Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

A cura di Raffaele Lelleri

Immigrati, omosessualità e HIV/AIDS

Tratto dal sito www.transisters.net

Accesso e fruizione delle risorse
Quali possibilità di accesso alle risorse presenti nel servizio sanitario e nella stessa comunità gay lesbica sono disponibili per i nuovi cittadini immigrati?
Vari studi rilevano una serie di deficit nelle modalità di fruizione dei servizi sanitari da parte di un certo numero di persone immigrate, che da questo punto di vista si trovano dunque in una condizione di relativa debolezza. I motivi sono diversi ed attengono a problemi di natura culturale, organizzativa, giuridica e informativa. Le disuguaglianze esistenti si fanno poi particolarmente evidenti in alcuni specifici casi, come quello dell’HIV/AIDS, a causa dell’interdipendenza tra riprovazione morale e razzismo e del soprappiù di equivoci potenzialmente presenti nel rapporto interpersonale tra operatore sanitario e utente immigrato. Tale status di fragilità si riflette spesso nella non-compliance al trattamento e, prima ancora, nell’accentuato ritardo – ricorrente in molti casi di pazienti immigrati – tra infezione e diagnosi.

Molto meno indagato è invece il caso dell’utilizzo del patrimonio di risorse – culturali, sociali, ricreative, relazionali, identitarie, di prevenzione – disponibili all’interno della comunità gay lesbica italiana da parte dei gay e delle lesbiche immigrati. L’impressione è che, da un lato, molte organizzazioni omosessuali scontino alcune difficoltà a rendersi conto dei cambiamenti in atto, e, dall’altro, che i gay e le lesbiche immigrati non abbiano ancora fatto ingresso, a pieno titolo, in queste realtà.
La stanzializzazione degli immigrati in Italia
Sia i dati demografici che quelli dell’archivio Arcigay confermano che la multiculturalità è una realtà già esistente.
Secondo alcune recenti analisi, la presenza straniera complessiva in Italia può essere stimata pari a 2.395.000 persone, ovvero il 4% sulla popolazione residente. Si tratta di un tasso di incidenza che vede allinearsi l’Italia alla media europea. Sebbene il nostro è un paese di recente immigrazione, il dinamismo nei nuovi ingressi è indubbiamente elevato ed i ritmi di cambiamento sono particolarmente accentuati. L’immigrazione italiana è altamente frammentata (i primi dieci aggregati nazionali accorpano solo il 51,1% di tutti gli stranieri residenti nel paese) e presenta dei processi di stanzializzazione oramai consolidati (Caritas 2002): la presenza delle donne sta per eguagliare quella degli uomini, si costituiscono e si ricongiungono famiglie, nascono bambini ed i figli crescono.

Anche l’archivio storico di Arcigay è in linea con questo quadro. Alcune elaborazioni, aggiornate al 2000, rivelano una situazione in parte imprevista: ben il 24,7% degli iscritti Arcigay risulta infatti straniero e proviene da 142 diversi paesi. Un iscritto su quattro non è quindi autoctono. Il paese di gran lunga più rappresentato sono gli Stati Uniti; seguono il Regno Unito, la Germania, la Francia, la Spagna ed il Brasile. L’afferenza geo-culturale dei soci storici non autoctoni è per lo più occidentale; vi sono del resto significative presenze anche dall’America Latina (corrispondenti all’8% dei non italiani) e dall’Europa dell’Est (4,6%). Il 21% è cittadino di paesi in via di sviluppo. Meno numerosa, ma comunque indicativa, la presenza di gay con cittadinanza di paesi di religione e cultura islamica (3,2%). Queste statistiche andrebbero approfondite ed incrociate con altre fonti, visto peraltro il carattere peculiare del sistema informativo di Arcigay. Rimane forte però il loro segno: chi sono questi gay? Cosa si aspettano dalla maggiore organizzazione omosessuale italiana? Come comunica Arcigay con loro?

