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da Nigrizia.it del 27 agosto 2008

ImpuStato alla sbarra

Bufale terroristiche / La storia di Ali Ben Salah Slimane

di Gianni Ballarini

Il 24 settembre lo stato italiano sarà alla sbarra. A portarlo a giudizio sono questi quattro bambini che giocano spensierati a tirare calci a un pallone nel giardino di casa, in via Erega 27, a Castelcucco, un paesino trevigiano alle pendici del monte Grappa. Mohamed è il più grande. Ha nove anni ed è un gran tifoso dell’Inter. Prende il pallone e ordina a suo fratello Abderahmen, che ha un anno in meno, di piazzarsi in porta, ricavata dalle mura di cinta. La sorellina Sarra, sei anni, li guarda divertita. È la più vivace e viene spesso ripresa da mamma Rachida. L’ultimo della nidiata è Abdellah: nato il 18 agosto di 4 anni fa, all’ospedale di Montebelluna.

Dicono che assomigli tutto al padre, Ali Ben Salah Slimane, conosciuto come “Ali l’esorcista” dalla comunità maghrebina della zona. Ma è impossibile fare confronti. Perché Ali è stato “sequestrato” e rispedito in Tunisia due mesi prima della nascita di Abdellah. Un’operazione di polizia con il retrogusto amaro delle extraordinary rendition, quelle azioni condotte nei confronti di “elementi ostili”, sospettati di terrorismo. Ma Ali Slimane sembra più vittima dello spregiudicato gioco degli opportunismi politici, di palesi strappi alla legislazione italiana, di astuzie lessicali e di un regime, quello tunisino, abituato a calpestare i diritti dei suoi cittadini.

Da quattro anni ormai, in via Erega si vivono giorni deserti di certezze e pieni di quello che manca. La vicenda della famiglia Slimane può essere presa a simbolo degli abusi e delle ingiustizie con cui si schiacciano le vite dei più deboli. È una storia che stravolge anche la grammatica quotidiana dell’informazione, obesa di paure e bulimica di racconti su presunti terroristi. Per questo, non ci siamo accontentati di sfogliarla come si sfoglia un giornale, limitandoci a guardare le immagini, leggere le didascalie, per poi distrarci frettolosamente. Abbiamo voluto immergerci nella storia di Ali l’esorcista, il tornitore specializzato, che modellava cilindri e speranze, colpevole di aver gridato a squarciagola le sue idee e di professare in modo fervente la sua fede islamica.

L’incubo

Tutto ha inizio l’11 giugno 2004. Alle 4 del mattino di quel venerdì, uomini della Digos trevigiana bussano alla porta di casa Slimane. Hanno l’ordine di portare Ali in questura. Lui scende dal letto, accompagnato dalla moglie Rachida, incinta di sette mesi. Apre la porta. Conosce gli agenti. Da queste parti gli immigrati hanno un rapporto quasi quotidiano con le divise. Chiede loro spiegazioni. La risposta sono modi spicci. La polizia politica lo ammanetta e lo carica in auto sotto gli occhi terrorizzati di Mohamed, Abderahmen e Sarra. Ali è portato in Questura. Gli viene notificato il provvedimento di rigetto della richiesta dello status di rifugiato, nonché il relativo decreto prefettizio di espulsione. Alle 17 Ali è già a Malpensa, consegnato a funzionari tunisini, con un aereo pronto a decollare per la sponda sud del Mediterraneo.

Per una ventina di giorni di lui non si sa nulla. Si scoprirà, poi, che è stato rinchiuso in strutture del ministero dell’interno tunisino. È accusato di appartenere al movimento politico-religioso Ennhada, considerato fuorilegge in Tunisia. Dopo due anni, il 12 luglio 2006, Ali è condannato dal tribunale militare a 6 anni di reclusione e a 5 di controllo amministrativo, per attività di opposizione al regime.

