Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Il report del XX viaggio in Bosnia (21-26 maggio 2021)

a cura di Linea d’Ombra ODV

Fotografie di Linea D'Ombra ODV
Photo credit: Nicola Franchini
Photo credit: Nicola Franchini

I

Ritornati da un giorno, ancora colmi dell’inelaborata intensità del viaggio, leggiamo in internet un rapporto di No Name Kitchen (NNK) sullo sgombero dei migranti negli squat intorno a Bihac.
Catturati e portati a Lipa; distrutte col fuoco e disperse le loro cose, compresi i preziosi cellulari; molti fuggiti nei dintorni; molti tornati indietro da Lipa. Non si può raccogliere con un secchio poliziesco l’acqua che scorre.
Siamo stati, a Lipa. Fuori, naturalmente.
Un ambiente lunare, un triste recinto di tende e container, caduto fra colline verdi.
Surreale, con i ragazzi che in un campo giocavano a cricket con lanci precisi.
Una desolazione che invita alla fuga. Trenta chilometri a Bihac. Sempre piccoli gruppi lungo la strada.
A Lipa siamo andati il 23, per sapere qualcosa del ragazzo incontrato il giorno prima al Krajna metal, che, pallido in volto e dall’aria molto stanca, si comprimeva l’addome. L’ambulanza chiamata da noi, con l’aiuto di Matilda di NNK, invece di portarlo all’ospedale di Bihac, lo ha portato, appunto, a Lipa. Naturalmente, ci hanno vietato d’entrare, invitandoci, invece, ad andarcene. Ci han detto comunque che è vivo.

Nell’immensa Krajna metal, sorta di città-fabbrica devastata dalla guerra degli anni Novanta, andiamo tutte le volte, ormai. Dopo lo sgombero del Dom Penzionera, è l’unico grande squat cittadino, oggi certo di nuovo sgomberato, come gli abitanti già immaginavano, e forse già in parte già ripopolato, nel triste gioco a ‘guardie e ladri’ in cui sembra affondare negli ultimi tempi il cantone Una-Sana.
Colpisce, nel rovinìo sudicio dell’interno, un vasto spazio con tappeti per la preghiera, in cui si capta in qualche modo il silenzio di una moschea.

Questa dei campi è l’unica politica in cui confusamente convergono l’Unione Europea, i singoli Stati che conflittualmente la compongono e l’incerto, diviso, sistema politico della Federazione cantonale bosniaca.
Chi decide, in ultima analisi e prima di tutti, con l’indifferenza di un meccanismo sistemico, è ciò che impropriamente chiamiamo Economia, ovvero il Logos mercantile e finanziario che domina tutto (o quasi).

A Bihac, la sera del 22, abbiamo vissuto il culmine del viaggio.
In una zona alberata ai margini della città, non distante dal Borici, un gruppo di migranti alla partenza.
Un attimo prima di partire un gesto solenne di raccoglimento: i corpi immobili, in semicerchio, le mani aperte tese al cielo, china la testa.
Subito dopo, la fila si perdeva rapidamente lungo il pendio, verso la boscaglia ormai notturna.
In questi rapidi gesti all’unisono, c’era qualcosa di solenne, d’intenso, di vivo.
Abbiamo colto pienamente, nel silenzio, il senso della parola ‘game’.
Era accaduto qualcosa di importante.
Quel gesto collettivo, rapido e solenne, pieno di dignità, rendeva visibile la valenza storica delle migrazioni dal Medio Oriente, di tutte le migrazioni, dall’Africa, d’altrove.
Manifestava pienamente l’esercizio di un diritto fondamentale, che nessuno Stato potrà mai riconoscere.
Un diritto come potenza del corpo e non figlio dello Stato.
Nello stesso tempo quel gesto era un rito di transizione in un momento, appunto, di passaggio, come è il game: un passaggio verso la vita sperata o verso quella morte momentanea che è il respingimento con violenza e umiliazione; o anche una morte vera e propria, spesso nella forma atroce della scomparsa nel nulla, privando la famiglia del rito fondamentale della sepoltura.
Era accaduto qualcosa d’importante, anche per noi.
Noi quattro, due giovani e due anziani, abbiamo sentito il bisogno di abbracciarci.

