Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Internazionale 8-14 ottobre 2004

Il naufragio della speranza

Walter De Gregorio, Die Weltwoche, Svizzera

Il sindaco di Lampedusa, dottor Bruno Siracusa, di Forza Italia, è un uomo molto occupato. La mattina il suo ufficio è “aperto al pubblico” per poche ore, come spiega un foglietto di carta scritto a mano all’ingresso dell’edificio comunale. Ma in questi ultimi giorni il dottore si fa sostituire da una signora sua amica. Solo nel mese d’agosto più di mille profughi sono sbarcati nel porto di Lampedusa da pescherecci sgangherati. In tanti su un’unica imbarcazione, per giunta piena d’acqua.
Ancora una volta il sindaco Siracusa ha proclamato lo stato d’emergenza, come negli anni scorsi. Da quando, alla fine degli anni novanta, si è placato il flusso di profughi dalle coste albanesi verso la Puglia, Lampedusa – che si trova ad appena 70 miglia marine dalla costa libica – è diventata la porta girevole per entrare in Europa. Quando lo raggiungiamo al suo cellulare, il sindaco esclama esasperato: “Adesso non ho davvero tempo per parlare con lei, sono occupatissimo. Arrivederci”. Mezz’ora dopo lo incontriamo per caso sulla terrazza di un bar sul molo, dove è occupatissimo a girare lo zucchero nel caffè, con il dito mignolo elegantemente sollevato, e a discutere della promozione del Palermo in serie A: “L’attaccante Toni vale almeno 20 gol”.
Il centro di permanenza dei profughi di Lampedusa, nei pressi dell’aeroporto, è recintato con filo spinato e sorvegliato da telecamere e poliziotti armati. L’ingresso è vietato ai giornalisti e ai fotografi. Nessun operatore può riprendere all’interno.
Le domande sulle condizioni dei profughi non ricevono risposta. All’inizio del 2004, un rapporto di Medici senza frontiere (Msf) ha denunciato il centro perché non offriva cure mediche ai malati gravi e i gabinetti erano intasati. I profughi dormivano sul pavimento perché non c’erano più brande. Dopo la pubblicazione di quel rapporto, il governo italiano ha interrotto la collaborazione con Msf.

L’ennesimo gommone
Da allora, i profughi sono assistiti dall’organizzazione umanitaria Misericordia. Ai cancelli del centro di permanenza, chiediamo informazioni sullo stato di salute dei 166 uomini che durante la notte sono stati rimorchiati dalle motovedette della guardia di finanza e della guardia costiera fino a Lampedusa. Claudio Scalia, capo delegazione della Misericordia, ci consiglia di rivolgerci alla prefettura di Agrigento, che inoltra la nostra richiesta al ministero dell’interno, a Roma. Qualche giorno dopo, arriva la risposta: “Per motivi di tutela della privacy, ci dispiace non poter fornire informazioni in merito alle persone che si trovano sotto la nostra custodia”.
Nel porto di Lampedusa attracca l’ennesimo gommone: a bordo ci sono 114 uomini, per lo più giovani, che dicono di venire dalla Palestina. Sono le tre del mattino, e da una discoteca lungo la spiaggia si sentono pulsare i bassi. D’estate Lampedusa è un luogo di villeggiatura molto frequentato dai sub di Roma e di Milano. La polizia, su pressione dei gestori degli impianti turistici, cerca di deviare il flusso dei profughi evitando il contatto con i turisti.
Non sempre le autorità riescono a lavorare in modo discreto ed efficiente come in questa nottata. I nuovi arrivati, stravolti, siedono in silenzio sul pavimento; alcuni sono crollati per la stanchezza. Nel giro di tre quarti d’ora, tutti hanno in mano un foglietto su cui è scritto un numero. Ogni numero corrisponde al nome che hanno fornito alle autorità. Di solito si tratta di nomi falsi e falsi paesi di provenienza, spiega Michele Niosi, comandante della guardia costiera. “Chi può dargli torto? Probabilmente anch’io mentirei, se questo aumentasse le probabilità di ottenere asilo”. Più tardi si verrà a sapere che la maggior parte dei palestinesi proviene dai paesi del Maghreb.