Immigrati e HIV/AIDS
Al fine di progettare efficaci interventi di comunicazione e prevenzione, è opportuno decostruire tre falsi miti sul rapporto tra immigrati e HIV/AIDS (IOM 2001).
Il primo stereotipo è il seguente: i migranti sono particolarmente colpiti da questa patologia. Questa constatazione ha degli elementi di verità, ma occorre prestare attenzione a generalizzazioni troppo rapide, onde evitare stigmatizzazioni. È vero che i dati europei più recenti indicano che le infezioni HIV sono particolarmente concentrate tra i migranti, ma il problema è che sappiamo ancora troppo poco su questo argomento. Per quanto riguarda l’Italia, non sono disponibili informazioni accurate sulla diffusione dell’HIV tra le persone di origine non autoctona. Studi condotti a livello locale hanno mostrato un’elevata prevalenza di tale infezione in specifici sottogruppi, mentre altri sottogruppi fanno registrare dei tassi molto più limitati. Sebbene estremamente selettiva, un’altra fonte di informazione è il COA (Centro operativo AIDS), che riporta un incremento costante, nel tempo, della proporzione dei casi di AIDS conclamato tra gli stranieri. Nel 2000-2001, ad esempio, il 14,6% di tutti i nuovi casi di AIDS ha riguardato soggetti stranieri, a fronte del 3,4% registrato nel 1992-1993.
Nonostante i loro limiti, i dati disponibili suggeriscono che l’immigrazione, che non ha rappresentato una variabile di rilievo nelle prime fasi dell’epidemia, sta ora assumendo sempre più importanza.

Un altro falso mito recita che sono proprio i migranti a propagare l’HIV nei diversi paesi. Questo timore ha a che fare con l’archetipo dello ‘straniero untore’, che non ha però fondatezza epidemiologica. Al contrario, ci sono molte prove che è proprio nei paesi di destinazione che i migranti divengono più esposti e si infettano con l’HIV: non portano cioè l’infezione nel paese di accoglienza, ma la acquisiscono lì e poi la trasmettono, eventualmente, nella propria comunità di origine. È quanto sta accadendo, ad esempio, nei Balcani: secondo recenti statistiche, ad esempio, la stragrande maggioranza dei cittadini in AIDS in Albania ha contratto l’infezione all’estero. Di più: nel 2000-2001 è stata pari all’80% la quota, tra gli immigrati, dei nuovi casi di AIDS in Italia che si è infettata nel nostro Paese. Studi qualitativi rivelano come lo stress, legato allo sradicamento dall’ambiente di origine e dalle proprie sicurezze, e una nuova organizzazione della vita in condizioni difficili, possano predisporre maggiormente gli stranieri a comportamenti a rischio. In questo senso, il processo migratorio porta molto spesso ad un incremento del rischio HIV, in ragione di una serie fattori di vulnerabilità, come la necessità economica, la mancanza di potere, lo sfruttamento, il drastico cambiamento nelle condizioni e nello stile di vita, l’alienazione, la solitudine e la mancanza di protezione sociale, l’assunzione acritica di comportamenti altrui (magari tanto attesi, in quanto veicolati dai mass-media e/o esacerbati da una serie di frustrazioni determinatesi nel paese di origine) e la pressione dell’ambiente circostante. Il primo periodo di insediamento, in particolar modo, pare quello di maggiore fragilità. L’HIV tra gli immigrati non è pertanto una patologia importata, bensì una patologia acquisita; assume, di conseguenza, estrema importanza tutta la questione relativa alla comunicazione e alla prevenzione.

Il terzo falso mito afferma che i migranti sono particolarmente difficili da raggiungere con gli interventi di prevenzione AIDS. Questo può verificarsi a causa delle differenze culturali e di linguaggio o in ragione dello status legale dell’immigrato nel paese di accoglienza (v. gli immigrati in condizione giuridica di clandestinità). È comunque più corretto affermare che le persone migranti dovrebbero essere raggiunte attraverso canali almeno in parte diversi rispetto a quelli usati per gli autoctoni, con idee appropriate. D’altra parte l’esperienza insegna che all’interno delle comunità migranti ci sono sempre persone particolarmente sensibili a questi temi, che possono essere valorizzate come ponte verso la comunità intera, se il programma di prevenzione non è visto come accusatorio ma come una risorsa per il benessere di tutti.

