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Il gelo di Idomeni. Vite sospese alla frontiera

Di Anna Madia, marcia-in-tandem, 2 aprile 2016

Immagina un campo, una larga distesa di terra bruna, costellata di tende, lontana una briciola dal confine macedone, impigliata nel caos greco, battuta da un vento ancora invernale. Immagina così, perché questa è Idomeni, l’anticamera di un’Europa che non esiste. Io cerco i suoi spazi nel racconto di chi l’ha vista davvero, di chi ha preso il traghetto da Ancona e come volontaria ci si è trovata in mezzo. Con il corpo e con la testa.

SE NON SAI DI AVERE UN DIRITTO, TU NON CE L’HAI – In tasca 200 euro e l’obiettivo di arrivare lì dove vivono 10 mila profughi. G. è approdata al reparto “assistenza legale”. Sì, anche nel limbo d’Europa un barlume di razionalità resiste. E allora si trovano tanti reparti quanti sono i bisogni umani. I giuristi, per esempio, devono spiegare il diritto d’asilo a chi, i propri diritti, li ha dimenticati in un’altra vita. G. se ne occupava a Roma, tra Termini e il Pigneto, tra Prati e la Prenestina. Ora lo fa a Idomeni, dove i migranti non sanno nemmeno che l’asilo esiste. Dove la Grecia tace, e non dice cosa possono o non possono volere i profughi. Dove un Paese coltiva il suo limbo, che però è già inferno.

Qui, diritti negati e nessuna informazione. Ma anche rivelazioni inimmaginabili. La richiesta d’asilo, per esempio, chi scopre di poterla fare la deve inoltrare via Skype. Addio vecchie carte, addio burocrazia tradizionale. In un angolo di mondo segnato dalla povertà estrema, se vuoi chiedere protezione internazionale devi avere Skype. E non è tutto. Smartphone alla mano, in Grecia ti devi connettere nel giorno e nell’orario stabilito, quello in cui vengono ricevute e smaltite le domande di chi parla la tua lingua, di chi è nato nella tua terra.

Se non chiami quando devi, come devi, se non ti connetti, sei fuori dai giochi oltre che dal mondo. E allora che succede? Resti lì, sospeso e immobile. Irregolare, oppure, più spesso, riconosciuto in via temporanea come proveniente da una zona di guerra. È una prassi, questa, solamente greca: “Lui non ha chiesto l’asilo, ma viene da una zona in conflitto. Per sei mesi, può stare qui”. Di fatto, la Grecia sospende l’ordine di rimpatrio ma non offre protezione autentica. Quella Grecia che ha sospeso il regolamento Dublino alimenta così, quotidianamente, con un’abitudine che muta in legge, un sistema inefficace, illogico, folle.

BENVENUTI AL REPARTO DIVERTIMENTI – A due passi, paradosso vivente e spiraglio infimo di speranza, si organizza il “reparto divertimenti”. Qui è dove vengono disegnati i sorrisi dei bambini del campo, che sono tanti, tantissimi: 4 mila anime. Devi immaginarli correre qua e là, schizzi di colore in una zona grigia. Due sono nati nei giorni di Pasqua. Ma niente letti di ospedale, fiori, cioccolatini, Novella 2000 sul comodino: solo una tenda, un urlo, forse un bacio.

Le creature le fanno divertire i volontari, come possono, con giochi di fortuna. E se c’è gioia è solo qui, in gambette fine come stuzzicadenti e in quegli occhi parlanti, ridenti, che hanno solo i bambini e rari adulti.

Tutt’altra la storia dei minori non accompagnati. Loro viaggiano soli come cani randagi e hanno occhi pesanti, privati di fiducia. Alcuni restano fermi, impauriti e senza riferimenti. Altri tentano di varcare il confine macedone e chiedono protezione internazionale dichiarando la minore età. Ma vengono presi comunque, riempiti di botte e ricacciati in suolo greco. Rimbalzano come palline isolate.

TRA CAMPI DI FORTUNA E CENTRI GOVERNATIVI – Oltre al grande campo di Idomeni, nato nei fatti, pezzo per pezzo, e assistito da grandi organizzazioni e realtà indipendenti, ci sono le aree messe in piedi dal governo di Atene. A queste si arriva per libera decisione. O almeno così pare. Forse, più che altro, ci si entra per necessità. Si riceve, infatti, cibo gratis. Ma si paga il prezzo di restare confinati in un luogo in cui né giornalisti né operatori umanitari possono entrare.

Cosa succede nei centri governativi lo sa, allora, solo chi ci vive. Nessun occhio sgradito, pochissimi volontari. Ho chiesto a un uomo con figli a carico perché non ci si trasferiva, perché non sceglieva una situazione minimamente più comoda del grande campo, mi racconta G., e mi ha risposto che non sarebbe mai andato lì dove non c’erano ingressi dall’esterno. Dove non arrivava il racconto dei media e lo sguardo delle associazioni lui non voleva stare.

LAVORAVA PER MEDICI SENZA FRONTIERE. ORA VIVE GRAZIE A LORO – Quest’uomo ha una storia che pare un albero secolare. È partito dalla Siria ed è arrivato a Idomeni con un figlio di sette mesi, la moglie, un fratello e il nipote. Ma ha anche tre sorelle, tutte sposate, che sono riuscite a entrare in Bulgaria e a raggiungere la Germania nei giorni in cui Angela Merkel apriva le porte. Oggi sono i giorni in cui lui, uomo, fratello, potrebbe chiedere il ricongiungimento familiare. Se solo la Grecia rispettasse la normativa europea, questo padre di famiglia non avrebbe problemi: si vedrebbe riconosciuto il diritto di riabbracciare le sorelle. Lo dicono le regole che allacciano i nostri strampalati Paesi.

