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Il razzismo come “fenomeno strutturale”: dentro (e non fuori) la stessa essenza produttiva delle società capitalistiche

Intervento del professor Miguel Mellino (Università di Napoli) al seminario “Razzismo neocoloniale e antirazzismo decoloniale”

Ph. Dario Fichera
Intervento del professor Miguel Mellino (Università di Napoli)

Vorrei partire dal titolo stesso del nostro incontro: lo prendo come un invito a ragionare su alcuni fenomeni, su cui in Italia, dal mio punto di vista, si ragiona poco e male. O meglio: si ragiona secondo qualcosa che possiamo chiamare, o un “senso comune collettivo” (un’ideologia, si potrebbe in termini marxisti) assai diffuso, o anche “una narrazione politico-mediatica” che oramai si è imposta, sia nella sfera istituzionale, sia nel discorso più propriamente “politico” (purtroppo in quello più radicale).

Prima di tutto, dunque, vorrei partire da un’interrogazione: cosa intendiamo per “razzismo neocoloniale”? Cosa ci porta in mente questa espressione, quale catena di significazione (conscia e inconscia) mette in moto qui tra di noi, che tipo di produttività teorica e politica?
Mi sembra un’operazione necessaria per cominciare a ragionare su un “antirazzismo decoloniale”.

Qui abbiamo uno dei primi elementi su cui ragionare: perché in Italia gli autori decoloniali (Quijano, Mignolo, Grosfoguel, Dussel, Castro Gomez, Escobar, possiamo aggiungere anche Francoise Verges, Femminismo decoloniale, appena uscito) non sono molto conosciuti, quasi per nulla tradotti (eccezione il libro di Houria) e faticano ad entrare nel dibattito antirazzista?

Non mi voglio dilungare su questo argomento. Dal mio punto di vista, il problema è la whiteness delle espressioni dominanti dell’antirazzismo italiano: per whiteness, intendo qui la bianchezza come un’ideologia, e non con l’essere bianchi, che tende a riprodurre diverse forme di suprematismo o di privilegio “bianco”.

Pochissima confidenza dell’antirazzismo italiano, se così lo vogliamo chiamare, con l’archivio nero, non-bianco, non-occidentale, nella sua riflessione su colonialismo, schiavitù, razzismo, decolonizzazione, ecc.). I punti di riferimento dell’antirazzismo in Italia sono quasi sempre autori bianchi.

Ma torniamo al punto di partenza: cosa dovremo intendere per razzismo neocoloniale e soprattutto alla narrazione politico-mediatica, ora posso aggiungere, bianca che si è imposta sulla sfera teorica, pubblica e politica riguardo i modi di comprensione di razzismo e antirazzismo.

Per esemplificare quanto cerco di dire vorrei prendere spunto da un fatto appena accaduto: l’istituzione della commissione Segre nel parlamento per la vigilanza e la punizione dei comportamenti razzisti nella società. Come sappiamo è stata osteggiata dalle destre e promossa dalle sinistre istituzionali, in mezzo poi a un quasi totale silenzio sulla questione nel resto della società, in particolare negli ambiti a noi contigui: università, movimenti sociali, movimenti per i diritti dei migranti e dei rifugiati, ecc.

Questo silenzio merita di essere interrogato, perché secondo me denota una concezione problematica di razzismo e antirazzismo, legata proprio al radicamento di quella “narrazione pubblico-mediatica” su questi fenomeni che si è ormai consolidata, e che rende l’antirazzismo italiano, nella maggior parte delle sue espressioni, un antirazzismo di sistema (non di rottura), o, per dirla in termini foucaultiano, un’espressione della “politica” divenuta parte della “polizia” (istituzioni).

Non ho tempo per dilungarmi sulla vicenda, ma la concezione di razzismo a partire dalla quale si è istituzionalizzata la commissione non è soltanto pericolosa, ma appare purtroppo quella dominante. I molteplici temi che emergono dall’analisi degli eventi mostrano un implicito accordo su un’interpretazione del razzismo che lo definisce in maniera non solo riduttiva, ma politicamente fuorviante, e il cui paradigma è modellato dalla fattispecie del “reato d’opinione” (Fake news, reti sociali, assunti a nuove forme di panico morale). Considerato un fenomeno sempre più dilagante all’interno del tessuto sociale, il razzismo sarebbe così una somma di comportamenti e di parole che hanno il fine esplicito di insultare, discriminare e inferiorizzare l’Altro, sulla base di diversità socialmente costruite.

