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da Il Manifesto del 16 aprile 2006

Il gendarme di Schengen

STEFANO LIBERTI

INVIATO A DOROHUSK
Il serpentone si comincia a vedere da lontano. Una fila di auto e camion, ferma sull’asfalto, che si snoda ordinata per circa due chilometri. Cori di clacson esplodono di tanto in tanto in segno di impazienza. Ma, in generale, l’atmosfera resta tranquilla: il tempo di attesa è noto (dalle tre alle sette ore, a seconda del mezzo) e gli autisti ci hanno fatto il callo. Siamo a Dorohusk, al confine tra Polonia e Ucraina, uno degli avamposti più orientali dell’Europa a 25. Qui, sul ponte di ferro sul fiume Bug, transitano ogni anno centinaia di migliaia di persone e autoveicoli. Commercio transfrontaliero, antiche relazioni di vicinanza, vincoli di parentela, studi, lavoro; sono in molti gli ucraini che da qui si dirigono nel paese vicino.
Stime precise nessuno è in grado di fornirne, ma è opinione diffusa che i cittadini di Kiev che vivono stabilmente in Polonia siano alcune centinaia di migliaia. La loro presenza è ampiamente tollerata: a Varsavia e nelle altre città svolgono quei lavori che i polacchi non vogliono più fare (o che a loro volta vanno a fare più a Ovest). Ma, man mano che la Polonia si integra nello spazio europeo, il confine si fa sempre più stretto: soggetti a obbligo di visto dal 1° ottobre 2003 come misura dell’acquis communautaire – in vista dell’ingresso di Varsavia nella Ue, avvenuto il 1° maggio 2004 – i cittadini ucraini, e ancor di più i bielorussi, sono destinati a penare assai quando la Polonia entrerà a far parte dello spazio Schengen – presumibilmente alla fine del 2007 – e inasprirà ulteriormente la politica degli ingressi legali.

Un inasprimento che appare inevitabile e che al ministero degli interni di Varsavia fanno fatica a dissimulare. «Non vogliamo che, con l’adesione a Schengen, si venga a creare una barriera», afferma solennemente il vice-ministro degli interni polacco Wieslaw Tarka alla delegazione di giornalisti venuti a incontrarlo. Ma poi, quando i colleghi ucraini e moldavi lo incalzano con le domande, appare chiaro che il massimo che farà la Polonia sarà opporsi alla proposta francese di innalzare il costo del visto Schengen a 60 euro e premere per far passare l’accordo – di fatto già in via di approvazione – per un ingresso facilitato di alcune fasce di cittadini ucraini (studenti, giornalisti, businessmen), che costituiscono appena il 5 per cento dei richiedenti.

Di qui non si passa
Per i tanti che vorranno andare verso Ovest e non appartengono a queste categorie, il futuro si prospetta assai cupo. Secondo uno studio condotto dalla Stefan Batory Foundation di Varsavia, la percentuale di rifiuto di visti per ingresso nell’area Schengen o nel Regno unito per i paesi a est dell’Unione sono già abbastanza elevate: 33 per cento per i bielorussi, 14 per cento per gli ucraini, 10 per cento per i moldavi. Se al momento i polacchi tendono a concedere visti senza problemi ai loro vicini orientali, appare scontato che l’adesione a Schengen comporterà un automatico adeguamento agli standard europei. E allora, ai malcapitati ucraini e bielorussi non rimarrà altra scelta: rivolgersi a est verso la Russia o tentare l’ingresso illegale.
Un’eventualità, quest’ultima, di non facile realizzazione. Ansiosa di mostrarsi all’altezza del ruolo assegnatole di guardiano della Fortezza Europa, Varsavia ha negli ultimi anni letteralmente blindato la sua frontiera orientale. I controlli sono rigidissimi: mediante stazioni radar sofisticatissime, scanner ai raggi x, unità cinofile e un corpo speciale di 17mila guardie di frontiera, i circa 1000 chilometri di confine che dividono la Polonia dall’Ucraina e dalla Bielorussia appaiono sigillati.