A Castelcucco la notizia dell’arresto gira subito frenetica. Slimane è molto conosciuto tra queste colline. Sbarca in Italia nel 1991. Qualche anno trascorso al sud, Napoli in particolare, a raccogliere pomodori. Poi, nel ’96, l’arrivo nel bengodi nordestino. Il 13 maggio di quello stesso anno ottiene il permesso di soggiorno per “motivi di lavoro subordinato”. Ripara lampadari in una ditta del posto. Per lui significa uscire dalle caverne della clandestinità per assaporare il sole della legalità. Nel ’98 passa alla Swenko di Mussolente (Vicenza), fabbrica metalmeccanica di stampo familiare. «Un gran bravo ragazzo e un ottimo operaio. Gli lasciavo le chiavi dell’officina», racconta il suo datore di lavoro, Aldo Bragagnolo.

Ali è una figura carismatica tra gli immigrati che affollano le piccole fabbriche, ammassate sotto il Monte Grappa. Non fosse altro per quella sua capacità di scacciare gli spiritelli, noti come jinn nella tradizione coranica. I musulmani della zona, che non guariscono con la medicina tradizionale, si rivolgono a lui. «Caccia il maligno», racconta uno di loro. Per questo lo chiamano “Ali l’esorcista”.

Slimane è un islamico intransigente. Studia il Corano. Frequenta le moschee di Bassano e di Cornuda. Non sopporta il regime di Ben Ali. In più di un’occasione, l’ha gridato ai quattro venti. Come nella manifestazione del 1994, davanti all’ambasciata tunisina. Fotografato e filmato, finisce nella lista nera del regime. La cui memoria non è cagionevole. Nel 2004 Ben Ali consegna a Berlusconi un elenco con un centinaio di nomi che avrebbe il piacere di riavere in patria per infilarli nelle carceri tunisine.

Sequestro illegale

Ma questo è sufficiente per strappare illegalmente Slimane alla sua famiglia? «Con questa vicenda mi sembra d’essere piombato in un’Italia dove le regole sono quelle di uno stato di polizia, in cui non sono rispettate le più elementari garanzie previste dalla legge», il commento dell’avvocato Domenica Tambasco, che si è preso cura del caso e ha citato in giudizio il ministero dell’interno italiano per conto della famiglia Slimane. La prima udienza, rinviata, si è svolta lo scorso giugno. La prossima sarà il 24 settembre.

«Con Slimane sono stati violati articoli delle norme sull’immigrazione, sbertucciate sentenze della Corte costituzionale, non rinnovati permessi a un immigrato che viveva da più di 10 anni in Italia e aveva un lavoro regolare, una famiglia numerosa e nessun precedente». Abnorme, in particolare, la violazione dell’articolo 19, secondo comma, del Testo unico sull’immigrazione, che vieta espressamente l’espulsione del coniuge di una donna in stato di gravidanza. «Il ministero dell’interno, nel suo documento di difesa», ricorda Tambasco, «instilla il dubbio che il provvedimento sia stato assunto per “esigenze imperative” di ordine pubblico». L’appartenenza a Ennhada, quindi, avrebbe giustificato l’espulsione immediata di Slimane.

Un falso clamoroso. Non solo la giustizia e la magistratura italiana non hanno prodotto alcuno straccio di prova o di documento in cui si accenna alla pericolosità di Ali. Non solo tutti gli esponenti di quel movimento hanno avuto in Italia il riconoscimento dello status di rifugiati politici. Ma Slimane è stato espulso con un normale decreto del prefetto di Treviso, in seguito al rigetto della sua richiesta del riconoscimento di rifugiato.

Quindi, o Slimane era un pericoloso terrorista e, di conseguenza, doveva essere espulso con un decreto del ministero dell’interno. Oppure Ali era un normale immigrato e doveva essere cacciato (come è avvenuto) con il decreto del prefetto territorialmente competente. Ma, in questo caso, dovevano essere rispettate le garanzie previste dall’ordinamento. Tra cui, appunto, il secondo comma dell’articolo 19 del Testo unico, che impone il divieto di espulsione del coniuge di una donna incinta». Una vicenda in cui si è violata anche la norma che impone quattro giorni, al massimo, tra la firma del decreto di espulsione e la convalida del tribunale. «Ali è stato cacciato l’11 giugno e la convalida è arrivata il 16», precisa Tambasco.

