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da Il Manifesto del 3 agosto 2007

In Marocco si torna a sparare. Gli effetti della collaborazione tra Europa e Africa

di Federica Sossi
Il governo Zapatero si complimenterà anche questa volta?
Domanda del tutto retorica, perché, ormai da anni, di complimento in complimento si sotterrano sempre più persone e si tracciano le linee d’avanguardia di una guerra sul fronte che, a differenza delle altre, non ha nemmeno bisogno di chiamare «effetti collaterali» le vittime che rimangono sul campo poiché è contro di esse che si dispiegano gli eserciti.
Ma partiamo dai fatti. Certo non immemori dei morti e dei feriti dell’autunno del 2005, quando le forze dell’ordine di entrambi gli stati avevano sparato sui migranti che cercavano di scavalcare le barriere delle due enclave di Ceuta e Melilla, il 10 luglio di quest’anno la Spagna e il Marocco si felicitano per la reciproca collaborazione nella lotta contro l’immigrazione.
Fanno sapere che, grazie a tale collaborazione, lungo la costa marocchina sono state intercettate 122 piroghe e bloccati 5.500 migranti in partenza verso le Canarie, dove gli arrivi sono diminuiti del 54%. Il regno marocchino, inoltre, in un esercizio di narcisismo, complimenta anche se stesso per aver saputo trasformarsi da luogo di passaggio a nuova fortezza: afferma, infatti, che grazie ai nuovi dispositivi di controllo ha bloccato alle sue frontiere tra gli 80.000 e i 100.000 migranti.
Non immemori, ma silenti. Perché tra strette di mano, felicitazioni e nuovi eufemismi si continua a tacere sugli attuali scenari aperti dalle reciproche collaborazioni tra i singoli stati membri dell’Ue, o l’Ue nel suo complesso, e alcuni paesi africani. Dalle notti di Ceuta e Melilla, quando la guerra ai migranti ha abbandonato definitivamente il retroscena in cui sino allora si era svolta, molto, infatti, è cambiato.
Per il Marocco, più di un anno di nuovo silenzio, in cui il suo territorio si è trasformato in un «regno del nessun dove» privo di spazio e di suolo per i migranti lì bloccati, e poi di nuovo una grande offensiva: l’enorme deportazione del natale 2006, con più di 400 persone abbandonate alla frontiera con l’Algeria, ferite, maltrattate, violentate.
E dopo i complimenti, una nuova grande retata, il 26 luglio scorso, questa volta direttamente a Oujda, l’ultima città prima della frontiera, al «campus» dei migranti.
Qualche giorno dopo, nella notte tra il 30 e il 31 luglio, si spara di nuovo: due morti e due feriti lungo una spiaggia di Layunne, ritrovo abituale dei migranti che cercano di abbandonare il regno del nessun dove alla volta delle Canarie. Non sarà facile, in questo caso, trovare il termine adatto per ristabilire la falsa idea di una guerra tradizionale, con due parti che si fronteggiano, come era avvenuto per Ceuta e Melilla, quando tutti avevano chiamato «assalto» il tentativo dei migranti di superare le barriere.
Non manca, però, nemmeno in questo caso, un vocabolario a cui attingere, lo stesso con cui da mesi si sta cercando di fare apparire umanitaria l’azione di un esercito del tutto composito: forze dell’ordine o eserciti di vari paesi europei e africani, alti commissariati, funzionari di organizzazioni internazionali, insieme a ignari o del tutto consapevoli volontari di molte Ong europee e africane. Tutti in campo, questa volta, contro i «rischi dell’emigrazione clandestina».
In diversi modi, chi semplicemente con viaggi finanziati per andare a scoprire e a descrivere il territorio per poi ritornare con un progetto e una nuova richiesta di finanziamento per «sensibilizzare» i giovani africani, chi, come l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, con progetti ben più ambiziosi, corsi di formazione ai funzionari dei governi africani per omologarli al concetto europeo di controllo delle frontiere, come è avvenuto in Mauritania, o corsi di formazione aperti anche alle Ong sulla «lotta contro la tratta delle persone», già presentati in Marocco. L’idea è sempre la stessa, in un caso come nell’altro gli africani hanno bisogno di essere formati: a mettere frontiere lì dove non ne avevano bisogno; a lottare «contro la tratta delle persone», magari sull’esempio del Senegal, che ha usato proprio la sua legge contro la tratta per imprigionare i suoi giovani cittadini, catturati sulle spiagge desiderosi di partire e di «auto-trattarsi»; o, ancora, a ben valutare i rischi dei loro viaggi, come se non bastassero gli amici o i familiari morti, o le loro stesse partenze finite con un naufragio, alla loro sensibilizzazione. Farà parte del rischio, ora, dopo gli spari a Layunne, anche l’eventualità di finire morti ammazzati ancor prima di essere saliti sulla piroga. A Layunne, non erano cittadini marocchini, ma giovani migranti di origine subsahariana: due morti e due feriti.
Ma mentre l’Europa è riuscita a costruire un proprio esercito autonomo unicamente per la guerra ai migranti africani, con le due azioni di Frontex nell’Oceano Atlantico e nel Mediterraneo, non c’è da dubitare che per rendere umanitarie anche le pallottole e per sensibilizzare contro i loro rischi persino i cittadini dei singoli stati africani accorreranno ben presto giovani volontari europei a supportare i funzionari delle organizzazioni internazionali di stanza in Africa con il compito di inventare nuovi eufemismi per (non) dire che la si sta bloccando.