I difetti della Bossi-Fini
Quelli che non ce la fanno sono sepolti nel cimitero di Lampedusa. Anche a loro viene assegnato un numero, ma postumo. Vincenzo Lombardo, un abitante di Lampedusa, si è preso la briga di seppellirli. “Tutti quelli che arrivano qui”, spiega, “hanno diritto a una croce: anche se sono musulmani”.

Secondo uno studio dell’università di Palermo, nel 2003 al largo della Sicilia sono affogate 411 persone; il ministero dell’interno parla invece di 1.187 morti in quattro anni. Il totale potrebbe essere leggermente più alto. Queste cifre non impressionano più Angela Maraventano, 39 anni, proprietaria del ristorante Il Saraceno. “Sono anni, ormai, che viviamo in una situazione di crisi permanente”; racconta. Da quasi dieci giorni, a Lampedusa non si trovano più la benzina né le sigarette. L’acqua potabile delle cisterne si sta esaurendo. Non c’è un ospedale né un obitorio.
Sei anni fa, un suo amico è morto perché l’elicottero dei soccorsi non è potuto partire da Palermo a causa del maltempo. Angela ha scritto una lettera a tutti i partiti per chiedere aiuto. Le ha risposto solo la Lega nord. Da allora, questa donna siciliana è un’accesa sostenitrice di Umberto Bossi ed è segretaria della sezione della Lega nord a Lampedusa. L’inverno scorso, quando il governo ha presentato un piano per un nuovo centro di raccolta da 300 letti, Angela ha guidato una marcia di protesta degli abitanti di Lampedusa. “L’isola non ha bisogno di alberghi per profughi, ma di ambulatori di base, impianti di depurazione, discariche per i rifiuti”.

Nell’estate del 2002,l’Italia ha adottato una legge sull’immigrazione chiamata “Bossi-Fini”. Da allora possono ottenere un permesso di soggiorno solo gli stranieri che hanno un contratto di lavoro. La durata del soggiorno è stata ridotta, il ricongiungimento del nucleo familiare è diventato più difficile e agli immigrati vengono prese le impronte digitali. Infine, nella lotta contro i gommoni è stata reclutata la marina militare. Il nucleo della nuova legge è questo: l’immigrazione illegale diventa un reato penale punibile con 2-3 anni di carcere.
Finora questa politica repressiva non è riuscita ad arginare il flusso dei profughi. La colpa, sostiene il vicepremier Fini, è dello scarso rigore nell’applicazione della “sua” legge. Per la corte costituzionale, invece, il provvedimento è difettoso. Il 15 luglio scorso, la corte ha giudicato incostituzionali alcuni punti essenziali della Bossi-Fini.
Ha affermato che l’espulsione amministrativa – cioè senza la sentenza di un tribunale – e la carcerazione preventiva dei profughi violano i diritti sanciti dalla costituzione.
Il problema centrale in Italia rimangono i tempi di esecuzione.