Siamo in quattro, infatti, in questo viaggio. Noi due al ventesimo, Rossella e Nicola al primo.
Perciò abbiamo convenuto di scrivere un testo diviso in due parti, scritte da Lorena e Gian Andrea, da Rossella e Nicola.
Uno sguardo che si rinnova e approfondisce.
Uno sguardo che ha la ricchezza stupita del primo.

Photo credit: Nicola Franchini
Photo credit: Nicola Franchini

Il primo sguardo, all’arrivo, è per le lunghe tristi file di ragazzi, con zaini e sacchetti, in direzione del game. Ricordo che, un tempo, queste file avevano, talora, un che di vitale, quasi di baldanzoso, non davano comunque quest’impressione di fatica.
Di contro – già notato altre volte, ma questa volta sembra colpire di più forza, forse per la recente minor frequenza dei viaggi -, il verde smagliante dei boschi e dei prati a contrasto con la povertà di molte case, spesso non finite e l’assurdità di quelle più vistose, quasi disneyane, nell’esibire redditi probabilmente dovuti a migrazioni.

Come al solito facciamo acquisti, con Anela e Zemira a Bihac, per Zehida a Kladuša, nei supermercati, più o meno grandi, ma anche nei piccoli negozi: anche un modo per socializzare con quella parte di popolazione non ostile ai migranti, anche perché ne trae un qualche vantaggio. In alcuni magazzini e negozi, siamo riconosciuti. Il personale ha già i nostri dati tecnici. C’è un’atmosfera serena.

Fermata al Sedra, nel passaggio da Bihac a Kladuša per incontrare Amir Labbaf, accompagnato dalla famiglia di amici, Reza, Maria con la piccola Anahita, di sette mesi. Con loro andiamo a pranzo.
I due genitori si sono conosciuti nel viaggio fra l’Iran e la Bosnia. Hanno scelto un impegnativo gesto di vita, in contrasto con la dura provvisorietà della condizione migrante, anzi di profughi: mettere al mondo un figlio.
L’affetto visibile dei genitori sembra proteggerla dalla condizione abnorme in cui questa bimba sta crescendo.
Vogliono raggiungere la Germania.

A chi scrive, più che un rapporto in senso proprio, già fatto egregiamente da Nicola, interessa cogliere soprattutto quello che chiameremmo i punti di concentrazione o condensazione degli incontri: il senso profondo di questi viaggi.
Così, ad esempio, nei dintorni di Kladuša, nello squat che chiamerò della tomba – per via appunto di una dignitosa, quasi solenne, tomba islamica, ben visibile con lapide e cancellata, che sorge davanti alla casa, probabilmente di chi l’abitava. I punti di concentrazione dell’incontro con i gruppi familiari occupanti sono stati: da una parte, la cura solerte, minuziosa, di due bambine nel lavare le fragole da noi offerte, considerando anche che l’acqua è portata da fuori con contenitori di plastica; dall’altra, lo sguardo perduto nel vuoto di un uomo di mezza età, seduto su una pietra, i disparte.
Fra questi due punti d’intensità scorre tutta la vita di queste famiglie, nella vecchia casa abbandonata nel bosco, sorvegliata da una tomba, nel tempo d’attesa del momento culminante del game.
L’enorme diversità fra la nostra condizione e quella del migrante sta nella diversa esperienza del tempo, nel rapporto con il futuro. Per loro è proiettato al di là del tempo sospeso vissuto al di qua di un passaggio, di un transito, pieno di rischi.
Transito al di là di fiumi gonfi d’acque, come sono i fiumi bosniaci: ci salgono infatti alla mente immagini, inviate da migranti sul cellulare: l’attraversamento dei fiumi da parte di famiglie con bambini, dove gli elementi forti dell’ambiente – il fiume ricco d’acque, i grandi alberi, i boschi – acquistano la valenza simbolica della transizione fra stati della vita.