Fare prevenzione HIV/AIDS con gli immigrati
Fare prevenzione HIV/AIDS con le persone immigrate richiede una serie di specifiche competenze culturali (IOM 2001); vale la pena di approfondirne, in breve, alcune, in quanto tale operazione può illuminare le dinamiche in corso anche in altri contesti.

Fare prevenzione HIV/AIDS con le persone immigrate significa innanzitutto tenere a mente due diversi aspetti: la riduzione del rischio e la riduzione della vulnerabilità. Il rischio è individuale ed indica la probabilità che un individuo possa infettarsi con l’HIV. Programmi di riduzione del rischio comportano dunque, ad esempio, la diffusione di informazioni e la semplificazione dei percorsi di accesso ai dispositivi di sesso sicuro (v. il preservativo). Il concetto di vulnerabilità è invece più collettivo, in quanto include le condizioni che incrementano la probabilità che le persone adottino comportamenti a rischio. Fattori di vulnerabilità sono la povertà, l’impossibilità ad avere con sé il proprio partner, la carenza di opportunità autorealizzative – ovvero le difficoltà di integrazione. Investire sul versante della vulnerabilità significa focalizzarsi sui diritti, sulla lotta alle discriminazioni, sul miglioramento delle condizioni di vita affinché le persone possano agire consapevolmente, responsabilmente e con soddisfazione. Il discorso sulla vulnerabilità va ovviamente integrato con quello sulle capacità di resistenza e di recupero, in modo tale da non disegnare gli immigrati alla stregua di soggetti meramente passivi. Al contrario, vanno presi debitamente in considerazione i comportamenti e gli atteggiamenti di salute che alcuni adottano in modo creativo per ridurre il proprio rischio e vulnerabilità, così da progettare delle campagne quanto più partecipate possibile.

Un altro elemento da esaminare con attenzione è la dicotomia tra progetti di prevenzione generali per tutta la popolazione e progetti di prevenzione orientati a specifici gruppi target. In molti propendono per questa seconda opzione, al fine di indirizzare e calibrare le attività sulle persone ed i gruppi a maggior rischio – reale o presunto; visto che le risorse sono limitate, si dice, è opportuno investirle dove c’è maggiore necessità. L’alternativa è di rivolgersi a tutta la società, cioè a ciascuno. Alcuni ritengono che, in questo modo, si riescono così a raggiungere le persone a rischio che non rientrano però in alcuno dei gruppi target teorizzati – vale a dire proprio le persone più vulnerabili. Altri motivano questa scelta affermando che essa non è stigmatizzante (esempio: “Vivi anche tu in questo paese e quindi, al pari degli altri, hai diritto alle stesse risorse di prevenzione garantite a tutti”) e che inoltre, informando tutti, essa prepara il campo per futuri interventi più specifici ed approfonditi. “È molto probabile che un programma di intervento contro l’AIDS per migranti basato solamente sulla loro maggiore esposizione al rischio – specialmente se il programma è proposto da soggetti esterni a tale comunità – venga percepito come accusatorio a quindi non accettato” (IOM & Cooperazione italiana 2001).

Infine, una questione chiave negli interventi di prevenzione HIV nei confronti dei cittadini immigrati è quella relativa all’accesso alle cure e al sostegno. Il primo passaggio obbligato è quello relativo all’accesso al test HIV, cui deve però seguire anche la garanzia, per le persone risultate positive, di un trattamento ragionevole. Rendere accessibile la cura è, seppur indirettamente, uno degli strumenti di prevenzione più efficace, perché incoraggia lo svelamento di situazioni di difficoltà e la ricerca di un aiuto competente.
La discriminazione multipla dei gay e lesbiche immigrati
Particolare cura va dedicata al caso dei gay e lesbiche immigrati, che rischiano infatti di subire una doppia discriminazione nell’accesso alle risorse: da parte del gruppo etnico di appartenenza, a causa del proprio orientamento sessuale, e da parte della società e della stessa comunità gay lesbica italiana, in ragione della loro origine etnica. Quella forma di solidarietà che molto spesso si innesta tra ‘simili’ rischia, infatti, nel loro caso di venire meno, visto l’intrecciarsi di diverse situazioni. Non vi sono ancora studi specifici in questo ambito, che rimane per lo più invisibile e circoscritto nella sfera del privato, con un portato di solitudine e di frustrazione che può divenire insopportabile.

