Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Il potere dell’Amministrazione di negare la cittadinanza italiana iuris communicatione, decorsi 730 giorni dall’istanza e l’effetto preclusivo dell’acquisto della cittadinanza in caso di patteggiamento e intervenuta riabilitazione. La giurisdizione è del giudice ordinario.

Con la sentenza n. 1256, adottata il 7 ottobre 2014, la Corte di Appello di Genova, conformandosi alla giurisprudenza costante della Suprema Corte e del Consiglio di Stato, ha affermato che, in caso di mancata emissione del decreto di acquisto della cittadinanza, come di rigetto della relativa istanza presentata dal richiedente in possesso dei requisiti di legge, trovandosi quest’ultimo in una posizione di diritto soggettivo e non residuando in capo all’amministrazione alcun potere di valutazione discrezionale, in caso di giudizio, la giurisdizione appartiene del giudice ordinario.
L’inutile decorso del termine di due anni dalla richiesta di ottenimento della cittadinanza, ai sensi dell’art. 8, comma 2, Legge n. 91 del 1992, preclude, infatti, all’amministrazione procedente l’esercizio di un potere discrezionale in merito alla sussistenza di motivi ostativi per ragioni di sicurezza della Repubblica (art. 6, comma 1, lett. c, Legge n. 91 del 1992) all’acquisto della cittadinanza da parte del coniuge straniero o apolide di cittadino italiano.
In particolare, tale effetto preclusivo impedisce all’amministrazione di compiere qualsivoglia valutazione in merito al fatto storico riportato in una sentenza, come nel caso di specie, di patteggiamento, potendo la stessa amministrazione verificare, in via vincolata, solo se il patteggiamento integri o meno il requisito ostativo di cui all’art. 6, comma 1, lett. b, Legge n. 91/1992 della “condanna per un delitto non colposo per il quale la legge preveda una pena edittale non inferiore nel massimo a tre anni di reclusione; ovvero la condanna per un reato non politico ad una pena detentiva superiore ad un anno da parte di una autorità giudiziaria straniera, quando la sentenza sia stata riconosciuta in Italia”.
Questione questa che, nel caso di specie, la Corte di Appello di Genova ha ritenuto non affrontabile, in quanto il suddetto requisito ostativo non era integrato dalla sentenza di patteggiamento intervenuta nel 1999, non essendo la stessa, secondo l’originaria formulazione degli artt. 444 e 445 c.p.p, equiparabile ad una condanna.
I giudici della Corte di Appello, in ogni caso, facendo proprie le motivazioni contenute nella sentenza n. 24312/2007 della Cassazione Civile, ed ampiamente sostenute dall’appellante, osservano che, anche dopo l’intervenuta testuale equiparazione del patteggiamento alla sentenza di condanna ( a seguito della Legge n. 134/2003 che ha introdotto l’art. 445, comma 1 bis c.p.p.), le finalità della disciplina sostanziale applicabile in tema di cittadinanza impongono di ritenere che il requisito ostativo di cui all’art. 6, comma 1, lett. b, legge n.91 del 1992, debba comunque tradursi non nella mera irrogazione di una sanzione penale, ma nell’accertamento di una responsabilità penale e in un giudizio di colpevolezza, aspetti questi che non possono dirsi presenti in una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, dovendosi, invece, ritenere necessaria una vera e propria sentenza di condanna.
A nulla, poi, vale il richiamo, prospettato dall’appellata Questura di Genova, alla disciplina in materia di ingresso di cittadini stranieri nel territorio nazionale, la quale prevede come causa ostativa anche il patteggiamento, perché, come afferma la Corte di Appello “la situazione di chi avendo contratto matrimonio con cittadino italiano chiede la concessione della cittadinanza è sicuramente diversa e meritevole di maggior tutela rispetto a quella di chi chiede soltanto l’ingresso, senza avere sviluppato legami significativi con il nostro paese, e comunque non consolidati come quello rappresentato dal vincolo matrimoniale” (Corte di Appello di Genova, Sez. III, sentenza 7 ottobre 2014 n. 1256).
Da ultimo, la Corte osserva che la questione, come nel caso di specie, è comunque superata dall’intervenuta riabilitazione che ai sensi dell’art. 6, comma 3, legge n. 91 del 1992, “fa cessare gli effetti preclusivi della condanna”.