Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 24 luglio 2005

Immigrati, uno Stretto senza speranza

ORNELLA TOMMASI

TANGERI
Sarebbero già 163 dall’inizio dell’anno le vittime dei viaggi della speranza sepolte in fondo allo stretto di Gibilterra, il braccio di mare tra il Nord del Marocco e la costa spagnola diventato ormai una fossa comune. La contabilità periodica dei morti resta fatalmente imprecisa, e andrebbe integrata con tutti i senza nome di cui nessuno ha mai denunciato la scomparsa il cui numero è destinato a restare sconosciuto. La cifra ufficiale, in compenso, è tale da indurre «ottimismo» nelle valutazioni del comitato congiunto ispano-marocchino che si occupa di immigrazione: gli sbarchi sarebbero diminuiti del 17% rispetto allo scorso anno, grazie a un incremento degli arresti da parte dei servizi di sicurezza marocchini, il 13% in più per gli indigeni e il 27% per i subsahariani.

Viste più da vicino, le due tipologie di emigrazione hanno caratteristiche molto diverse. Gli «harraga», letteralmente quelli che «bruciano» le frontiere, arrivano a Tangeri da tutto il Marocco, sono nella stragrande maggioranza minorenni, passano la notte nel porto e di giorno si nutrono come possono, guardati con sospetto e malevolenza dalla cittadinanza. Per loro, che rappresentano una parte consistente dei circa 2000 bambini e ragazzi di strada censiti a Tangeri e per i quali si progettano centri di accoglienza cofinanziati da Spagna e Marocco, la speranza di attraversare si annida sotto la pancia dei tir, in qualche recesso dei traghetti in partenza per Algeciras o addirittura per Sete e Genova, e in misura minore sulle solite pateras. In caso di cattura da parte della polizia locale il trattamento usuale è una consistente scarica di botte a scopo «dissuasivo».

Il progetto congiunto ispano-marocchino prevederebbe invece, tra le altre cose, il ricongiungimento dei minori non accompagnati alle «famiglie dì origine», che spesso in Marocco sono un eufemismo visto il numero impressionante di minori abbandonati.

Tutto un altro scenario se dalla città ci si dirige a Est, costeggiando il Mediterraneo, in direzione dell’ enclave spagnola di Ceuta. Sulla strada si trova la spiaggia del naufragio di metà giugno, in cui erano morte sei donne e sei bambini a pochi metri dalla riva. La polizia aveva poi accertato che il passeur di turno aveva ammassato cento subsahariani in una carretta del mare calcolando che il probabile disastro avrebbe concentrato l’attenzione in quel punto spianando la strada a una seconda imbarcazione «privilegiata» con soli 49 passeggeri, tutti marocchini.

A una trentina di chilometri piu in là, verso Ceuta, i primi sono concentrati nella foresta di Belyounech, che nella toponomastica locale è diventata il «bush» per antonomasia. Un migliaio dipersone, scese a cinquecento recentemente dopo gli arresti di inizio luglio durante un raid di polizia spettacolare, alle prime luci dell’alba, accampate in una sorta di villaggio neolitico, dovunque focolari improvvisati con quattro sassi, indumenti appesi tra gli alberi ma anche piccoli recinti di pali incrociati come spazi di riunione, moschee e chiese a cielo aperto con poche pelli di pecora come tappeto da preghiera e croci rudimentali. Le nazioni africane sono tutte rappresentate, il Senegal come il Mali, la Liberia come il Niger, il Senegal come il Camerun, Gabon, Congo e Congo Brazaville. Quindi anche tutte le confessioni religiose, l’islamica e la cattolica ma anche i cristiani avventisti e metodisti e qualche setta minore. Ferrea disciplina interna, ogni Paese con presidente e ministri eletti per garantire la rappresentanza. Lingue di scambio tra le diverse etnie l’inglese e il francese, poco l’arabo necessario a comunicare con la comunità marocchina locale per gli approvvigionamenti alimentari. Da più di due mesi anche questo necessario contatto col mondo esterno è chiuso. I militari hanno bloccato tutti i sentieri d’accesso e si sono accampati tutt’intorno alla foresta, vietato uscire per procurarsi cibo e acqua.

L’emergenza di questi giorni non è nuova, l’ultima volta era stata a febbraio e l’assedio era durato un mese. Nessuno se l’è ancora dimenticato: il freddo, i raid dei militari che razziavano le coperte e versavano a terra l’olio e le altre provviste. Stavolta il clima è più favorevole ma l’accerchiamento si sta prolungando oltre misura. Unico rapporto col mondo i telefoni cellulari, e Sousso, cittadino del Gambia, conferma che a tutt’oggi la situazione non è cambiata.

Esssere catturati in un tentativo di fuga per i subsahariani significa un timbro sulla mano e trasporto forzato a Oujda, ai confini con l’Algeria. Un giorno e mezzo di viaggio su un automezzo all’andata e 25 giorni a piedi per il ritorno. E nel «bush» finiscono tutti per tornare, a due passi dallo stretto e dalla porta per un’Europa sempre più irraggiungibile. Perché nella lunga marcia di avvicinamento al Marocco gli uomini e le donne della foresta hanno esaurito le risorse per pagarsi il passaggio dall’altra parte. Oltretutto non sanno nuotare.