È evidente che la presenza di gay e lesbiche immigrati è destinata a cambiare, incrementane la complessità, le prospettive sia delle comunità di origine che di quella gay lesbica italiana. Per certi versi nulla può essere come prima: le culture si meticciano, gli individui si differenziano e globalizzano allo stesso tempo, assimilano codici innovativi.

Per combattere la discriminazione, è necessario affrontare consapevolmente e con sensibilità interculturale sia il tema dell’omofobia di parte della popolazione immigrata che del razzismo di parte delle persone gay e lesbiche autoctone. Più in generale, si impone sempre più l’urgenza di impostare i propri interventi con un approccio orizzontale, che non prenda in considerazione cioè un unico tratto di personalità, ma che li coniughi ed intrecci tra loro, per comprendere a pieno la specifica situazione di ognuno e proporre servizi ed interventi individualizzati. Da questo punto di vista, l’emergere della comunità gay lesbica immigrata può fungere da occasione per gettare le basi di un cambiamento complessivo nello stile di intervento, che sappia incorporare esplicitamente – pensiamo innanzitutto alle organizzazioni omosessuali – anche le variabili, ad esempio, dell’età (gay anziani e gay giovani), dell’abilità/disabilità, dell’appartenenza religiosa (gay di fede islamica) e dello status socioeconomico.

Contesti particolari
Torna utile presentare ora, in breve, due studi di caso estratti dall’universo dei giovani maschi immigrati gay (è più opportuno definirli giovani immigrati ‘MSM’, cioè maschi che fanno sesso con maschi). Pur rimanendo valide, sullo sfondo, le riflessioni finora esposte, la situazione dei giovani immigrati gay balcanici e quella dei giovani immigrati sex worker meritano alcuni approfondimenti, data la loro peculiarietà ed il carattere spesso drammatico del loro recente apparire sulla scena italiana. (È opportuno chiarire che il fatto che i contesti selezionati abbiano in comune una sorta di natura ‘borderline’ non implica necessariamente che tutta la popolazione di riferimento condivida queste condizioni ‘estreme’).

Il caso dei giovani immigrati gay dai Balcani va inquadrato in quello della storia recente dei loro paesi (IOM 2002). Negli ultimi 10-15 anni, il sud-est europeo ha conosciuto cambiamenti repentini se non persino veri e propri conflitti. Questi mutamenti politici, sociali ed economici e la mancanza di stabilità hanno dato luogo a gran masse di sfollati nonché al deterioramento di molti aspetti della vita così come ad un incremento dell’incidenza dello stress sociale e delle condizioni post-conflitto, come l’abuso di sostanze, la malattia mentale e la violenza domestica. L’effetto combinato di questi fattori ha portato ad un cambiamento drammatico delle norme societarie e culturali, ad un significativo deterioramento negli standard di vita e, di conseguenza, ad un incremento dei fattori che facilitano la diffusione dell’infezione HIV. Le giovani generazioni risultano particolarmente influenzate da queste trasformazioni: la posizione che rivestono nella società è, da questo punto di vista, centrale, visto che il cambiamento li espone sia a nuove opportunità che a nuovi rischi – eccitanti e contemporaneamente pericolosi. Lo confermano alcuni studi, che evidenziano come i giovani balcanici adottino sempre più di frequente comportamenti a rischio, specie in termini di salute riproduttiva e sessuale. Al fine di comprendere meglio le condizioni di vita dei giovani immigrati gay dai Balcani, a questo quadro si devono poi aggiungere alcune aggravanti. Per quanto riguarda l’Albania, ad esempio, è significativo ricordare che fino al 1995 l’omosessualità era considerata un reato. Nonostante la de-penalizzazione, al giorno d’oggi la comunità gay locale è pur tuttavia ancora altamente discriminata e repressa sia dalle società che dalle autorità, a causa di un forte atteggiamento patriarcale di fondo. Gli omosessuali albanesi vivono per lo più in modo invisibile. Mancano informazioni attendibili, ma alcuni segnali indicano che non è per nulla adeguata l’attenzione nei confronti dei comportamenti di sesso sicuro. La situazione della Romania, con la sua tragedia relativa all’AIDS pediatrico, presenta varie somiglianze con quanto descritto per l’Albania: anche in questo caso i gay hanno molto spesso timore di vivere apertamente a causa dello stigma sociale e della passata legislazione che stabiliva, tra le altre cose, che “La relazione tra persone dello stesso sesso che avvengono in pubblico o che danno luogo a scandalo pubblico devono essere punite da uno a cinque anni di prigione”. Nessun dato è invece disponibile per le lesbiche, che scontano dunque un’imposizione di invisibilità ancora più vincolante.