Una città solidale
Cosa succede ai profughi che sbarcano a Lampedusa? Al massimo dopo tre giorni – e spesso anche il giorno stesso, per via delle condizioni del centro di permanenza – vengono mandati via, in maggioranza a Crotone, in Calabria, dove si trova il più grande campo profughi del sud. Lì hanno la possibilità di presentare una richiesta di asilo. In base alla Bossi-Fini, la richiesta va esaminata entro 60 giorni. Se è accolta, il profugo riceve un permesso temporaneo di soggiorno per tre mesi, se è respinta deve lasciare il paese entro cinque giorni.
Comunque vada, i sudanesi, i somali, i ghaneani lasciano il centro di permanenza per via del sovraffollamento. Ma dove vanno? Nessuno lo sa, nessuno controlla, nessuno se ne occupa. Sembra assurdo, ma è così: una volta che la polizia di Lampedusa li ha accompagnati nel centro di permanenza, recintato e rigidamente sorvegliato, li lascia liberi di raggiungere la Calabria.
Naturalmente le autorità sanno che nessun profugo la cui è stata respinta lascia il paese entro cinque giorni. Non ha i soldi per il biglietto di ritorno, non ci sono centri a cui rivolgersi – sempre che gli venga l’idea di tornare indietro dopo un viaggio massacrante attraverso il deserto e il mare. Ci sono centri di transito per gli espulsi, ma la loro capienza è del tutto sproporzionata al numero dei profughi. In Italia le richieste di asilo pendenti sono 40mila, ma i posti letto disponibili per i profughi in attesa di una risposta – che non arriva entro i 60 giorni ma in media, nel migliore dei casi, dopo 18 mesi – non sono più di 1.500.
Fulvio Vassallo insegna diritto costituzionale all’università di Palermo. Lo incontriamo a Santa Chiara, un convento trasformato in centro di accoglienza privato nel cosiddetto quartiere africano della città. Da anni Vassallo fa il consulente per diverse organizzazioni umanitarie, si adopera in prima persona per i profughi, li prepara in vista del colloquio che dovranno sostenere a Roma con la commissione che esamina le richieste d’asilo. Secondo lui la legge Bossi-Fini criminalizza i profughi, li costringe alla clandestinità e al lavoro nero: “E la destra ne approfitta”. Vassallo condanna ancor più duramente il fatto che lo stato, dopo rigorosi controlli all’ingresso, si disinteressa di quel che succede a tutta questa gente.
Palermo è un po’ la base logistica degli immigrati illegali. Chi non trova ricovero da nessuna parte, viene qui e riceve un letto, abiti, cure. Con il giro di vite della legislazione italiana, il capoluogo siciliano si è trasformato in una specie di zona extraterritoriale protetta.
Il centro sociale Laboratorio Zeta di via Boido accoglie attualmente, in una scuola occupata, fino a cento profughi respinti. Riceve la corrente elettrica grazie a un allaccio abusivo. L’assistenza è finanziata con feste e concerti, ma è anche garantita dalla solidarietà di privati cittadini.

I farmaci sono offerti gratuitamente da medici che mettono a disposizione degli ospiti una giornata alla settimana di consulti gratuiti. La polizia ha tentato più volte, invano, di fare irruzione nell’edificio occupato, con l’unico risultato che da allora anche il comune collabora tacitamente con il centro di via Boido, fornendogli l’acqua potabile per mezzo di autocisterne.