Betulle e radar sulle rive del Bug
Sono lontani i tempi in cui la frontiera polacca era un punto di passaggio privilegiato per le rotte dell’immigrazione clandestina provenienti dall’Asia (Cina, India, Vietnam, Afghanistan, Pakistan, Sri Lanka) e dall’ex spazio sovietico. «Grazie alla nostra azione di contrasto, le rotte si sono spostate altrove», dice con una punta di orgoglio il colonnello Andrzej Wojcik, capo della guardia di frontiera del settore di Chelm/Dorohusk. «Fino a qualche anno fa, intercettavamo migranti che tentavano di passare a piedi nella foresta, oppure si nascondevano nel fondo di camion o nel bagagliaio delle macchine. Addirittura, nell’aprile 1997, un gruppo di 22 afghani ha cercato di attraversare il confine in elicottero!». Oggi, la frontiera è quasi impermeabile ai passaggi irregolari: nel 2005 solo 35 immigrati illegali sono stati fermati. E non per lassismo: «Nessun clandestino è riuscito a raggiungere il confine occidentale con la Germania – si vanta Wojcik -, i tedeschi ci hanno fatto i complimenti per il nostro lavoro».

Il camion radar delle guardie di frontiera – finanziato con i fondi europei del programma Phare – è la punta di diamante di questa azione di contrasto. «Può individuare una sigaretta accesa a 5 chilometri di distanza», Dentro la postazione, un uomo un po’ annoiato scruta su uno schermo un paesaggio immutabile di betulle e anatre che si posano sulle rive del Bug. Il colonnello è particolarmente fiero di aver bloccato le organizzazioni dedite al trasferimento dei migranti asiatici («molto articolate e organizzate, con fatturati di milioni di dollari») e descrive con dovizia di particolari il lavoro del corpo da lui diretto. Mostra gli apparecchi per registrare le impronte digitali di eventuali clandestini, «collegate in rete con un sistema centralizzato» e le celle predisposte nelle stazioni di confine per gli immigrati illegali, che appaiono tutte vuote. «Le usiamo poco: se intercettiamo dei clandestini, li riportiamo indietro al varco da cui sono entrati».

Frutto di un accordo bilaterale firmato con l’Ucraina e di una ‘consuetudine’ (secondo le parole di Wojcik) con la Bielorussia, la politica del riaccompagnamento alla frontiera finisce inevitabilmente per colpire potenziali richiedenti asilo. L’accordo e la consuetudine non riguardano infatti solo i cittadini ucraini e bielorussi, ma anche tutti quelli di «paesi terzi» che vi transitano. In generale, visti i rapporti più che burrascosi tra Varsavia e Minsk – la Polonia è il centro nevralgico di gran parte delle iniziative anti-Lukashenko e appoggia ufficialmente l’opposizione al presidente bielorusso – i rimpatri avvengono quasi sempre verso l’Ucraina, che tende suo malgrado ad accettare tutti. E nonostante le assicurazioni di Wojcik, è noto che alla frontiera si buttano fuori le persone in meno di 48 ore, senza procedere a una reale identificazione degli immigrati colti in posizione irregolare. Una prassi denunciata con forza dell’organizzazione non governativa Human Rights Watch in un rapporto del novembre scorso dal titolo significativo: «Ucraina. Ai margini: violazione dei diritti dei migranti e dei richiedenti asilo ai nuovi confini orientali dell’Unione europea».
Bolle di consegna

Secondo il rapporto, tanto in Polonia che in Ungheria e in Slovacchia il rimpatrio coatto verso l’Ucraina viene fatto «senza alcuno sforzo di identificare nomi, origine e status delle persone intercettate. Le guardie di frontiera si limitano a registrare informazioni elementari, secondo un protocollo che un funzionario ha definito analogo a quello di consegna delle merci». E i risultati di questa politica non tardano ad arrivare: nel corso del 2005, il numero di richieste d’asilo in Polonia è calato del 13 per cento. Anche in questo, Varsavia è in linea con gli standard europei. E appare più che pronta ad entrare a far parte del club assai esclusivo di Schengen.