Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
/

Il recente passato del Prefetto Marrosu

Nel curriculum del prefetto di Treviso l'inumana gestione del CIE di Gradisca, la "Guantanamo d’Italia".

Che un CIE “umano” non possa esistere per definizione, è un dato di fatto.

È quindi difficile pensare che possano esistere CIE peggiori di altri, perché ognuno di essi rappresenta una negazione dell’essere umano, privato della libertà in nome di una burocrazia razzista, che distingue tra esseri umani di serie A e di serie Z, mettendo in stand-by l’esistenza di una persona per il solo fatto di non essere in regola con il proprio permesso di soggiorno. Eppure, chi ha avuto la spiacevole opportunità di visitare diversi CIE d’Italia, non ha esitato a definire il CIE di Gradisca come “uno dei peggiori d’Italia”, “una delle Guantanamo d’Italia”, il CIE da cui gli stessi detenuti chiedevano di essere spostati, (non liberati, spostati!) perché tutto era meglio di Gradisca.

Viene da chiedersi come mai questa tranquilla cittadina di poco più di seimila abitanti situata a una ventina di minuti da Gorizia, per anni si sia fregiata del poco onorevole titolo di “ospitare” (suo malgrado) uno dei peggiori CIE d’Italia, e cosa abbia reso il lager di Gradisca peggiore degli altri. Per rispondere a questa domanda giova ricordare che, sebbene il regolamento che ne disciplina il funzionamento sia nazionale, di fatto quello che accade dentro un CIE è materia di competenza del Prefetto, che ha enormi poteri sull’andamento della vita all’interno di queste strutture. Maria Augusta Marrosu diventa Prefetto di Gorizia nel 2008, e resta in carica fino al dicembre 2013: sua quindi la responsabilità della gestione del CIE di Gradisca, “uno dei peggiori d’Italia”, per l’appunto.

Per capire come il lager di Gradisca arrivi ad aggiudicarsi la palma d’oro nella corsa al ribasso dell’orrore quotidiano dei CIE, basta fare quindi una breve rassegna della sua storia recente, prestando particolare attenzione alle decisioni prese (e non prese) dal Prefetto di Gorizia.

Forse bisogna partire dalla storia di Majid, visto che tra poco meno di un mese ricorre il secondo anniversario della sua caduta mortale dal tetto del CIE di Gradisca, in una ben poco tranquilla notte dell’agosto 2013. Majid arriva al CIE di Gradisca a luglio, come tanti vittima della burocrazia italiana, si ritrova da un giorno all’altro in quell’inferno di gabbie, vetri di contenimento e reti che tagliano persino la vista del cielo. Un inferno attivo ventiquattr’ore al giorno, perché i detenuti di Gradisca non hanno altro spazio dove consumare la loro prigionia a tempo indefinito: per ordine del Prefetto lo spazio mensa non viene utilizzato (ed è un peccato, visto che le mura sono state simpaticamente decorate con disegni di animaletti sorridenti, come in una scuola materna). La decisione è stata presa in seguito alle rivolte del 2011: “per evitare assembramenti”, il rischio della protesta è sempre dietro l’angolo. I pasti vengono quindi consumati direttamente nelle camere, il che farebbe sorgere più di un interrogativo sul rispetto delle norme igieniche, ma nei CIE tutto è possibile.

Neanche il campo da calcio è utilizzabile: per anni si usa la scusa dei “lavori di manutenzione in corso”, e quindi i detenuti non possono usufruirne. È vietato il possesso di libri e quotidiani, perché ritenuti “materiale infiammabile”, o forse semplicemente perché ogni traccia di umanità deve essere inaccessibile a chi viene detenuto.

Nella calda estate del 2013, Majid si trova isolato dal mondo esterno: è sempre del 2011 il provvedimento del Prefetto per cui ai detenuti è proibito il possesso dei telefoni cellulari, ancora per il timore delle rivolte: si ritiene infatti che “ambienti esterni” dirigano e coordino le “operazioni di danneggiamento” del centro, per cui ogni contatto va tagliato. Come se servisse un input esterno, per ribellarsi a quell’inferno. In controtendenza con gli altri CIE italiani, dove il cellulare è consentito (le telecamere vengono solitamente rotte al momento dell’ingresso), i detenuti di Gradisca possono comunicare solo utilizzando l’unico telefono a gettoni presente nella struttura: un telefono per circa 80 persone, un lusso.