Il secondo studio di caso riguarda i giovani immigrati sex worker maschi, le cui condizioni di vita sono state di recente analizzate nel corso di una giornata studio dal titolo evocativo “Faccio solo l’attivo!”, organizzata dalla Casa dei diritti sociali-Focus in collaborazione con la Cooperativa PARSEC e la LILA-Lazio (Casa dei diritti sociali 2003, da cui sono tratte molte delle citazioni che seguono). Quella dei giovani (talvolta minorenni) immigrati sex worker maschi è una realtà che esiste da tempo, specie nelle aree metropolitana del Paese, ma che ciononostante rimane difficilmente censibile e quantificabile. Diversi operatori stimano che questo fenomeno è in aumento, “innanzitutto perché [a Roma] sono aumentati gli arrivi dei ragazzi dall’Europa dell’est, soprattutto dalla Romania, dove la situazione dei minori senza famiglia è drammatica. Poi c’è un flusso di giovani omosessuali, provenienti dall’Albania, spinti a venire in Italia a causa della rigidità della cultura locale nei confronti dell’omosessualità. Per questi ragazzi l’Italia diventa il luogo dove possono esprimere la loro omosessualità, che all’inizio si configura attraverso la prostituzione su strada. Un po’ lo stesso meccanismo che si è verificato con i transessuali brasiliani”. Talvolta ai confini con le attività di furto, i prostituti non paiono presentare le caratteristiche di ‘tratta’ molto spesso presenti tra le donne. L’identità che ne emerge è quella di “ragazzi di strada, senza punti di riferimento familiari in Italia, molto spesso senza fissa dimora, con alle spalle storie simili di violenze, sfruttamento, deprivazioni materiali ma soprattutto affettive, ed un futuro incerto in cui la prostituzione rappresenta una delle strategie di sopravvivenza”. “La logica che li determina, e che non permette loro di trovare vie d’uscita, è strettamente legata alla soddisfazione dei bisogni primari e al raggiungimento di obiettivi legati alla moda corrente (maglie firmate, cellulari ultramoderni, palestra)”.

Per quanto riguarda i comportamenti di salute, “nessuno è a conoscenza dei servizi e delle strutture cui rivolgersi per chiedere informazioni sulla prevenzione dalla malattie sessualmente trasmissibili”. Inoltre, “per la maggior parte degli intervistati, l’AIDS è più una condizione morale, associata all’omosessualità e quindi alla passività, rispetto che una specifica patologia. Questo significa che se una persona non si identifica come omosessuale, ma si sente soggetto mascolino invincibile, si espone al rischio di infezione nel proprio ruolo di ‘attivo’. Molte persone usano il preservativo, ma i pochi che hanno ammesso di essere disponibili a rapporti passivi dicono che lo usano solo in questi casi, perché è in questi che si sentono ‘froci’, e quindi ammalabili. L’uso del preservativo risponde più al modo di sentirsi maschi che alle modalità di diffusione della malattia”; “tutti dicono di usare il preservativo, ma il modo in cui lo usano non li aiuta a proteggersi dal rischio di infezioni”. “Il fatto – infine – che non ci sia un’identità confessionale e sessuale, significa che se un’associazione gay si rivolge a queste persone, loro rispondono: “Ma vai dai clienti. Loro sono froci. Noi no”. Non c’è un contatto reale, quelli che ci hanno provato si sono sentiti molto rifiutati”.
Percorsi di miglioramento
Nel corso dei paragrafi precedenti varie suggestioni sono già emerse in merito ai percorsi di miglioramento da adottare in vista del prossimo futuro, sia con riferimento alla popolazione gay lesbica immigrata in generale che nei confronti di alcuni sotto-gruppi con specifiche necessità.