Photo credit: Nicola Franchini
Photo credit: Nicola Franchini

Questo viaggio è stato, soprattutto, un incontro con famiglie: fra giochi di bimbi e serietà degli adulti. Ci si chiede come vivano i bimbi questa condizione mobile, priva di protezione.
Nella cosiddetta Helicopter place, nei pressi di Kladuša, un hangar dove vivono due famiglie e altre persone, i bambini, dai dieci anni circa in giù, sembrano allegri e spensierati. Alcuni, le bambine soprattutto, sono prese dal gioco delle bolle di sapone che abbiamo regalato, mentre gli adulti cucinano e ci offrono il loro pane. Nell’insieme c’è un’atmosfera di collettività vitale.
Il luogo, di per sé desolante, è ben organizzato, anche con l’aiuto di volontari che hanno realizzato paratie in legno pressato.
Ritorniamo nell’hangar anche il giorno dopo, accolti vivacemente con il senso tradizionale dell’ospitalità, che scorre ben oltre l’occasionale interesse per donatori.
Nell’andar via, sotto un grande albero poco distante, incontriamo un gruppo di famiglie afgane, appena arrivate.
Due bambine molto piccole, una neonata con febbre. Anche altri giovanissimi sembrano non sentirsi bene. Stanchezza e preoccupazione nei volti segnati degli adulti. Una piccola tribù migrante.
C’è qualcosa di antico in queste persone erranti, bimbi, giovani e anziani, raccolti sotto un albero nella luce del tardo pomeriggio. Ma sono i portatori della nuova condizione dei migranti: la distruzione del Medioriente, l’irreversibile crisi ambientale e via via gli altri paesi figli del colonialismo, l’Africa, il Sud America…abbiamo incontrato bengalesi , nepalesi, indiani…
Verranno dei medici, che abbiamo avvisato, a visitarli più tardi… forniamo delle tende…

Gli incontri con ampi gruppi familiari hanno proprio segnato questo viaggio.
La sera del 26, infatti, dopo aver cenato, insieme agli amici di NNK e la cara amica Zehida, in quel luogo sociale che è l’hotel Napoleon, incontriamo il passaggio di due famiglie iraniane appena respinte dal game.
Un gruppo numeroso: nei volti, nei corpi, tutta la profonda tristezza del ricadere là donde erano partiti. La speranza frustrata – senza soldi, senza cellulari, senza niente, nella notte vuota e ancora fredda che li aspetta.
In questo gruppo c’è un bambino sui dieci anni: chiede un quadernetto e una penna. Si siede subito per terra a disegnare. Una casa con tante finestre, delle faccette – siamo noi dice: padre, madre e figli. Il disegno è elementare, geometrico. Disegna persino l’erba.
Poi chiede soldi, per aiutare la famiglia.
Ecco un altro polo dell’infanzia in game: il bambino che si sente strappato alla condizione infantile per assumersi la responsabilità di aiutare i genitori.
Ci viene qualche spunto sul trauma, dei bambini, ma anche degli adulti che tengono i bambini e cercano di proteggerli, spesso invano.
E noi?

Una bella esperienza di questo viaggio così intenso è stato l’incontro con l’attuale gruppo di volontari di NNK. A differenza di altre volte, abbiamo trovato un gruppo coeso e solidissimo, affettuoso, capace, allegro e consapevole.
Siamo stati molto bene.
E’ importante, in situazioni che senza retorica si possono definire tragiche, sentire che è possibile comunque mantenere una corrente emotiva vitale, necessaria per impegnarsi seriamente, con energia comunicativa, senza cadere in forme depressive.

Gli amici di NNK ci hanno fatto conoscere Dario, un uomo magro dallo sguardo azzurro e sereno, che vive fra le colline verdeggianti nei dintorni di Velika Kladuša, gestendo un piccolo centro commerciale, che, grazie al suo impegno, è divenuto il luogo sociale di quel territorio.
Lì, socializzano migranti e locali.
Lì, abbiamo rivisto un algerino, incontrato in febbraio nella desolazione di una grande rovina industriale nei pressi, insieme ad altri tre compagni. Respinto duramente dai croati in game, ci ha mostrato le tracce di colpi nel suo viso.
Nel luogo aereo di Dario si respira una buona aria di solidarietà. Lui, dopo la guerra, ha vissuto in Canada, a Toronto, per diciannove anni. Poi è ritornato.

Alla domanda: perché? Dà una risposta straordinaria: perché qui la vita è bella.
Questa bellezza – capiamo – sta nell’equilibrio tra lavoro e relazioni: un lavoro, la gestione del centro commerciale che funziona anche come un centro di relazioni.
Per quel che riguarda i migranti, grazie soprattutto al sistema dei voucher, con cui si possono anche scegliere alimenti adatti a diverse abitudini alimentari: c’è chi è abituato al riso, come i bengalesi, e non alla farina, come i magrebini. Nel suo negozio, si trovano inoltre anche certi tipi di spezie.
Dario sa che, nella condizione migrante, può essere importante poter sorseggiare una coca cola o un dolce, seduti all’ombra.
Tutto ciò che si respira nell’ambiente, fra le persone intorno, migranti e locali. Fra cui alcuni accudiscono alla distillazione della rakja, dai fumi profumati. E seduti a un tavolo, con Dario, gli amici di NNK e altri, beviamo la rakja profumata.
Si sta bene qui, fra queste colline. Un grande risultato politico.

