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Da Il Manifesto del 2 febbraio 2008

Immigrati, ma senza Dna

«Gentile signor P.H., in merito alla sua richiesta di ricongiungimento familiare, sono emersi fondati dubbi sul vincolo di parentela… la invitiamo pertanto a sottoporsi a sue spese al test del dna». L’odissea di un cittadino del Burkina Faso che lavora da dieci anni nella provincia di Napoli è cominciata così, con questa lettera dell’ambasciata italiana ad Accra (Ghana) del febbraio 2006, per concludersi pochi giorni fa grazie a una sentenza della sezione civile «Prima Bis» del tribunale di Napoli, in cui si riconosce il suo diritto alla coesione familiare con il figlio malgrado l’esito negativo del test del dna.
Nel mezzo una guerra civile, quella in Costa D’Avorio, con un diciassettenne di Abidjan costretto a recarsi ad Accra per l’esame, perché l’ambasciata italiana nel suo paese era chiusa. E un probabile trauma familiare, acceso dalla violenza di un test e dal pregiudizio dei burocrati verso un figlio nato da una convivenza precedente al matrimonio dell’uomo. Come spiega l’avvocato Simona Fiordelisi dello studio Coccia «la sentenza ha riconosciuto la validità della documentazione anagrafica fornita dal genitore» e soprattutto conferma «che la famiglia è uno status civile prima che biologico». A confortare la decisione del giudice ci sono due sentenze della Corte di Cassazione del 1997 e del 2003 che attestano la «presunzione di veridicità» della certificazione anagrafica e soprattutto il fatto che il vincolo familiare è definito «in base alle norme civili del paese di provenienza», in applicazione della legge 218/95 sul diritto privato internazionale.

Quasi un caso di scuola rispetto alla pretesa, che potremmo definire postcoloniale, di normare e investigare su «cosa è una famiglia» in un altro paese del mondo. Ma quello di P.H. è soprattutto un caso destinato a fare rumore, perché di lettere come questa, in Italia, ne vengono spedite migliaia all’anno e prescindono dalle polemiche sulle coppie di fatto. Destinatari sono i genitori stranieri regolarmente soggiornanti che chiedono il visto di ingresso per i loro figli minori.

La procedura è quasi schematica: si parla di «fondati dubbi» sulla documentazione fornita senza specificare quali, si ammonisce sulla sospensione della pratica a tempo indefinito per effettuare imprecisati accertamenti e si invita a fare un «volontario» test del dna per fugare ogni incertezza. Test da effettuare presso le sedi internazionali dell’Oim (Organizzazione internazionale delle migrazioni) dietro il pagamento di 310 euro. E quasi tutti cedono al ricatto. Un dispositivo sperimentato inizialmente sui rifugiati dalla Somalia, la cui anagrafe era distrutta, e che dal dicembre 2005 una circolare del ministero degli esteri ha esteso a tutti i casi in cui la documentazione viene ritenuta «inaffidabile». Guarda caso in prima fila ci sono «i paesi ad alto rischio migratorio».
Cosi il controverso uso del dna nei ricongiungimenti familiari, che in Francia ha dato luogo a una legge e ad aspre polemiche, in Italia è stato semplicemente proceduralizzato con metodi kafkiani, per quello che è probabilmente un dispositivo europeo. Nella circolare del 2005 si fa infatti riferimento alla «forte sollecitazione» di Peter Schatzer, direttore dell’Oim per il Mediterraneo, individuando nella sede romana dell’organizzazione il punto di riferimento per i test, tecnicamente affidati a una società privata, la «Genoma SAS». Pietra angolare della procedura è il controverso regolamento attuativo della legge Bossi-Fini che affida alle ambasciate italiane all’estero il compito di «validare» la documentazione presentata dai migranti. Un concetto molto «ambiguo» secondo l’avvocato Mila Grimaldi, co-estensore del ricorso, «che parte da un pregiudizio strumentale sulla corruzione e l’inaffidabilità di questi Stati e in realtà dimostra come la repressione dei migranti sperimenti un nuovo e aggressivo modello di diritto privato internazionale». Ma ora sarà possibile per tutti opporsi in tribunale a questo trattamento.

Nicola Angrisano
Mediattivista InsuTv