Secondo questo ragionamento, ciò con cui dobbiamo fare i conti sarebbe una sorta di “difetto di rappresentazione”, un prodotto di precise manipolazioni politiche che hanno l’obiettivo principale di approfittare delle ansie, della paura e della credulità popolare, creando così dei falsi nemici e dei capri espiatori. Posto fuori dai confini della democrazia, luogo dell’immaginario confronto razionale, il razzismo ne costituirebbe un’anomala escrescenza, irragionevole e passionale, frutto anche di un deficit culturale o di istruzione, che negli ultimi anni sta subendo un processo di normalizzazione grazie ad imprenditori politici abili a sfruttare le diverse crisi prodotte dalla globalizzazione economica.

È un quadro interpretativo che informa, in maniera più o meno conscia, anche molteplici iniziative antirazziste, e di cui la commissione Segre non ne è che un esempio istituzionale: sconfiggere Salvini per sconfiggere il razzismo, potremmo dire semplificando, è l’imperativo politico che attraversa buona parte delle buone coscienze sinceramente progressiste. Ne consegue un cocktail di prese di posizione a favore di un maggiore impegno nella scolarizzazione (educazione interculturale), di una più lesta repressione e condanna pubblica da parte delle autorità statali e, alle volte, una perorazione per un impegno a combattere le diseguaglianze sociali. Non è difficile intuire che si tratta di una forma di antirazzismo plasmata su una certa concezione ottocentesca ed eurocentrica dell’antisemitismo, in cui il razzismo antiebraico appariva scisso dalle sue radici coloniali e imperiali.

Da questa falsa disputa sul razzismo emergono due posizioni che si legittimano a vicenda: da una parte, Salvini, la degenerazione fascista incarnata da alcuni ideal tipo-sociali (curve, proletari ignoranti, soggetti violenti di formazioni fasciste violente, ecc.); dall’altro il buon cittadino, la buona coscienza bianca, la sinistra illuminata/illuminista, colta, istruita, a salvo di ogni contagio dal male. Noi, la civiltà (i colti, coloro che vivono nella buona razionalità civile-democratica), dall’altro “loro” (la barbarie). Si pensi per esempio all’umanitarismo, che è divenuta la forma ideal-tipica dell’antirazzismo in Italia.

Si tratta di una narrazione non soltanto autoassolutoria, nel senso che è difficile non pensarla come un’altra forma di sublimazione della propria presunta rispettabilità-moralità-superiorità delle classi medie-bianche-liberali-progressiste locali, ma soprattutto fuorviante, poiché non fa che rigettare il razzismo in soggetti e situazioni costruiti come “eccezionali” rispetto a non si sa bene quale norma di società “civile” e “democratica”. Non voglio qui sostenere che le classi e le culture popolari non sono attraversate da pratiche e rappresentazioni razziste, o che siano in qualche modo innocenti, ma soprattutto che narrazioni di questo tipo – assai radicate in un certo immaginario politico antirazzista ben più ampio di quello dell’ordine politico-mediatico-istituzionale – finiscono semplicemente per espungere il razzismo dalla stessa dimensione pubblico-materiale-simbolica della società, costruendolo quindi come un fenomeno sociale meramente “privato”, “soggettivo” e soprattutto chiaramente “allocabile” in certe dimensioni sociali anziché in altre.

Tali narrazioni, dunque, non fanno che riconsegnarci una concezione tanto semplificatoria quanto mistificante non solo del ruolo del razzismo all’interno degli attuali dispositivi di estrazione di valore dalla società, bensì della sua spettrale rilevanza storica come tecnologia coloniale e post-coloniale di governo, sia in Italia che nel più ampio contesto delle formazioni capitalistiche moderne.