Nella notte tra l’8 e il 9 agosto 2013, Majid si trova probabilmente insieme ai compagni detenuti, che vorrebbero festeggiare la fine del Ramadan, una festa importantissima per i musulmani: festeggiare, tra le mura del CIE di Gradisca, vuol dire semplicemente uscire dalle gabbie, passeggiare un po’ nel cortile, respirare aria diversa. Questa “concessione” viene meno verso le due di notte, ai detenuti viene ordinato di ritornare in gabbia, al rifiuto partono le botte. Non è un copione nuovo, ne in questo CIE ne negli altri. Un video del 2009, diffuso da Youreporter, mostra i volti tumefatti e i vestiti sporchi di sangue dei detenuti di Gradisca dopo l’ennesimo pestaggio. Nell’agosto del 2012, chi si trovava davanti al CIE poteva sentire distintamente nell’aria le grida disperate dei detenuti, durante un tentativo di rivolta sedato con la violenza, e molte sono le testimonianze (purtroppo cadute nel dimenticatoio) di chi ha subito la doppia punizione della detenzione e delle botte.

Quella notte non sono solo i manganelli a punire i detenuti: arriva anche una pioggia di lacrimogeni al CS, dannosissimi per la salute, specie se utilizzati in uno spazio semichiuso, dove l’aria non circola. I resti di quella pioggia ce li ritroviamo in mano due giorni dopo, quando insieme ad una parlamentare riusciamo ad entrare nel CIE, e gli stessi detenuti ci consegnano i bossoli dei lacrimogeni anneriti, puzzolenti. La sera dopo, il copione è identico: stando fuori dal CIE si sentono chiaramente i rumori degli spari dei lacrimogeni, si sentono le urla. I detenuti sono circa una settantina, a giudicare dal numero di macchine e camionette giunte sul posto le forze dell’ordine sono molte di più.

Quella notte i migranti riescono a scappare sul tetto della struttura, a rompere il silenzio e l’isolamento dall’esterno che in un certo senso dura dal marzo 2011, da quel famoso provvedimento che vieta i cellulari e che non è mai stato rimosso. Verrà rimosso, casualmente, il giorno dopo la caduta di Majid da quel tetto maledetto, quando è chiaro che le ferite riportate alla testa sono gravissime, probabilmente senza speranza.

Majid non è il primo a cadere da quel tetto.

Nel 2012, in un tentativo di fuga, R si butta letteralmente, atterrando in piedi, rompendosi entrambi i talloni. Racconterà di non essere stato in grado di percepire l’altezza, perché sotto l’effetto di psicofarmaci, la “medicina” somministrata generosamente a tutti gli “ospiti”, “per aiutarli a sopportare la detenzione”. Evidentemente avere entrambi i talloni fratturati non impedisce la permanenza al CIE, perché due settimane dopo la caduta R viene riportato in gabbia, dove secondo il medico del CIE potrà’ seguire la “riabilitazione”. Per regolamento, se le condizioni psico-fisiche degli “ospiti” sono da considerarsi incompatibili con la struttura, questi non possono essere detenuti. R non ha la possibilità’ di muoversi autonomamente, anche per andare in bagno ha bisogno di aiuto dai suoi compagni: eppure, non viene liberato.

Anche Ghouma, che nell’ottobre del 2012 è in sedia a rotelle, non viene liberato. Denuncia che, nel corso di una delle “solite” rivolte estive, gli è stato lanciato un lacrimogeno sul ginocchio, cosa che gli impedisce di camminare. Ghouma ha sporto denuncia per il trattamento riservatogli dalle forze dell’ordine all’interno del CIE, purtroppo è morto nel 2014 e la sua denuncia, come tante, è caduta nel dimenticatoio.