Senza diritti

Ad aggravare il giudizio sul comportamento del governo italiano c’è il fatto che le nostre autorità hanno consegnato un cittadino a un paese dove la repressione degli oppositori è moneta corrente. La stessa Corte europea di Strasburgo ha accolto i ricorsi del 2006 di 8 tunisini, che dovevano essere espulsi dall’Italia, sostenendo che in Tunisia non sarebbero garantiti i diritti umani per persone sospettate di terrorismo. Dopo la sentenza di Strasburgo, durante il governo Prodi, i provvedimenti ministeriali nei confronti di tunisini sono stati sospesi (ma purtroppo ripresi con il Berlusconi IV).

Amnesty International da anni produce documenti che fotografano la violazione dei diritti e delle libertà sotto il regime di Ben Ali. L’ultimo rapporto, che s’intitola “In nome della sicurezza, in Tunisia le violazioni sono la regola”, è del 23 giugno scorso. In esso si denuncia come, «nel tentativo di prevenire la formazione di quelle che chiamano “cellule terroriste” all’interno del paese, le autorità si rendono responsabili di arresti e detenzioni di natura arbitraria in violazione della stessa legge tunisina, di sparizioni forzate di detenuti, torture e altri maltrattamenti e, infine, di condanne emesse al termine di procedimenti iniqui». Nonostante questo scenario di violazioni dei diritti umani, commenta Amnesty, «governi arabi ed europei e Washington hanno espulso verso la Tunisia persone che ritenevano coinvolte in attività terroristiche».

Vite stritolate

È la storia di Ali Slimane, l’esorcista. Di sua moglie e dei quattro figli, le cui vite sono state stritolate da interessi altri. Dal naufragio dei loro sogni, avvenuto all’alba di quell’11 giugno di 4 anni fa, sono sopravvissuti grazie alla solidarietà della comunità musulmana della zona. C’è una fabbrica di Castelcucco, i cui operai islamici si tassano ogni mese di 10 euro per consegnare la somma a Rachida e ai suoi piccoli. L’amministrazione comunale e la parrocchia locali hanno cercato di non gravare troppo sulle casse della famiglia Slimane per consentire a Mohamed, Abderahmen, Sarra e Abdellah di frequentare scuola e asilo. Hanno messo a loro disposizione anche Elisabetta e Cristina, un’assistente sociale e un’educatrice, che si sono prese a cuore il presente dei quattro bambini.

C’è, poi, la figura di don Giuliano Vallotto che abita a pochi chilometri da Castelcucco, dove gestisce una comunità di immigrati. È l’incaricato della diocesi per i rapporti tra cristiani e musulmani. Frequenta casa Slimane da una decina d’anni. Conosce bene la situazione tunisina, essendo stato missionario per 5 anni in quelle terre. È lui che è andato a battere i pugni in questura e in prefettura, per capire i perché senza risposta della vicenda. Oggi si spende affinché lo sfratto esecutivo alla famiglia Slimane del 16 settembre non diventi l’ennesimo capitolo di un destino beffardo e ingeneroso.

Ma c’è, soprattutto, la figura di questa donna di 40 anni, Rachida, la cui spalle fragili stanno sostenendo l’intero Monte Grappa. Quando le hanno sequestrato il marito, non conosceva l’italiano. «L’ho imparato ascoltando i miei figli parlare tra loro». Velo in testa, è andata a bussare a tutte le imprese e alle agenzie di collocamento della zona. Trovando porte sbattute. Da queste parti i brividi di paura sono diventati schede leghiste sonanti. È complicato per Rachida galleggiare. Ma non si rassegna a prendere solo atto di ciò che le accade intorno. Senza alzare mai la voce, ha chiesto allo stato italiano di riparare a una grave prepotenza. E l’ha chiamato a giudizio. La speranza, stavolta, è che i trafficanti di cavilli non trovino il pertugio per assecondare gli umori del più forte e che la giustizia mostri i denti anche a chi le passeggia sopra con arrogante non curanza.