Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Mattino di Padova del 10 marzo 2007

Il voto ai migranti

Di Giovanni Palombarini

L’immigrazione è una delle questioni di maggiore delicatezza fra quelle che sono all’attenzione della nuova maggioranza di governo. Si parla molto di una nuova regolamentazione degli ingressi, del superamento dei centri di permanenza temporanea, della tutela di diritti essenziali quali quelli al lavoro, alla salute e alla casa.

Ed è auspicabile che si realizzi presto qualcosa. Si parla di meno dell’introduzione del diritto di voto amministrativo per i cittadini extracomunitari regolarmente residenti in Italia da qualche tempo.
Per la verità è possibile registrare qualche segnale positivo, come l’introduzione del principio secondo cui chi è titolare da molto tempo del permesso di soggiorno «può partecipare alla vita pubblica locale con le forme previste dalla vigente normativa» (decreto legislativo 3 del 2007): è una norma che legittima le iniziative di taluni enti locali in tema di consultazioni amministrative.
E’ inoltre prevedibile che il governo, in ossequio al programma, presenterà un progetto di legge per l’elettorato attivo e passivo in conformità di una convenzione di Strasburgo che risale addirittura al 1992. Verrà approvata la legge? A questo proposito vi è da registrare, oltre all’ostilità di qualche settore politico, una diffusa disattenzione che impedisce di affrontare con la necessaria lungimiranza un rilevante problema della «seconda modernità».
Si tratta infatti di ripensare i principi di libertà e uguaglianza in relazione alla rappresentanza politica in una società che sta diventando e in notevole misura è già una società multietnica. Si pensi. Se si riconoscesse il diritto di voto a coloro che risiedono regolarmente in Italia da cinque anni, oggi i nuovi votanti sarebbero 900.000, nel 2008, quando matureranno i cinque anni dalla regolarizzazione del governo di centrodestra, 1.500.000, nel 2011 oltre due milioni.

E’ evidente che qui il problema non riguarda più solo il singolo che vorrebbe votare, ma l’organizzazione della democrazia. Questa deve consistere anche nella corrispondenza fra governanti e governati, che però oggi tende progressivamente a mancare; infatti bisogna avere la nazionalità italiana, alla quale è legata la cittadinanza, per poter votare. Nel nostro Paese c’è una crescente percentuale della popolazione stabilmente residente che non solo lavora, produce e paga le tasse (e già dover pagare le imposte senza poter votare significa subire una prepotenza), ma che ha rapporti con gli altri, crea una famiglia, porta nuove culture.
Per i diritti politici la risposta continua a essere quella di una volta: chi non è cittadino non vota, e l’essere rappresentato a livello politico e amministrativo – cosa che ha palesemente a che fare con la libertà e con l’uguaglianza – non è cosa che lo riguardi. Eppure il mutamento è oggettivo. Una volta le comunità che si organizzavano a Stato si caratterizzavano per una sostanziale stabilità delle persone che ne facevano parte; usi, costumi, linguaggio, religione erano gli stessi, per cui aveva una logica la previsione dei diritti civili e politici derivanti dal dato cittadinanza/nazionalità.

Oggi tutto è diverso. Basti pensare che nel nostro Paese, dopo anni di tendenza al ribasso, l’andamento della natalità ricomincia a salire seppure di poco, solo per effetto della crescente presenza di persone extracomunitarie. Di fatto, viene messo in discussione lo stesso principio del suffragio universale, una grande conquista democratica. A questo proposito va detto che non è affatto necessaria una norma costituzionale per introdurre l’elettorato attivo e passivo. L’articolo 48 della Costituzione, che ha riconosciuto a tutti i cittadini, uomini e donne, il diritto di voto, a cominciare ovviamente da quello politico, non ha però posto alcun divieto; e non costituisce un ostacolo a che venga riconosciuto, a un livello inferiore di tutela (cioè con una legge ordinaria), il diritto di voto amministrativo a chi cittadino non è. Del resto, le costituzioni servono a riconoscere e promuovere diritti, non a stabilire divieti.