Prima di tutto, è necessario sviluppare ulteriormente la conoscenza del rapporto tra immigrati, omosessualità e HIV/AIDS. Ciò vale sia per le istituzioni sanitarie, che spesso tacciono l’orientamento sessuale nei loro interventi a favore degli immigrati, sia per le organizzazioni omosessuali, che, come si è detto, non paiono ancora sufficientemente caratterizzate in senso multiculturale. Tale conoscenza non può essere solo astratta o teorica, ma deve portare a conoscere e coinvolgere attivamente i protagonisti, come già avviene in altri paesi europei. In prospettiva, i gay e le lesbiche immigrati dovranno acquisire maggiore visibilità, nella loro diversità, per partecipare e contribuire, assieme agli altri, alla vita del movimento, creando nuovi spazi e solidarietà. Non si tratta di un obiettivo semplice, visto che l’identità sociale e individuale omosessuale è fortemente determinata in senso culturale, e possono quindi emergere punti di vista molto distanti tra di loro; la sfida posta delle società plurietniche verte però anche su questi temi.

È importante che l’approccio della mediazione interculturale, già fatto proprio da alcune aree della sanità, venga messo in agenda anche dalle organizzazioni gay lesbiche, a partire dai dettagli più semplici (esempio: traduzione in lingue estere dei materiali prodotti), per arrivare a degli interventi sociali – quelli di comunicazione e prevenzione HIV/AIDS in primis – realmente efficaci per tutti.
È probabile, inoltre, che chi si interessa di salute di immigrati gay e lesbiche non potrà non occuparsi anche delle loro condizioni di vita, mediamente più disagiate di quelle degli italiani – anche a causa delle discriminazioni, e delle problematiche relative al loro status giuridico, come già rilevano alcuni testimoni: “Come fornitori di servizi dobbiamo essere coscienti che la prevenzione da HIV e malattie sessualmente trasmissibili può non essere la priorità per i nostri ‘clienti’, che hanno a che fare con la strada, con la sopravvivenza quotidiana. L’HIV può sembrare a noi la priorità ma non a loro, per cui bisogna trovare una soluzione ‘a metà’” (Casa dei diritti sociali 2003).

Infine, le organizzazioni omosessuali dovranno potenziare le proprie capacità di accoglienza e di sostegno anche nei confronti dei giovani immigrati gay lesbiche, che prevedibilmente saranno sempre più numerosi visti i trend dell’immigrazione nel nostro Paese. La questione delle seconde generazioni, con tutti i potenziali conflitti tra culture coinvolti in questo processo, dovrà essere affrontata con sensibilità e cognizione di causa. Oltre che di prevenzione, in ogni caso, sarà doveroso accrescere le proprie competenze nel campo del supporto delle persone immigrate sieropositive o in AIDS.

Bibliografia
Caritas, “Dossier statistico immigrazione 2002”, Nuova Anterem, Roma 2002.
Casa dei diritti sociali-Focus, “Faccio solo l’attivo! Una giornata di studio sulla prostituzione minorile e non”, atti della giornata di studio del 14 aprile 2003, 2003.
De Putter Jeanette, “Background data on HIV and migration in Italy”; capitolo tratto da: European project AIDS & Mobility, “AIDS & STDs and migrants, ethnic minorities and other mobile groups. The state of affairs in Europe”, 1998.
European project AIDS and MOBILITY, “HIV/AIDS and migration: specific needs and appropriate interventions in the field of policies, prevention and care”, 2000.
IOM & Cooperazione italiana, “HIV/AIDS prevention and care among mobile groups in the Balkans. Insights from representatives of Governments, International organizations and Non-Governmental organizations”, 2001.
Osservatorio provinciale delle immigrazioni di Bologna, “Immigrati, salute e sanità”, Bologna 2002.
UNICEF & IOM, “Overview of HIV/AIDS in South Estern Europe. Epidemiological data, vulnerable groups, governmental and non-governmental responses up to January 2002”, 2002.