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Il report del XXI viaggio in Bosnia (30 luglio – 3 agosto)

a cura di Linea d’Ombra ODV

Foto di Linea D'Ombra

Dopo ventun viaggi, il cantone Una Sana è diventato un luogo familiare. Ma resta un mondo estraneo. È il paradosso della nostra condizione di attivisti ‘europei’: siamo sempre al di qua del confine, anche – e di più – quando lo attraversiamo (anche ora che, da denunciati, siamo controllati e perquisiti).
Un mondo estraneo, nella sua doppia valenza: il territorio dei migranti e il territorio dei bosniaci, uniti e separati, entrambi, migranti e bosniaci, ci sfuggono anche quando crediamo di conoscerli.
Dobbiamo sempre tener presente l’estrema complessità del rapporto con i migranti: la nostra distanza da loro che ci porta a proiettare illusioni, speranze, velleità. Un momento di deludente verità è accaduto presso le tende afgane di Kladuša, quando abbiamo portato giochi per bimbi non sufficienti per tutti, provocando uno scontro fra madri per i loro figli. Ciò che il giorno prima sembrava una comunità di villaggio si è scisso in contrapposti gruppi familiari.
Queste esperienze non devono essere vissute come delusioni, ma come passi di comprensione di una realtà estremamente complessa e sfuggente a troppo facili e gratificanti schemi di lettura. Stiamo camminando dentro un mondo più complesso della nostra capacità di comprendere ed agire: dobbiamo esserne consapevoli, continuando il nostro percorso di solidarietà attiva contro l’inaccettabile violenza del sistema confinario.
Un altro spunto di riflessione è il carattere cangiante e insieme immobile della situazione bosniaca: a Bihac, i grandi squat come i ruderi di Kraina metal e Dom pensjoneri sono vuoti e controllati, mentre migranti, magari appena respinti dal game, passano per il centro della città, fra i turisti in cui spiccano le nere figure delle donne saudite; stanno nel parco centrale, dove noi li curiamo, di fronte al placido scorrere del fiume. In altri momenti il centro cittadino era molto più controllato. Molti dei ragazzi con cui parliamo sono stati al campo Lipa, che, fra colline solitarie, dovrebbe raccogliere tutti i migranti del Cantone, gestito dal governo con soldi europei e l’assistenza dell’IOM. Di fatto, ciò non accade e intorno alle due cittadine principali e in altri luoghi continuano a vivere campi autonomi e squat. La regia dei governi, centrale e cantonale, non sempre d’accordo fra loro, sembra procedere a impulsi.

In estate, poi, la valenza dei confini si esaspera. Di questi confini: nati da una guerra atroce e oggi, in questa estate post covid – ma non si sa quanto post… -, attraversati da lunghissime fili di auto di turisti bramosi di recuperare un po’ di ferie perdute e, invisibilmente, da gruppi di migranti che si giocano tutto.
Lo Stato appare in ciò che lo caratterizza: il controllo, l’identificazione…
Il turismo è una delle stigmate del nostro modo di vivere: falso, anzi distruttivo rapporto con la natura, bisogno di normalità, cioè, come dice la parola, di norme, di sicurezza. La vacanza, con la sua ricerca di tranquillità e di una serenità consumistica, ne è una dimensione tipica.

Arriviamo a Kladuša nella serata del 30 luglio dopo un viaggio di 10 ore nella congestione turistica.
Il giorno dopo, sabato 31 luglio, incontriamo in giro molti migranti respinti dal “game”, dal passo stanco, diretti in qualche luogo nascosto in jungle, estranei alla cittadina in festa, colma anche dei suoi propri migranti in vacanza a casa. 
In un passaggio al grande supermercato riconosciamo alcuni ragazzi dei viaggi precedenti, che cercano di raccogliere qualche soldo: ci mostrano le cicatrici che deturpano i loro corpi.
Andiamo, poi, all’ex macello luogo di assistenza e incontri dei nostri primi viaggi, dove No Name Kitchen aveva costruito le docce.
Troviamo circa una ventina di persone tra afgani e pakistani, fra cui quattro indiani. Curiamo le loro ferite: numerose quelle da manganelli. Sono giovanissimi, hanno occhi teneri, tattili, pieni di calore. Non c’è rabbia nelle loro parole, ma una sorta di stupore per essere trattati così.
Ci dicono che li supporta, minimamente, l’IOM.