Dulcis in fundo: siamo stati fermati tre volte dalla polizia. Le prime due volte, polizia in borghese, equivalente alla Digos nostrana. I poliziotti sapevano di noi, ad esempio che i sottoscritti alloggiavano in un certo albergo. E all’uscita dalla Bosnia, siamo stati fatti parcheggiare da un lato per una mezz’oretta, mentre controllavano (?) i documenti. Il sospetto ragionevole è che, dopo la denuncia, siamo controllati nei nostri spostamenti.

Lorena Fornasir, Gian Andrea Franchi

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II

La strada per giungere a Bihac costeggia le immense montagne dei Balcani inondata da un verde florido. La Bosnia è una terra ancora inginocchiata dalla guerra anche se la guerra è lontana, dietro le porte chiuse del secondo millennio. Ogni paesino nel cantone di Una-Sana gronda di questo passato violento, che graffia il presente, lo strattona, lo costringe a ripiegarsi: Lorena rallenta incredula mentre con la macchina costeggiamo il mercato di Bihac, il segno di un commercio elementare, senza carte di credito e scontrini, di fiori di campo e di pezzi da ricambio di vecchie biciclette. I venditori siedono a terra agli angoli delle polverose strade di paese.
Risaliamo un piccolo versante, ci lasciamo indietro quella città colma di lapidi nel mezzo dei giardini. Alle nostre spalle Bihac non sembra più il paese dei migranti che si inerpicano nei boschi per tentare un confine mortale; all’improvviso ci appare come una città di per sé stessa, che rilutta e si affanna come tante città la cui pace è stata messa alla prova tante volte nel corso della storia. Tetti, pareti non intonacate e cielo. Non lontano, le montagne che portano al confine croato. E i ragazzi del Krajna Metal, degli squat, del Dom sgomberato.

I campi da calcio costeggiano il più grande supermercato di Bihac. Vediamo giocare tante teste bionde. Chissà com’è giocare a calcio per i ragazzi di qua. Chissà se si ripetono gli stessi schemi quando un gruppo di ragazzetti bosniaci si raduna per giocare una partita di calcio. A fine partita, oltrepassano il cancello e tornano a casa. Poco distanti, sul bordo del parcheggio delle auto di questo supermercato gonfio, esuberante, vediamo i primi ragazzi migranti, giovani ragazzi del Pakistan che vivono la loro quotidianità opaca sul ciglio delle strade, tra i parchi di Bihac, sotto il ponte del fiume Una. Il nostro lavoro è anche osservare quei volti, coglierne la stanchezza e la rabbia – molta rabbia. I ragazzi del game non sono ragazzi da compatire, soggetti verso cui provare pietà, ma uomini che vivono le loro ordinarie disperazioni, che giocano al telefono per ammazzare il tempo, che fabbricano sigarette col tabacco fresco, che fanno un cerchio per giocare a pallone all’entrata del Krajna Metal, che ridono e aggirano con le loro espressioni insondabili tutti i nostri sguardi; spesso li sentiamo rispondere in modo cinico, diciamo loro “Inshallah!”. La loro espressione ci sfida, ci prende in giro. Non credono che passeranno mai quel confine, o forse si domandano se abbiamo il diritto, noi privilegiati dell’Europa, di appropriarci della loro speranza. Il contatto con questo mondo è senza filtri e senza autorizzazioni, ci turba per la carnalità di quanto accade, una carnalità che si dà senza mediazioni formali, senza permessi. Il contatto con questo mondo mette fuori gioco i diritti. Le nostre costituzioni non arrivano a pronunciarsi sui ragazzi che camminano su questa terra, che vediamo qui, su questo confine, con queste scarpe e questi piedi, con tutta l’inequivocabilità dei loro corpi. Questi corpi e questi piedi ci introducono alla loro quotidianità tra le mura diroccate del Krajna Metal, la fabbrica abbandonata di Bihac, o della bangladeshi forest sul versante scosceso di quella montagna appena fuori da Velika Kladusa.