La realtà, però, è diversa. Così, eccolo lì, come migliaia di persone. E pare uguale agli altri, senza storia, senza segni particolari. Lo sai, invece, che faceva?, mi chiede G. con la voglia di raccontarlo d’un fiato. Lui era responsabile amministrativo di Medici senza frontiere in Africa, lui proprio ci lavorava per Medici senza frontiere! Ha visitato i campi profughi e ha visto, dal vivo, con i suoi occhi, il Sud Sudan. Oggi invece è lì, profugo lui, lui assistito da Medici senza frontiere, lui vittima della storia. E lì, oggi, dice che come Idomeni non ha visto niente.

FANGO, VENTO, FUOCO, IDOMENI – Quando questo lembo di terra viene investito dalla pioggia, in un minuto diventa fango puro. I piedi, nudi come zampe, si sporcano, si impastano. E non c’è molto altro da dire, in effetti.

Così, le scarpe sono pietre preziose e i volontari le raccolgono per portarle fino a Idomeni. Quando possono, come possono, insieme ai vestiti. Ma come? G. mi spiega che in non pochi casi quel che arriva nei camion viene svuotato in un battibaleno. Un carico di indumenti che cade giù, per terra, quasi vomitato addosso ai profughi. E loro accorrono, ansiosi, per forza animaleschi, pronti a spingersi l’un l’altro per raggiungere due scarpe accoppiate, una maglia sformata.

Per questo i volontari italiani appena arrivati hanno deciso di cambiare metodo, di pensare una fila, di regalare un’illusione d’ordine e armonia. Chiamano con calma i migranti, fanno provar loro le scarpe, sentire l’alluce in punta, scegliere una giacca che cada bene sulle spalle. Ché c’è modo e modo di fare le cose, e anche le cose buone. E c’è modo e modo di liberare dal bisogno. Per esempio assicurando la dignità.

Anche con i vestiti addosso, però, non è facile. È un incubo quotidiano di speranze, tempi morti, gelo vivo. E anche se è ormai primavera, il vento picchia forte. Altro che brezza, lì soffia aria fredda, senza sosta. Di giorno si sopporta, si gestisce. Ma di sera è un’altra storia. E allora questi uomini, venuti da lontano, prendono bottiglie di plastica e fanno i loro falò. L’aria si scalda improvvisamente e mentre si scalda comincia a puzzare. Plastica bruciata ovunque, fuoco rosso. Questo è diventata la notte.

L’ALBERGO DI LUSSO – I volontari, invece, dormono negli alberghi economici a un’ora di distanza dal campo profughi. Stare più vicini, proprio a ridosso di Idomeni, è diventato impossibile: i proprietari delle strutture hanno giocato a fare gli speculatori e i prezzi sono alle stelle.

Non solo, ma qualche stanza vicina viene occupata dai migranti stessi, quando possono, come possono. Si tratta di quelli che hanno famiglia e due soldi. Quando il vento batte con troppa violenza, prendono i bambini e li portano lì. Illusione di normalità, impressione di calore. In tutti i sensi.

La stessa normalità è nella doccia calda, quella che i volontari si fanno di sera, dopo la pioggia battente e il gelo, e che Idomeni impedisce e trasforma in lusso. La banalità della doccia mi è parsa un fatto sconvolgente, mi dice G., e ci credo. Credo a quel freddo che ti entra dentro le ossa e al fastidio delle labbra secche, tanto secche da formare rughe. Lo sai che non sono una che regala tutto, le cose personali sono mie, sono di chi le ha. Ma è arrivata questa bambina e mi ha guardato mentre spalmavo il burrocacao. Gliel’ho dato senza dire nulla. Che parole vuoi cercare, quando non ci sono e la bocca si riempie di tagli.

LA FRONTIERA, UN FILO DI FERRO – I profughi di Idomeni parlano, ascoltano, aspettavano gli italiani. “Arrivano gli italiani, arrivano”. Avevano sentito dire che, insieme agli amici italiani, sarebbe arrivata la grande impresa: lo sfondamento della frontiera, dalla Grecia alla Macedonia.

Una leggenda consolidata nel passaparola. Perché si sa qual é la forza di un racconto orale, e quanto vale un sogno per chi vive sotto una tenda, o al fianco delle rotaie dei treni. Ma io sapevo che non avremmo forzato il confine, spiega G., era un mito. Lontano dal mito, nessun varco, tutto uguale sotto il cielo di Idomeni. E per chi prova a passare ci sono le botte delle forze macedoni e le medicazioni di Medici Senza Frontiere.

Che poi, se ti guardi intorno, con quel cielo grigio di nuvole e fumo, quelle scarpe da conquistare, quei passeggini schierati a tentare l’assalto all’Europa, trovi tutta l’Unione in qualche chilometro. E se lo vedi davvero, il confine, non hai parole. Ché, dice G., non è un mostro, non è un gigante, non è un concetto, non è un’idea. Lì, dal vivo, sulla terra molle di Idomeni, la frontiera è una rete, fragile come le storie familiari. Un fil di ferro arrugginito, un nulla che cambia la vita.

(Le fotografie e l’immensa esperienza sono di Giulia, amica speciale, persona rara)