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Il processo migratorio e le perdite da affrontare

Intervista al dott. Natale Losi, psicoterapeuta

Natale Losi, sociologo, antropologo, medico e psicoterapeuta, lavora a Ginevra e a Milano. È responsabile dei progetti di salute mentale per l’Organizzazione Internazionale per le migrazioni ed è maître d’Einseignement et de Recherche all’Università di Ginevra. A Milano collabora con la Scuola di terapia della famiglia fondata da Mara Palazzoli Selvini e con il Centro di Psicologia e di analisi transazionale. Con quest’ultimo sta impostando un’attività di formazione orientata all’etnopsichiatria e alle psicologie transculturali.

Autore di Vite altrove. Migrazioni e disagio psichico, Feltrinelli, 2000

Per avvicinarsi alla comprensione delle dinamiche migratorie bisogna considerare tanto le cause scatenanti delle migrazioni quanto le caratteristiche socio-demografiche,culturali e psicologiche di chi emigra.
Nell’analisi delle componenti motivazionali di chi emigra, bisogna considerare quelle economiche come le principali. Una seconda caratteristica dei processi migratori è l’evoluzione tipica della loro composizione sociale. Il processo migratorio infatti, inizia già nel paese d’origine, con la formazione e lo sviluppo di una nuova categoria di popolazione potenzialmente migrante, sottoposta ad un periodo di incertezza e transizione al nuovo status.
Una particolare categoria di migranti è costituita dai cosiddetti “migranti forzati” cioè i profughi, i rifugiati. La condizione di rifugiato è caratterizzata oltre che dalla fuga, anche dalla perdita multipla delle figure di riferimento, e il più delle volte è preceduta da eventi traumatizzanti.
Avviene dunque,un’accumulazione di rotture e di perdite:della patria,della terra.della famiglia, della cultura,etc..Per chi è in esilio una ferita in più è costituita dal profondo senso di ingiustizia subita.

A seguito di queste molteplici rotture spesso osserviamo negli esiliati,situazioni di abbandono di sé,di trascuratezza,di disillusione.E’ possibile leggere l’abbandono come una forma di difesa e di auto aiuto per molti esiliati che vivono situazioni di grande sofferenza.
Uno dei termini più frequentemente utilizzati a proposito degli immigrati, è quello di “sradicamento”. L’esperienza di sradicamento è collegata alla categoria del trauma nella letteratura specifica sulla salute mentale dei migranti.
Gli immigrati cosiddetti “volontari” subiscono un trauma ben diverso da coloro che non possono tornare, per svariate ragioni, spesso politiche, al loro paese, o che sono emigrati per cause violente o disastri naturali.

Ci sono diversi fattori significativi di stress per gli immigrati,tra i quali: l’ansia e l’insicurezza legate alla continua ricerca di un’occupazione, le difficoltà linguistiche, i pregiudizi, il clima del luogo d’immigrazione. Tutti questi fattori indeboliscono la capacità degli immigrati di affrontare un’esperienza già di per sé dura e stressante.

L’ambivalenza dello straniero-immigrato non è solo sociologica, ma anche culturale e psicologica. Egli deve infatti compiere un grande sforzo per sopportare senza soccombere sentimenti devastanti come il dolore per le perdite subite,e allo stesso tempo dovrà rispondere in maniera adeguata alle richieste del momento.
(Tratto dal sito Feltrinelli.it)

Domanda: In questo periodo i mass-media parlano di una nuova invasione di immigrati nel nostro paese. Dal suo punto d’osservazione stiamo davvero assistendo ad un’invasione in questi ultimi anni?

Risposta: Risponderei con una domanda che pongo spesso durante i corsi di formazione, ovvero: considerando che i dati riportano che ci sono sei milioni di essere umani nel mondo, numero ovviamente in crescita, quanti sono i migranti, prendendo come definizione quella delle Nazioni Unite per cui migrante è qualcuno che non risiede nel paese in cui è nato? A questa domanda solitamente mi rispondono che i migranti sono tra il 30 e il 40% delle persone che vivono sul nostro pianeta. In realtà sono 175 000 milioni. Si tratta di un numero estremamente ridotto rispetto al totale delle persone che vivono nel mondo, corrispondente grosso modo al 3% della popolazione mondiale. Questi migranti vivono in paesi limitrofi a quelli da cui partono. E’ soprattutto una migrazione da paesi del sud del mondo verso paesi del sud del mondo stesso. Il numero degli immigrati che vive in paesi industrializzati e ricchi del cosiddetto occidente è abbastanza irrilevante. Io credo che ci sia un grande allarme sulla situazione dell’immigrazione verso il nostro paese. Ieri sul Corriere della Sera – che credo sia il giornale più diffuso in Italia – ci sono due pagine intere dedicate all’Emergenza sanitaria, in cui un’intervista al Ministero degli Esteri dal titolo Emergenza Immigrazione ne occupa una, mentre l’altra è alla fuga dall’Africa e alla Libia come nuovo paese di partenza dei clandestini.