Numeri e volti
Padre Biagio Conte gestisce la Missione speranza e carità in una caserma abbandonata nel centro di Palermo. Anche lui ha occupato illegalmente l’edificio. La polizia non si è azzardata a “mettersi contro Cristo”, dice il frate francescano. Che nel frattempo ha allestito cinquecento letti, un ambulatorio medico e una cucina pagata da un ufficiale della guardia di finanza il cui unico figlio è morto tempo fa di leucemia. “Chi dà da mangiare agli affamati vivrà oltre la morte”, è scritto su una targa all’ingresso della cucina. A Palermo, i numeri di Lampedusa riacquistano un nome e un volto. Daniel Oppongo, un ghaneano di 34 anni, ci mostra il suo foglio di sbarco: numero 134. Un anno fa ha ricevuto dal campo profughi di Crotone l’ingiunzione di lasciare l’Italia entro cinque giorni. Si è spostato a Vicenza, dove ha lavorato illegalmente in una fabbrica di cuoio per calzature. Alla fine, quattro mesi fa, è arrivato a Palermo, dove scarica cassette di frutta e verdura in un mercato rionale.
Qui è rientrato in possesso della sua dignità, anche se la parola dignity, come dice lui, forse è un po’ altisonante.
Comunque, spiega, “posso mangiare, lavarmi e perfino mettere da parte qualche soldo”.
Edward Larry Baccles viene dalla Sierra Leone, ha 35 anni ed è in Italia da cinque. È uno dei pochi della missione di padre Biagio ad avere lo status riconosciuto di profugo e quindi anche un permesso di lavoro. Ma non sa che farci. Ha il bacino tutto storto: senza alzarsi dalla branda ci mostra le sue lastre. Anche se prende degli antidolorifici, non riesce a camminare. Non ha una pensione d’invalidità. “Non voglio lamentarmi”, dice. “Sono già fortunato ad avere un posto per dormire. Padre Biagio è un santo”.
Improvvisamente tutti ci vogliono raccontare la loro storia. Si fa avanti Abdallah, un sudanese di 18 anni. Dopo un viaggio per mare durato una settimana – per cui ha pagato agli scafisti mille dollari presi a prestito dai suoi familiari a tassi da usura – Abdallah è stato trattenuto per cinque giorni nel centro di permanenza di Lampedusa. Doveva presentarsi all’appello alle 2, alle 4 e mezza e alle 7 del mattino. Una prassi che la legge italiana prevede soltanto nel regime di carcere duro, quello riservato ai terroristi e ai peggiori criminali. “Chi si rifiutava di alzarsi nel bel mezzo della notte veniva picchiato”; racconta.
Nei giorni successivi alla nostra prima visita al centro di Palermo, decine di uomini si sono presentati spontaneamente per cercare, come dice Bakheet – 33 anni, sudanese – “di aprire gli occhi al mondo” con i loro racconti. Abbiamo sentito parlare più volte di una “mafia interna”.
Si tratta di clandestini provenienti dai paesi del Maghreb, che sono sbarcati in Sicilia per primi e hanno imposto una specie di principio di anzianità. Se un africano che raccoglie pomodori prende cinque euro a cassetta, deve versarne due al tunisino che gli ha trovato il lavoro. “Io mi sono rifiutato”; racconta Bakheet. Anche Lucas Kossi, un immigrato togolese, non ha voluto pagare. Da allora sono disoccupati. Sperano nella raccolta delle arance del prossimo inverno.

L’economia del lavoro nero
Il lavoro non manca. Secondo uno studio della Coldiretti, l’associazione degli imprenditori agricoli, l’agricoltura italiana non potrebbe più funzionare senza la manodopera illegale. Ma anche in altri settori la produzione subirebbe forti contrazioni se venisse a mancare il lavoro nero. Il presidente della Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, chiede da tempo un aumento delle quote di stranieri. Soltanto nel Nordest, una regione altamente industrializzata che è anche la terra della Lega nord, mancano sedicimila lavoratori.
A Perugia, a metà agosto, un edile marocchino è caduto da un’impalcatura: lavorava in nero. Il proprietario della ditta e suo figlio hanno caricato quello che sembrava un cadavere su un furgone e l’ hanno gettato in un fosso. Tre giorni dopo una pattuglia della polizia l’ ha trovato con un braccio rotto e una commozione cerebrale. L’ hanno portato in ospedale. La notizia ha fatto scalpore in Italia e ha spinto il commissario europeo Rocco Buttiglione a una richiesta coraggiosa. “Come cristiano ho il dovere di oppormi a questi abusi”, ha dichiarato il supercattolico Buttiglione. E ha proposto che lo stato di necessità e la fame fossero accettati come motivazioni per concedere l’asilo.
Invece il leghista Roberto Calderoli propone una soluzione più semplice per il problema dei profughi. Vuole portare a Lampedusa l’artiglieria pesante: “Ogni gommone che arriva”; dice, “deve essere accolto a cannonate”.

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