A metà pomeriggio ci ritroviamo con NNK per andare all’hangar dell’elicottero. La scena ha un che di ancestrale: decine di uomini e ragazzi, chi si prepara per il game, chi è stato respinto.
Appaiono due madri, conosciute a maggio, le quali ci riferiscono di essere state catturate in Croazia, separate dai figli piccoli che sono stati deportati in un centro per minori non accompagnati, mentre loro sono state rigettate in Bosnia. Partiranno di nuovo, tentando almeno di ricongiungersi con i bimbi fra i cinque e i dieci anni, da cui sono state brutalmente divise.
Arriva un capofamiglia sollecitandoci a portare cure in una piccola tendopoli di afgani nascosta fra i campi di grano. Troviamo un gruppo familiare pieno di bambini piccoli. Hanno tutti la scabbia, quella che procura piaghe dolorose di uno due centimetri.
Siamo poi sospinti verso un’altra tendopoli dove altre madri chiedono aiuto. Giungiamo in un prato e troviamo l’indescrivibile. Una bimba sui cinque anni costretta in una carrozzella. Le braccia e il torso ricoperti da bendaggi. Il martedì precedente le era scoppiata addosso una scatola di tonno surriscaldata vicino a un fuoco, procurandole gravi ustioni. Alcuni bosniaci, sentendo le urla strazianti provenire dal campo, avevano chiamato l’ambulanza che era accorsa trasportando il bimbo all’ospedale di Kladuša.
Da qui, la bimba viene trasferita a Bihac dove DRC (Danish Refugee Council, stipendiata con soldi europei per la cura dei migranti) pare abbia pagato le cure sanitarie per tre giorni, o almeno così ci è stato riferito. Infatti, il sabato alle 9.30 del mattino, non essendoci più copertura economica, la bimba viene dimessa. Con sorpresa anche dei volontari di NNK, la ritroviamo nel campo con le bende incrostate addosso.
Consapevoli che quelle ustioni necessitano di ambiente sterile per essere curate, cerchiamo di capire, di valutare e chiamare chi potrebbe portare aiuto.