Questo modo di concepire il razzismo, e per implicito l’antirazzismo, è dunque soltanto un’altra espressione del “privilegio bianco”.
Rende visibile il razzismo soltanto come opinione e rappresentazione. Oscura invece la dimensione storico-strutturale del razzismo come dispositivo di governo. Si risolve in un banale e retorico riconoscimento della differenza, ovviamente controllata e addomesticata, invisibilizzando la dimensione strutturale del razzismo come dispositivo di produzione e naturalizzazione di disuguaglianze sociali. Non apre, anzi chiude, l’ordine binario del discorso sul “razzismo di stato” (passato e presente); sul razzismo come “fenomeno strutturale” delle società contemporanea; sulla segregazione lavorativa, urbana, scolastica, ecc. “sul razzismo istituzionale”. Alimenta una sua concezione come qualcosa di “eccezionale”. E qui che può cominciare a interpellarci la nozione di “razzismo neocoloniale”.

Detto più esplicitamente, si tratta di un modo di concepire il razzismo che ci prepara (non certo in modo innocente) a percepirlo subito nelle curve, magari in bocca a Orbán, a Trump e a Salvini, ma che ce lo rende molto meno visibile come dispositivo che regola la gentrificazione delle nostre città, o il lavoro migrante nelle metropoli, quello rurale nelle campagne del Sud, quello domestico nelle case, quello cognitivo nelle scuole e nei licei, così come buona parte degli spazi che frequentiamo quotidianamente.

Non è un caso se in Italia, espressioni come “razzismo strutturale”, “razzismo istituzionale” e “segregazione sociale” vengono regolarmente omesse dal dibattito pubblico antirazzista. Si tratta di una mancanza assai paradossale: mentre il razzismo si mostra sempre di più come un dispositivo al centro dei processi di gerarchizzazione della cittadinanza costitutivi del neoliberalismo, così come del “governo della crisi”, l’antirazzismo finisce spesso per apparire come un elemento semplicemente “accessorio” delle lotte politiche.

Come sottolineato da Achille Mbembe in Politiques de l’Inimitié (2016), razza e razzismo andrebbero concepiti, non tanto come delle eccezioni rispetto a una imprecisata norma capitalistica di sfruttamento, bensì come dei «corpi notturni delle stesse democrazie moderne occidentali». Democrazia, colonialismo, imperialismo, schiavitù, razzializzazione delle migrazioni fanno parte di un unico “ordinamento politico”.

Da qui la storica centralità delle lotte antischiaviste e antirazziste, e di una ricomposizione politica delle lotte incentrata sul rovesciamento di razza e razzismo, nei processi di riconfigurazione della democrazia all’interno delle società capitalistiche.

Per uscire da un dibattito sul razzismo rimasto spesso intrappolato entro i confini dell’ordine dominante del discorso, vale a dire quasi esclusivamente concentrato o sull’emergenza (sugli arrivi e le morti dei migranti in mare, sulla violenza delle frontiere e sulle insufficienze del cosiddetto sistema dell’accoglienza) o sull’eccezione (su fatti ricorderete come Macerata e Torre Maura costruiti sotto l’aura dell’irrazionalità sociale), occorre innovare i nostri approcci al fenomeno. Combinando alcune suggestioni del Foucault di “Bisogna difendere la società” (1978) con la tradizione del “marxismo nero”, ci sembra importante ridefinire il razzismo come una tecnologia istituzionale di gestione di territori e popolazioni finalizzata all’estrazione di valore dalla società nel suo complesso.

Dobbiamo ripartire dal presupposto secondo cui il razzismo sta dentro (e non fuori) la stessa essenza produttiva delle società capitalistiche. Il razzismo, la violenza razzista poliziesca e istituzionale, il securitarismo, la militarizzazione dei territori e dei confini, la logica di riproduzione dei campi, lo sviluppo del cosiddetto “stato penale o punitivo neoliberale” così come la segregazione urbana (sociale/culturale), non sono effetti meramente contingenti all’interno dell’attuale democrazia neoliberale, ma dispositivi al centro stesso di tale forma di governo.

È ora di ripoliticizzare il nostro antirazzismo: il tempo dell’innocenza (bianca) italiana è chiaramente finito.

Dovrebbe essere questo il grado zero del nostro antirazzismo decoloniale. Visibilizzare il razzismo come “fenomeno strutturale”: accesso differenziato alla mobilità sociale in virtù della propria appartenenza di razza, classe e genere e dall’intersezione fra di esse.