Photo credit: Nicola Franchini
Photo credit: Nicola Franchini

Il mondo migrante, tagliato fuori da quello della città, rappresenta un livello ulteriore delle politiche fallimentari del cantone di Una-Sana, e del governo centrale della Bosnia, e dell’Unione Europea. Silvia ci accoglie con un sorriso stanco, la sua carica di sarcasmo si srotola nel corso della serata. Il suo lavoro in Bosnia risale a quegli anni lì, quando la guerra aveva rovinato tutto e quella terra era in ginocchio. Poi la Bosnia è diventata terra di migranti, e il cantone di Una Sana uno dei più grandi colli di bottiglia per l’Unione Europea. Allora è tornata in Bosnia per loro. L’espressione è quella mordente di una donna forte, forte abbastanza da saper ironizzare sul dolore di cui si sta facendo carico, sulle contraddizioni dei sistemi di potere e anche sulle sue stesse debolezze. Alla fine della cena ci parla della rakjia, la vodka bosniaca. Ne shottiamo una insieme a lei, ci beviamo quel pezzetto di Bosnia che ci ha raccontato. Il cammino che abbiamo intrapreso, con la guida e l’esperienza di Lorena e Gian Andrea, pullula di persone che come Silvia stanno giocando un gioco all’altezza del game; e nella dedizione e nella costanza di questa sfida si rendono degne di guardarli in viso, di accoglierli tra di loro. Ci sono Anela e Zemira, la bellissima Zehida; ci sono i ragazzi di No Name Kitchen, un gruppo brillante, che ci travolge come un uragano. Ci invitano a salire sul loro van sgangherato per le distribuzioni del giorno. Li seguiamo in quel vortice che non si spegne. Riuscire a sentirsi all’altezza di un simile gioco è difficile. Spendersi a tempo pieno per la causa dei migranti è difficile, significa ricodificare il modo in cui viviamo la socialità, significa cercare ogni giorno la vitalità in ogni angolo, e orientare da cima a fondo la propria vita per adempiere a quel progetto di inclusione. Zehida, del gruppo Udruzenje Solidarnost, torna a casa tardi la sera; nelle sue giornate, distribuzioni di cibo e di vestiti. Che ci sia la neve o il sole. La dedizione di queste persone è il vero gesto politico che percepiamo in Bosnia. Tutto il resto sono moti provvisori: lo sgombero periodico degli squat e delle fabbriche abbandonate; lo smantellamento dei campi, la riapertura dei vecchi o l’apertura di nuovi.

Photo credit: Nicola Franchini
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Un’immagine: la preghiera islamica della sera che risuona per le strade di Velika Kladusa. Nel silenzio sacro di quel paesino arroccato nelle proprie case, una carovana sta battendo la nostra strada. Sono famiglie migranti respinte dalla polizia sul confine. Quel confine, che a Kladusa si può scorgere in tutta la sua fisicità, oltre i profili aguzzi delle montagne che ci abbracciano. Il confine, da cui sono giunti qui, sotto i nostri occhi, con la sola forza delle gambe. Gli andiamo incontro. E ricomincia tutto.
Simon tira fuori il cellulare, Elena lo segue, parlano tra di loro, si ingegnano per farsi venire in mente un luogo. L’Elicopter Place è pieno, e comunque dovrebbero pagare una somma per poterci stare. Forse la factory. Gli scorsi giorni era vuota: chi ci si era appoggiato è partito per il game. La factory dista almeno cinquanta minuti a piedi da qui, dovranno rimettersi in cammino subito. Distribuiamo dei datteri perché danno forza.
In mezzo a quel canto per Dio, sotto il cielo scuro di un paese che dorme, una carovana di persone si affida ai nostri consigli. I ragazzi di No Name Kitchen li salutano e si rimettono in groppa al loro van. La danza di dolore e di vita che assecondano corre più lontano di qualsiasi preghiera, di qualsiasi rito sacro.
Il gioco della palla è un rito in questi immensi campi pieni di verdi diversi. A Lipa i ragazzi giocano ad uno strano cricket su un pezzetto di terra. Alcuni sono bravissimi. Quella pallina viene lanciata lontano, contro il cielo.
Come il pallone del Krajna Metal. Le loro traiettorie sfidano gli schemi di morte delle politiche europee e cercano il guizzo di una nuova vita. La seconda sera, una ventina di loro si sono alzati in piedi, gli zaini in spalla. Hanno chiuso gli occhi con i palmi delle mani verso il cielo e hanno pregato di vincere il game.