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Il pomeriggio non basta a curare altri bimbi, altre famiglie, tutte devastate da scabbia. Un uomo di circa 35 anni ci racconta la violenza del suo respingimento che gli ha fatto saltare addirittura l’impianto dentario e quasi accecato un occhio. 
Una donna, moglie di un infermiere, ci mostra gli ematomi procurati dai manganelli. Ci troviamo davanti situazioni ben note, ognuna sempre nuova e diversa nello sguardo di chi ce la mostra.
Al calar del sole ci portiamo al negozio-ritrovo di Dario, frequentato da moltissimi ragazzi, soprattutto magrebini, ognuno con la sua storia, ognuno con i suoi sogni infranti e l’esperienza violenta dei respingimenti. 
Domenica 1° agosto, dopo un ulteriore incontro con NNK, decidiamo di ritornare dalla bimba ustionata e dalle altre famiglie che ci aspettano per le medicazioni. Passiamo prima nei supermercati dove ci eravamo sempre rivolti, per comperare giochi, pennarelli, matite, fogli da disegno e palloni. Riempiamo i carrelli ma, alle casse, scopriamo che non possono rilasciarci la fattura come le altre volte.
Stupore, nervosismo, rabbia, nessun argomento è sufficiente. Dobbiamo mollare la merce. Riproviamo in un supermercato cinese. Nulla da fare neppure lì. Non riusciamo a capire, e comunque siamo costretti a ripiegare al Sudo Luka dove il mattino precedente avevamo fatto una spesa importante. Hanno pochissimo materiale ludico ma non c’è scelta.
Ritorniamo al campo degli afgani dove la bambina ustionata pare più tonica, ma le sue condizioni ci appaiono orribili. Con la manina sana cerca di mangiare una pagnotta di pane, le bende sono incollate alla pelle tanto da essersi fuse e la loro rimozione appare già come qualcosa di estremamente doloroso. Rischia la sepsi. Telefoniamo, cerchiamo gli aiuti necessari fra i nostri contatti ma dobbiamo ammettere la nostra impotenza. I medici volontari presenti nel territorio di Kladuša sono occupati in altre tragedie, DRC non lavora nel week end, NNK non ha medici nel suo team, la famiglia di 8 persone non è collaborante. Solo i giochi che portiamo sembrano fare breccia e scalfire la diffidenza. Ci mostrano, su nostra insistenza, il documento di dimissione dall’ospedale, trascrivono su un foglio di carta i loro nomi. Facciamo subito un appello che inoltriamo a vari interlocutori che rapidamente cercano di attivare l’eurodeputato Bartolo e il ministero della Sanità.
Nessuno fra loro parla una lingua europea e sembrano combattuti nel fidarsi di noi. Non riusciamo comunque a smuovere la situazione e sperimentiamo una grande impotenza.
Nel frattempo, altre famiglie afgane ci strattonano per portare aiuto ai loro bimbi o alle donne o ai loro uomini. Ci occupiamo di neonati devastati dalle punture d’insetto, altri con allergie importanti che tormentano i loro piccoli corpi. Gli uomini riportano quasi tutti i segni dei manganelli, distorsioni, ginocchia inabili. Pare che i colpi inferti dalla polizia croata abbiano qualcosa di scientifico poiché colpiscono esattamente le ginocchia, polsi e gomiti in modo che gli arti siano invalidati.  Le donne, invece, hanno piedi con vesciche ma soprattutto, domina la scabbia quella con vaste piaghe purulente in ogni punto del corpo.
Quando ce ne andiamo, alle 4 del pomeriggio di domenica, la bimba ustionata è in mezzo al prato sotto l’ombra di un grande albero. Non possiamo fare nulla, nessuno è venuto a curarla nonostante promesse velate. L’appello resterà inascoltato sino alla fine del week end quando DRC, lunedì 2 agosto, riprende il servizio e ricomincia a occuparsi del “caso”. Un caso divenuto tale poiché in Italia, grazie a persone solidali, è intervenuto l’eurodeputato Pietro Bartolo e ‘addirittura’ il ministro Speranza! L’ambasciata italiana a Sarajevo è ora in contatto con le autorità locali di Bihac dove, dal 1° agosto, la bimba è stata trasferita al Borici assieme alla famiglia di 8 persone. Ha ustioni di secondo grado A e B. Ha patito due giorni tremendi in mezzo a un prato spazzato dal vento, senza acqua ma, ora, almeno, le sono garantite le cure di base.

Lasciamo Kladuša e ci trasferiamo a Bihac nella tarda serata di domenica dove troviamo vuoti di migranti il principale squat, il Metal kraina, ma anche altri più piccoli, con i nastri gialli dei divieti. 
Dedichiamo lunedì 2 agosto ad Amir Labbaf e alle cure dei migranti nel grande parco sulle rive del fiume, facendoci accompagnare da Elena K., a sua volta profuga e volontaria tra i profughi, che meglio di chiunque conosce i migranti, i punti di ritrovo, i loro bisogni, i pericoli da evitare.
La serata si conclude con l’incontro con il collettivo dell’alto vicentino giunto a Bihac il giorno precedente.
Martedì 3 agosto è il nostro ultimo giorno di permanenza in città. Vorremmo ritrovarci con NNK di Bihac, operare assieme come avvenuto nel viaggio precedente. Dobbiamo invece prendere atto che il turnover dei volontari non consente sempre di predisporre le cose come le avremmo desiderate. La spesa non è stata organizzata, la valutazione dei bisogni neppure, per cui concordiamo tutti assieme di lasciare la donazione programmata dietro ricevuta di NNK.
La giornata è segnata dal bell’incontro con IPSIA e con Anna Permondo, presidente dell’associazione “Per un mondo migliore” che sta dipingendo la sede di U Pokretu con i suoi murales.
Infine, proseguiamo con altre cure per ore intere. Un mondo di ragazzini, poco più che adolescenti, respinti dal game, si mettono in fila per avere una benda, una crema, una pastiglia antidolorifica.
Ricorre la parola “fame”, hanno tutti molta fame. Distribuiamo banane, pane, cibi energetici ma sappiamo che la fame è profonda, e dopo il primo assaggio tornerà a farsi sentire. Non abbiamo scarpe per tutti.  Notiamo un ragazzino che ci guarda senza chiedere nulla. È stato respinto dal game proprio oggi. Abbiamo un ottimo paio di scarpe numero 40, troppo grande per lui. Un attimo di silenzio, poi un ampio sorriso.
La serata continuerà con altre ore di cura, ma il momento più alto e conclusivo di questo viaggio, è stato lui, questo adolescente dagli occhi teneri che per un paio di scarpe sembrava aver ripreso vita.