Anche Mohamed, la cui storia è stata raccontata dai Medici per i Dirietti Umani (MEDU), nel CIE di Gradisca non doveva starci. Come tanti, il suo corpo era coperto di tagli, la sua storia clinica parla di un forte stato depressivo, documentato anche dagli psichiatri dell’Ospedale di Gorizia. Non era abbastanza, evidentemente, perché la sua detenzione è durata 14 mesi, nonostante gli appelli per la sua liberazione.

Tutte queste storie, forse Majid non le conosceva. Non le conoscevano neanche i suoi parenti residenti in Marocco, avvisati diversi giorni dopo l’accaduto tramite l’Ambasciata, che erano convinti che lui fosse già morto. E’ solo grazie alla solidarietà dei suoi compagni detenuti, che riusciamo a contattare alcuni parenti residenti in Italia, che arrivano prontamente al suo capezzale, all’ospedale di Cattinara. Dove per “ordine dell’ispettore del CIE” (figura inesistente), viene loro proibito di avvicinarsi al proprio caro, perché il caso di Majid deve rimanere riservato, si rischiano altre rivolte, è pericoloso. Più di una volta, chi gli fa visita viene ‘identificato’, nonostante si tratti di un paziente in un ospedale pubblico.

Majid è morto il 30 aprile 2014, non si è mai risvegliato dal coma. I suoi parenti sono stati avvisati della morte una settimana dopo, per volere di chi non è dato sapere; di fatto la sua detenzione non è mai finita. La sua vita, dal momento della sua caduta, è sempre rimasta nelle mani del CIE, di chi non lo voleva libero.

Il CIE di Gradisca è stato chiuso dalle rivolte dei detenuti, che nei primi giorni del novembre 2013 hanno appiccato il fuoco alla struttura. Per questa imperdonabile alzata di testa sono stati lasciati a respirare il fumo dell’incendio per tre giorni, sistemati a vivere nel corridoio della struttura, coi materassi a terra. Tre giorni in cui il CIE non ha smesso di bruciare: se fosse stato un qualunque edificio pubblico, sarebbe stata disposta l’evacuazione immediata.

Anche la politica istituzionale ha chiesto la chiusura della Guantanamo di Gradisca. L’ultimo è stato il Senatore Manconi, nel settembre 2013, che la visitò con la Commissione del Senato per la tutela e la promozione dei Diritti Umani. Eppure fino all’ultimo giorno, fino a quando non è stato chiaro che la struttura non era più utilizzabile, la volontà della Prefettura e del Ministero dell’Interno è stata quella di non chiudere il lager.
L’ingresso alla struttura da parte della società civile è stato ostacolato e frequentemente negato dalla Prefettura, usando spesso la scusa dei “lavori di ristrutturazione in corso” che rendevano impossibili le visite, come nel dicembre 2012. Salvo poi consentire l’ingresso a una delegazione leghista, che lo definì “hotel a cinque stelle” (Gennaio 2013).

La gestione di un CIE non può essere umana. Ci sono però piccoli spiragli, lasciati dalla debole legislazione in materia, che permetterebbero se non altro di non accanirsi sui casi più vulnerabili: su chi è malato, su chi non cammina, su chi è in coma.

Tutto questo a Gradisca non è stato possibile, perché la volontà era di renderlo una struttura modello della repressione e dell’annientamento dell’essere umano, traguardo più che raggiunto. Privazione dopo privazione, divieto dopo divieto, la gestione Marrosu del CIE di Gradisca verrà ricordata come quella di uno dei “peggiori CIE d’Italia”, ricordo che rimarrà indelebile nella testa di chi è sopravvissuto al lager.

Per Majid, per R, per Ghouma, per i corpi ricoperti di ferite autoinflitte, per il fumo tossico dei lacrimogeni, per le botte, per l’isolamento prolungato, per un’umanità volutamente ridotta allo stato larvale senz’altro supporto che una pioggia di psicofarmaci, nessuno ha pagato. Ed è frustrante pensare che chi ha gestito questo inferno in passato si trovi ora a gestire l’accoglienza di chi da altri inferni è fuggito, come se tutte queste storie, tutto questo dolore non parlassero abbastanza forte.