Credo che se si va a valutare a fondo le misure che poi si riescono a prendere rispetto a questa presunta emergenza si possa scoprire che mettono in campo molte più risorse rispetto all’efficacia che potrebbero avere. Faccio un esempio, ci sono una serie di accordi – che ritengo anche giusti – riguardo la politica nei confronti del tentativo di limitare un’immigrazione non controllata tra il nostro paese e i paesi da cui potrebbero partire altri clandestini. Il Ministro Frattini cita come buon esempio di partnership quella con l’Egitto, paese che cura le proprie frontiere verso il mediterraneo e verso l’Europa in modo da garantire una ridotta possibilità di partenze irregolari. Come premio per questo tipo d’impegno l’Italia riserverà mille posti ad egiziani all’interno dei flussi programmati di immigrazione verso l’Italia.
Si tratta di una cifra molto ridotta. Se un paese non ha intenzione, per altri motivi, di impiegare proprie risorse da impegnare nel controllo delle frontiere al fine di impedire partenze clandestine, non credo che una quota garantita di mille immigrati all’interno dei flussi immigratori possa indurlo a farlo. Temo che l’allarme sia dovuto a qualcosa che non riguarda il dato di realtà.
Queste persone, prima di affrontare un tragitto così pericoloso e un investimento economico così alto come quello di un viaggio clandestino, mettano in conto tutti i rischi e i pericoli. Il controllo di questo tipo di arrivo va fatto, ma credo si debba distinguere tra il lavoro da farsi contro le organizzazioni criminali che organizzano questi viaggi – criminali perché speculano sui bisogni delle persone e non offrono un servizio garantito rispetto al raggiungimento di un determinato obiettivo – e i poveri diavoli costretti a rivolgersi a queste organizzazioni. Ma non possiamo dimenticare che questi ultimi stanno fuggendo da situazioni insostenibili.

D: I percorsi migratori appaiono carichi di esperienze dolorose per le persone che li compiono: ad esempio intraprendere un viaggio che mette seriamente a rischio la propria vita, l’abbandono della propria famiglia e del proprio contesto sociale, il basso status sociale che gli stranieri hanno nel nostro paese. Queste esperienze dolorose che ripercussioni possono avere a livello di disagio psicologico?

R: Hanno un impatto molto importante perché le persone che riescono ad arrivare in un paese con questi mezzi arrivano in un posto dove devono continuare a difendersi dal contesto in cui arrivano. Non sempre trovano una situazione che li aiuta ad integrarsi in un nuovo mondo, arrivano molto spesso come singoli divisi dalla propria famiglia. Secondo i dati della ricerca che abbiamo svolto molto recentemente all’interno del programma Equal sull’immagine dell’immigrato finanziato dal Ministero del Lavoro e dalla Commissione Europea una percentuale altissima di immigrati rivela il bisogno da parte delle famiglie di immigrati – in questo caso regolari – di un supporto psico-sociale. Vivono in un paese che non è il loro con grandi difficoltà e in una situazione di provvisorietà e circa nel 50% dei casi hanno l’ obiettivo di ritornare nel proprio paese dopo aver risparmiato e messo da parte un certo numero di risorse o dopo che nel proprio paese si è creata una situazione che renda possibile il rientro. Continuano a vivere una condizione di sospensione tra due mondi: quello in cui vivono e che è utilizzato per accaparrare una serie di risorse e l’altro – che con l’andare del tempo diviene immaginario – che è quello dove vorrebbero tornare e dove molto spesso vengono vissuti a loro volta come stranieri quando tornano. Quando l’immigrazione ha delle forti componenti di forzatura diventa un’esperienza che da un punto di vista psicologico è estremamente difficile.

D: Gli operatori che entrano in contatto con i migranti e le loro problematiche (es: nei centri di accoglienza, negli ambulatori, nelle scuole, negli studi professionali) spesso non hanno delle competenze professionali per svolgere bene il proprio lavoro. Cosa si può fare per una migliore formazione degli operatori?

R: Al il mio rientro in Italia due anni fa, dopo 7 anni di lavoro a Ginevra con l’Organizzazione Internazionale per l’immigrazione, ho visto che in Italia si fanno molte attività. Purtroppo spesso queste non sono coordinate tra di loro e hanno scarsi scambi di esperienze, altre volte sono basate su un lavoro di volontariato. Persone che lavorano nei servizi, nella scuola, nel sistema di risposta ai bisogni sociali, ad esempio nel programma asilo dei Comuni e nelle Asl sicuramente si danno molto da fare realizzando talvolta anche esperienze veramente pregevoli. Tuttavia, quello che mi sembra mancare è una pianificazione a livello centrale che possa mettere a disposizione di queste persone competenze di operatori che hanno affrontato questi temi in paesi in cui il fenomeno migratorio non è così recente come in Italia. Mi sembra che in Italia si assista spesso ad una situazione in cui il volontariato si mette ad affrontare temi e problematiche estremamente difficili e drammatiche senza avere gli strumenti per farlo. Lavorare con persone che sono state vittime di tortura o di violenza di qualunque tipo e che sono arrivate in Italia come richiedenti asilo e rifugiati è un lavoro che richiede un’altissima professionalità specifica che mi sembra che in Italia manchi e deve essere costruita. Allo stesso modo manca una professionalità specifica per lavorare in campo psicologico con persone che appartengono ad altre culture che danno differenti interpretazioni al disagio e alle sue cause. Ciò richiede strumenti specifici come la psicoterapia, che non è una disciplina le cui competenze sono diffuse ma che dovrebbero esserlo attraverso la formazione di operatori che lavorano in questo campo.