Nel ritorno in Italia, dobbiamo ancora constatare che ormai la nostra presenza è segnalata e controllata, sia al confine bosniaco-croato, dove ci fanno un piccolo interrogatorio, sia a quello croato-sloveno, dove la nostra automobile viene fatta parcheggiare in disparte e perquisita.

Il piccolo territorio fra Kladuša e Bihac, con i suoi fiumi e i suoi boschi, le sue cittadine e paesi che mostrano ancora le tracce della guerra degli anni Novanta del secolo scorso, con i diffusi accampamenti di migranti, è un concentrato della situazione del mondo di oggi.
Il viaggio in Bosnia è sempre denso di quell’esperienza emotiva che è difficile articolare in parole e concetti. Una dimensione caratteristica dell’attività politica in questi anni è proprio questa: ci troviamo di fronte a qualcosa che ci sfugge, che va oltre le nostre capacità di comprendere e agire.
Non possiamo far altro che accettare questa dimensione, starci dentro e continuare un impegno che dura ormai da oltre cinque anni, coinvolgendo tutta la nostra vita.

Rapporto economico
Il nostro contributo, come volontari indipendenti, si basa sulla raccolta fondi attraverso la rete pubblica di donatori.
Parallelamente al nostro viaggio in Bosnia, dai primi mesi dell’anno 2021 abbiamo sostenuto le associazioni con cui collaboriamo (in base a dei protocolli controfirmati da entrambe le parti), con una somma complessiva di 45 mila euro che è stata impegnata nell’acquisto di cibo e generi di prima necessità.
Dopo il grande clamore suscitato dall’incendio del campo di Lipa, ed essendo il contesto nel Cantone Una Sana in continua mutazione, per noi è sempre molto importante saperci orientare riguardo ai Soggetti cui destinare le donazioni. In Bosnia l’aiuto è sanzionato per cui è essenziale orientare gli aiuti in modo che non vadano dispersi o non diventino oggetto di scambio al mercato nero. Con le donazioni ricevute, in questo viaggio di fine luglio-inizi agosto 2021 abbiamo potuto portare un contributo complessivo di 11.297,87euro. A Bihać come a Kladuša, assieme alle volontarie con cui collaboriamo, abbiamo destinato le donazioni per l’acquisto di cibo, scarpe e voucher spesa che i migranti possono spendere direttamente presso i negozi per potersi sfamare. Il tutto è regolarmente documentato con ricevute e fatture rilasciate dai vari negozi

Materiale sanitario
Abbiamo distribuito ai migranti materiale sanitario di prima necessità: betadine, bende autoadesive, cerotti, voltaren, disinfettanti, consegnando invece alle volontarie parte di altri presidi sanitari per gli interventi di “emergenza”
Tutte le spese sono rendicontate nella relazione e a disposizione dei donatori assieme alle relative ricevute.

N.B. Tutte le spese relative ai nostri viaggi, comprensive di vitto, alloggio, carburante, sono state come sempre a nostro carico.

Linea d'Ombra ODV

Organizzazione di volontariato nata a Trieste nel 2019 per sostenere le popolazioni migranti lungo la rotta balcanica. Rivendica la dimensione politica del proprio agire, portando prima accoglienza, cure mediche, alimenti e indumenti a chi transita per Trieste e a chi è bloccato in Bosnia, denunciando le nefandezze delle politiche migratorie europee. "Vogliamo creare reti di relazioni concrete, un flusso di relazioni e corpi che attraversino i confini, secondo criteri politici di solidarietà concreta".