Rossella Marvulli

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III

C’è un gioco che faccio con un mio amico ogni volta che termino un viaggio. A turno pensiamo a tre parole a testa che descrivano in modo più completo possibile le sensazioni vissute. Bene, le mie parole per questa esperienza in Bosnia che ho appena concluso sono: allucinazione, Babele e movimento. Cercherò di spiegare il perché di ognuna di esse.

Il mio primo impatto con la realtà degli squats, e di tutte queste persone abbandonate a loro stesse è stato a dir poco allucinante. La natura disumana a cui sono costretti a piegarsi i ragazzi e gli uomini dimenticati che cercano rifugio al Krajinal Metal di Bihac sembrano frutto di un disegno di mondo che solo un dio sotto effetto di sostanze psichedeliche può creare. Così come le peripezie e le assurdità che colpiscono tutte quelle famiglie allo sbando, che alla ricerca di una stabilità si ritrovano invece a dover vivere nei boschi, braccate dalla polizia. O ancora, è stato incredibile incontrare un bambino costretto a dover abbandonare la sua casa a dieci anni, e ritrovarsi quindicenne, ancora bloccato in viaggio, privato della sua adolescenza, obbligato a essere un adulto.

Eppure, la realtà è che non c’è nessun dio ubriaco che crea queste situazioni a caso o per errore. Non c’è nessuna catastrofe naturale che costringe tutti questi migranti a rimanere bloccati in Bosnia a vivere in condizioni disumane. No, questa miseria è tutta frutto di un ben preciso piano politico, di decisioni prese consapevolmente, per un mero tornaconto personale. E’ la politica di non accoglienza europea, quella che finanzia la polizia croata affinché compia respingimenti brutali, con cani, droni e bastonate a tutti quei migranti che vengono braccati ogni giorno nel tentativo di raggiungere la terra agognata. Ed io, durante la mia permanenza in Bosnia, continuavo a ripetermi la parola allucinante tra me e me, quasi come un tentativo di nascondermi dal fatto che invece tutto questo è frutto di un piano lucido, consapevole.

Photo credit: Nicola Franchini
Photo credit: Nicola Franchini

Uno degli aspetti più affascinanti di questa esperienza è stata l’estrema mescolanza di culture, lingue e popoli in quel piccolo fazzoletto di Bosnia nord-occidentale. Una vera e propria Babele. In soli sei giorni abbiamo interagito con afghani, pakistani, bengalesi, siriani, palestinesi, iraniani, marocchini, algerini, ognuno di essi con la propria cultura, le proprie radici, la propria lingua. Abbiamo ascoltato pashtu, urdu, dari, farsi, bengalese, arabo e chissà quali altri idiomi. E ad incontrare queste lingue che evocano posti esotici ed irraggiungibili c’erano le nostre, forse più familiari, ma testimoni della ricchezza delle nostre terre: italiano, bosniaco, francese, tedesco, spagnolo.

Questo crogiuolo di culture però evocava sentimenti diversi dal caos della Babele biblica. Più volte ho percepito un linguaggio universale, fatto di sguardi, movimenti, sensazioni. Non era necessario capire le parole di conforto che un ragazzo stava dando al suo amico in preda a forti dolori addominali, forse un’appendicite. In quel momento, l’amicizia si percepiva, come sentimento trasversale, indipendentemente dalla cultura. Il sentimento di amore e preoccupazione che ho visto in una madre nei confronti della figlia malata non aveva bisogno di spiegazioni. L’energia che si è sprigionata al culmine della preghiera prima della partenza per il game è ben più forte di qualsiasi discorso di incitamento si possa fare a voce alta.

Vivere per qualche giorno in questa Babele, mi ha rinfacciato tutti quei discorsi che ci piace fare, qui in Italia, sull’uguaglianza tra uomini. Ma invece di essere trasmessa con vuote parole al vento, è stata una sensazione viva, pungente. Il miglior modo per ricordarci che alla fine abbiamo tutti le stesse preoccupazioni e necessità, declinate diversamente solo in base all’ambiente che ci circonda. Che in fin dei conti, l’unica cosa che ci differenzia è quel blocchetto di carta chiamato passaporto, un privilegio che mi permette di fare Bihac-Trieste in poco più di quattro ore.

