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Il nord del Marocco non è terra per i subsahariani

Laura J. Varo, El País - 16 agosto 2019

Buba Magafa prepara il tè tra gli arbusti davanti al CETI di Melilla, mercoledì scorso

Melilla  16 agosto 2019

Mohamed ha un callo all’altezza del polso delle dimensioni di una pallina da ping pong. Lo mostra per farci capire come operano gli agenti marocchini quando sorprendono qualcuno nelle vicinanze della barriera che separa Nador da Melilla, il Marocco dalla Spagna. “Eravamo in quattro”, ricorda il primo tentativo di salto fallito, “nascosti tra la vegetazione, un cane ha allertato i militari, ci hanno visto, ci hanno preso e hanno cominciato a picchiarci. Mi hanno colpito un piede, un braccio e la testa“.

Alcune organizzazioni come AMDH (Associazione marocchina per i diritti umani) denunciano un aumento della violenza contro i migranti subsahariani che si rifugiano a Nador in attesa di entrare a Melilla.

Secondo Omar Naji, vicepresidente e delegato nella provincia frontaliera, si tratta di operazioni di “vendetta gratuita”. “La principale novità rispetto all’anno scorso sono gli arresti massivi di migranti”, afferma; “nel 2019 ce ne sono stati più di 9000”. “Il nord del Marocco è un territorio off limits per i subsahariani”, spiega.

Mohamed, migrante maliano di 23 anni, ha dovuto subire sei mesi e mezzo di trasferimenti sommari, retate, botte e rapine prima di riuscire finalmente a oltrepassare la barriera e mettere piede in Europa. Altri due suoi connazionali sono morti lungo il tragitto. “È una cosa che mi ha profondamente scioccato”, confessa ormai nel Centro di soggiorno temporaneo per immigrati (CETI) di Melilla, dove risiede da due settimane. “La polizia e i militari marocchini ci trattano come bestie, picchiano duro”.

Gli arresti avvengono in modo casuale e sommario. Dopodiché i migranti vengono trasferiti in città lontane dalla frontiera, verso sud, come Errachidia, Beni Melal o Fez, nelle cui periferie, fino al 2018, potevano rimanere in tendopoli ormai rase al suolo. Adesso non hanno più un posto in cui riposare. “L’unica alternativa è tornare a Nador, alla frontiera”, soggiunge Mohamed, che ha passato diversi mesi tra Beni Melal e Casablanca.

È un gioco”, protesta Naji, “un paradosso della politica marocchina: perché arrestare e portar via dei migranti che presto torneranno a Nador?”. L’attivista si da una risposta: “Il Marocco deve giustificare i finanziamenti che arrivano dall’Europa”.

Le innumerevoli violenze perpetrate dalle Forze ausiliarie, un corpo paramilitare alle dipendenze del Ministero dell’interno marocchino, non sono una novità, sostiene il rappresentante dell’AMDH, ma rappresentano sempre di più la regola in un “clima di terrorismo” contrario alla stessa legge marocchina.

Certe volte mandano dei gorilla armati di coltelli ad aggredirci per non farci parlare”, racconta Samba, maliano di 21 anni con la passione per il calcio. Il ragazzo è una delle 51 persone che hanno oltrepassato la barriera nell’ultimo salto collettivo dello scorso luglio. Erano in 200. “Ci hanno assalito appena abbiamo cominciato a scavalcare”, ricorda, “usavano pistole elettriche, ci tiravano pietre, ci picchiavano”.

Samba ha trascorso più di un mese alle intemperie nei dintorni di Yutía, un sobborgo ai piedi del monte Gourougou, uno dei punti più prossimi al confine di Melilla, da dove poter preparare il salto. Laggiù le retate sono continue: “Non diamo problemi, ma vengono lo stesso a prenderci”.