Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 5 settembre 2006

«Immigrati, la cittadinanza non basta»

Cinzia Gubbini

«Cominciamo col dire che andrebbe ridimensionata la portata della legge sulla cittadinanza proposta dal ministro Amato, che è molto giusta ma si limita a ridurre il numero di anni necessari per ottenere l’accesso alla cittadinanza e indebolisce parzialmente lo ius sanguinisintroducendo qualche elemento di ius solis».

Sandro Mezzadra, docente all’università di Bologna e tra gli esponenti più conosciuti del movimento antirazzista italiano, pur non disconoscendone il valore ridimensiona la portata del disegno di legge proposto dal governo per modificare la legge sull’acquisizione della cittadinanza italiana.

Eppure, se se ne parla tanto, il ddl deve aver toccato corde sensibili.
Infatti è interessante osservare come una proposta che non ha nulla di rivoluzionario abbia scatenato un dibattito così acceso. Interessante perché ci parla di quanto si sia indebolito e confuso il significato stesso della cittadinanza. Evidentemente questo dibattito interroga non soltanto gli stranieri, gli altri. Ma anche, e soprattutto, i cittadini. E questo è un elemento da valorizzare. Mi sembra che la discussione, per come è stata condotta fino a oggi soprattutto su alcuni giornali come il Corriere della sera, tenda a dare per scontato che la cittadinanza italiana sia qualcosa di consolidato, di sicuro, che ora viene messo in discussione. Io credo che le cose stiano in modo molto diverso. Negli ultimi due decenni un insieme di processi ampiamente discussi nei dibattiti teorici, politici, in Italia e a livello internazionale, hanno messo in discussione e destabilizzato il significato della cittadinanza nazionale.

Vuole dire che la cittadinanza italiana non ha più alcun significato?
Certamente ce l’ha: basti pensare a quanto è differente la condizione di uno straniero, magari irregolare, dalla nostra posizione di cittadini. Ma insisto sul fatto che il significato dell’appartenenza alla cittadinanza è stato messo profondamente in discussione da processi che hanno significati anche molto eterogenei. Pensiamo ad alcuni diritti che sono stati costituitivi del significato stesso della cittadinanza: quello alla privacy o i diritti sociali. Entrambi sono messi profondamente in discussione e destabilizzati. Contemporaneamente, però, ci sono anche processi di disarticolazione del significato della cittadinanza che hanno un segno differente, determinati cioè da pratiche di affermazione diretta di esperienza dei diritti di cittadinanza. Voglio dire che sono sempre di più quei diritti, da sempre costitutivi della cittadinanza, che oggi vengono garantiti più a livello transnazionale che nazionale.

Ad esempio?
Tutto lo sviluppo internazionale dei diritti umani degli ultimi anni, o la giurisprudenza delle corti europee. Questa è la situazione su cui vale la pena discutere. Una situazione che comporta dei rischi specifici ma che apre anche delle opportunità.

Ciò non toglie che, a livello nazionale, la convivenza con altre culture possa determinare conflitti di valori. Come risolverli?
E’ un processo lungo, e come tutti i processi determina conflitti che vanno accettati. Anzi, penso che la cittadinanza vada ripensata come terreno di conflitto ben più che come terreno di integrazione. E’ sbagliato pensare che la cittadinanza o la cittadinizzazione, come si usa dire con un terribile neologismo, sia la soluzione dei problemi legati all’immigrazione. Dobbiamo contrastare l’idea che questo conflitto si determini tra un noi italiano, europeo, occidentale compattamente unificato e un loro, gli immigrati, gli islamici altrettanto compattamente unificato. Perché altrimenti cadiamo nei deliri di alcuni commentatori che si immaginano la cittadinanza italiana un po’ sul modello dell’entusiasmo per la vittoria della nazionale italiana ai Mondiali di calcio. Oppure nei deliri, altrettanto gravi, di un Francesco Merlo che qualche tempo fa su Repubblicasosteneva che noi italiani trattiamo le donne come fragoline. Credo che siano cose da contrastare in termini culturali.

Insomma, non dobbiamo porci il problema di come conciliare le differenze?
Certo che ce lo dobbiamo porre. Ci sono degli standard universali che vanno affermati – e tra l’altro dovremmo riconoscere che sono tutt’altro che incontrastati in questo paese, a partire dai diritti delle donne, delle minoranze, degli omosessuali. Credo poi, però, che non esistano soluzioni predeterminate. E’ un lavoro lungo, impegnativo, difficile, di negoziazione della realtà quotidiana.

Qual è il ruolo della politica in questo contesto?
I processi di affermazione dei valori e dei principi che vogliamo presentare come universali non possono prescindere dalla mobilitazione, dalla rivendicazione da parte dei soggetti che sono parte in causa dei conflitti di cui stiamo parlando. Non possiamo imporre per legge la libertà delle donne: si può imporre il rispetto di alcuni principi formali che sono stati conquistati da un lungo processo di lotta e di mobilitazione, ma non attraverso un test di accesso. La verità è che se dentro le comunità non c’è un processo di mobilitazione e – necessariamente – anche di conflitto, che produca un cambiamento, si può fare ben poco. La politica può semplicemente accompagnare questo processo, proporre dei quadri generali di riferimento che rendano più semplice il dispiegarsi di questo conflitto. Evitando ovviamente che abbia esiti tragici.