E questo viaggio mi ha ricordato l’importanza del movimento, proprio come azione precisa per non fermarsi, per non rassegnarsi mai. Il continuo tira e molla del game è l’esempio più esplicito ma non è l’unico. Per riprendere gli insegnamenti di Eraclito, il movimento è vita, ed è tanto più ricca quanto più il movimento è estremo. Come è venuto fuori durante una delle cene del viaggio, la nostra vita europea, borghese, è piatta, quasi priva di ostacoli. Molto spesso è una non-vita. Catapultarsi in una realtà come quella della Bosnia invece rende evidente la tenacia necessaria per non mollare di un millimetro. L’epopea del migrante è di movimento continuo. Abbandonare tutto, la propria casa, i propri amici, i propri problemi e le proprie debolezze nel desiderio di poter giungere a una vita agognata è ciò che spinge a muoversi. O almeno, è ciò che romanticamente tendiamo a credere.

Probabilmente il tema del movimento è quello che mi affascina di più di tutta l’esperienza del migrante perché lo sento molto vicino alla mia esperienza personale. Pur avendo una vita molto più piatta e privilegiata, mi sento di provare anche io un’incertezza verso il futuro, non sapendo se, ma soprattutto dove riuscirò mai a piantare delle radici. Essendomi scelto una vita errante, provo curiosità e moltissimo rispetto per chi si ritrova obbligato a dover declinare questo stile di vita nella maniera più estrema di tutte.

Con queste tre parole ho cercato di spiegare nel modo più completo possibile le emozioni che mi sono state suscitate in questi giorni in Bosnia: rabbia verso la gestione della situazione, curiosità nei confronti di culture diverse ma uguali, rispetto per chi ha preso una scelta così folle e allo stesso tempo ricca di vita.

Nicola Franchini

Photo credit: Nicola Franchini
Photo credit: Nicola Franchini

Il nostro contributo

Il nostro contributo, come volontari indipendenti, si basa sulla raccolta fondi attraverso una rete pubblica di donatori.
Parallelamente al nostro viaggio in Bosnia, in questi mesi del 2021 abbiamo sostenuto volontarie e Associazioni con cui collaboriamo in base a dei protocolli controfirmati da entrambe le parti, con una somma complessiva di 33mila e 500 euro. Questo capitale è stata impegnato nell’acquisto di cibo, generi di prima necessità, pannelli fotovoltaici (progetto in collaborazione con Missioland) e sostegno per attività di integrazione tra migranti e popolazione locale (progetto in collaborazione con Ass.ne Udruzenje U Pokretu).
Grazie alle donazioni ricevute, in questo viaggio di maggio 2021 abbiamo potuto supportare i migranti dispersi negli squat e nelle tende di plastica con una somma di 8 mila euro.
Aderendo al progetto “Health on the Move” di NNK, abbiamo sostenuto spese mediche per 3.190 fra cui l’acquisto di un apparecchio acustico ad un ragazzo a cui la polizia croata lo aveva sottratto dopo averlo catturato in “game” (post NNK in FB del 19 maggio 21), e spese dentarie ad un altro ragazzo.
Per la prima volta, inoltre, abbiamo collaborato finanziando i voucher o buoni pasto presso piccoli negozi locali. In questo caso i migranti possono rivolgersi acquistando cibo secondo un tetto prestabilito di spesa e/o un progetto personalizzato.

Materiale sanitario

Abbiamo distribuito ai migranti materiale sanitario di prima necessità: betadine, bende autoadesive, cerotti, voltaren, sciroppi, disinfettanti, pomate e creme antibiotiche consegnando invece alle volontarie parte di altri presidi sanitari per gli interventi di “emergenza”.
Tutte le spese sono rendicontate nella relazione economica a disposizione dei donatori assieme alle relative ricevute.

N.B. Tutte le spese relative ai nostri viaggi, comprensive di vitto, alloggio, carburante, sono sempre state esclusivamente a nostro carico.

Linea d'Ombra ODV

Organizzazione di volontariato nata a Trieste nel 2019 per sostenere le popolazioni migranti lungo la rotta balcanica. Rivendica la dimensione politica del proprio agire, portando prima accoglienza, cure mediche, alimenti e indumenti a chi transita per Trieste e a chi è bloccato in Bosnia, denunciando le nefandezze delle politiche migratorie europee. "Vogliamo creare reti di relazioni concrete, un flusso di relazioni e corpi che attraversino i confini, secondo criteri politici di solidarietà concreta".