa nonché delle libertà fondamentalissime di rispetto della integrità fisica e psichica della persona.
Recentemente il Tribunale di Venezia ha accolto quattro distinti ricorsi, attivati con la procedura d’urgenza (per l’accertamento dello status di rifugiato e comunque del diritto di asilo) in quanto tutti quanti avevano ricevuto il diniego alla loro istanza dalla competente commissione, trovandosi così in Italia senza un permesso di soggiorno rischiando un espulsione verso la Turchia.
I provvedimenti sono stati emanati da quattro giudici diversi del Tribunale di Venezia che hanno preso in considerazione una circostanza molto grave cioè il fatto che la Commissione Centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato ha valutato solo i fatti dichiarati, le prove, ma non, in quanto organo collegiale le domande. Le domande sono state valutate delegando a un solo membro della Commissione l’esame personale degli interessati.
La Commissione Centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato è un organismo composto da più persone e non per caso si chiama “commissione”. Giustamente il Tribunale di Venezia ha immediatamente rilevato come non sia legittimo trasformare un organo collegiale in un organo che è reso operativo da una sola persona. Se la legge ha richiesto la valutazione di queste gravi circostanze a un organo collegiale non è assolutamente legittimo che queste competenze siano demandate ad una sola persona. Inoltre per tutti questi casi, il Tribunale di Venezia, sia pure con un provvedimento provvisorio nell’ambito di una procedura d’urgenza, ha già valutato che esiste un fondamento nelle richieste degli interessati in quanto pur nella estrema difficoltà di dimostrare le circostanze di persecuzione in un altro paese, hanno prodotto comunque documentazione sufficiente per le valutazioni sulla persecuzione e i rischi per aver esercitato diritti fondamentali della democrazia quali il diritto di opinione e associazione. Ricordiamo che tre dei quattro cittadini curdi appartenevano all’unico partito legale curdo in Turchia mentre la quarta persona aveva rivendicato l’appartenenza al PKK. Quest’ultimo in Truchia non disponeva del diritto di nominare un proprio avvocato e di beneficiare di una difesa effettiva nel corso di un processo alla luce del sole. Cosa più importante, i tutti e quattro i provvedimenti, con una ordinanza in base all’art. 700 del codice di procedura civile, il Tribunale ha ordinato alla Questura di Venezia di rilasciare un permesso di soggiorno per tutta la durata del processo valido anche per lo svolgimento di attività lavorativa.
Questa sentenza giova a colmare una lacuna enorme nell’ordinamento italiano cioè il fatto che durante tutto il tempo di attesa dell’esame della domanda per il riconoscimento dello status di rifugiato (tempo variabile anche oltre un anno) l’interessato non può svolgere un regolare lavoro, non ha modo di trovarsi di che vivere. L’assistenza pubblica era limitata ai primi 45 giorni ed ora, con la legge Bossi Fini, è sostanzialmente azzerata, salvo quella sorta di assistenza che può essere erogata all’interno dei cosiddetti “centri di accoglienza”.