Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Le Monde diplomatique - Dicembre 2005

Integrazione a due velocità – Stati Uniti, versione «latinos»

Jean François Boyer

Qui, tra le montagne ocra che cingono la verde vallata, cresce di tutto: legumi, primizie, frutta, vigne. La Salinas Valley è una delle terre che collocano la California tra i primi produttori agricoli del mondo. L’ultrasofisticato sistema di irrigazione stende i suoi tubi per chilometri. Inginocchiati nei campi, i lavoratori terminano la raccolta. I caposquadra, che li sorvegliano sessanta ore a settimana, sono, come loro, messicani, ma trovano difficoltà a farsi capire.

La maggioranza dei lavoratori non parla spagnolo. Sono indiani Triquis e Mistechi, originari dello stato di Osxaca, i contadini più poveri del Messico. Qui guadagnano circa 7 dollari l’ora, dieci volte più che nel loro paese. «Per noi indigeni, laggiù non c’è possibilità di vita», spiega con una smorfia Ramiro, 20 anni, infagottato nella sua tuta con il logo dei Fortyniners, la squadra di football americano di San Francisco. «Devi scegliere: o resti nel pueblo con la tua famiglia guardandola morire di fame, o la lasci e vieni qui, guadagni qualcosa e le mandi di che sopravvivere.» I simboli della loro nuova vita si allineano lungo il bordo del campo: auto d’occasione, in buono stato, che hanno comprato a meno di 1.000 dollari. Durante la pausa – una mezz’ora, non di più – tirano fuori un telefonino per fare due chiacchiere con gli amici.

In uno spagnolo approssimativo o con l’aiuto di un traduttore, si lamentano dei contratistas. Si tratta di intermediari latini (1), incaricati di reclutare mano d’opera per le aziende agricole americane, i quali intascano dal 15 al 20% del frutto del loro lavoro. Comunque, Triquis e Mistechi non si iscrivono al sindacato, che tratta con le compagnie agricole e garantirebbe loro migliori condizioni di lavoro, un salario più alto, addirittura un’assicurazione per le malattie. Membro dell’Union of Farm Workers, il sindacato agricolo fondato negli anni ’60 dal mitico messicano-americano César Chávez (2), José Manuel Morán se ne rammarica: «Tutto quello che vogliono è un lavoro, potersi comprare una macchina, mangiare bene e inviare qualche soldo a casa. Vivono in otto o dieci in una casa di tre stanze o magari pagano la metà del salario per vivere in due in una sola stanza…».

Il novanta per cento dei lavoratori agricoli della California è costituito da immigrati messicani o centroamericani, clandestini e senza documenti.
In piena espansione, l’agricoltura locale non può fare a meno di loro, perché nessuno qui vuole lavorare la terra in queste condizioni.
Solo chi ha un parente con documenti in regola, o sposi un residente americano, potrà ottenere, dopo lunghe pratiche burocratiche, un permesso di lavoro e un certificato di residenza, la famosa green card.

Da anni, però, i servizi d’immigrazione non fanno più controlli nei campi. Dalla fine degli anni ’90, migliaia di messicani, e fra loro 4.000 indiani, si sono insediati nel vicino paesetto di Greenfields.
Ad eccezione di alcuni piccoli delinquenti, nessuno è stato rimpatriato.
«Business is business… Questa è l’ipocrisia del sistema», conclude Morán.

Don Andrés Cruz è il capo della piccola comunità indigena. Samuel Huntington? Non lo conosce, naturalmente. Non sa nemmeno che l’autore di Lo scontro delle civiltà (3) ha un ruolo decisivo nell’attuale dibattito sul tema dell’immigrazione latina negli Stati uniti (4).

Il celebre professore universitario non ha forse affermato nel suo ultimo libro, La nuova America (5), così come in molti articoli, che gli ispanici non sono integrabili nell’America che conosce e ama? Per lui, «le fondamenta della cultura anglo-protestante fondatrice sono: la lingua inglese, la cristianità (…), una concezione inglese della preminenza della legge, la responsabilità dei dirigenti, il diritto degli individui (…), i valori protestanti dell’individualismo, l’etica del lavoro e la fede nel fatto che gli esseri umani hanno la capacità e il dovere di creare un paradiso in Terra…».

«I messicani sono assimilabili» Alla richiesta di sapere se lui potrebbe rientrare nelle grazie di Huntington, don Andrés risponde categoricamente: «Sì, se ce ne danno l’occasione, possiamo diventare buoni americani!» Su questo Morán rincara: secondo lui, Greenfields ha dimostrato, e da molto tempo, che i messicani sono assimilabili. In questa città che ha quadruplicato i suoi abitanti in trent’anni, il 95% è messicano, tra questi il sindaco, i consiglieri municipali e i responsabili scolastici. La metà di loro è cittadino americano o ha una green card; tutti rispettano scrupolosamente le leggi, pagano le tasse e onorano religiosamente i pesanti debiti contratti per comprare i simboli materiali del sogno americano.

Certo, in casa continuano a parlare spagnolo. Ma tutti se la cavano con l’inglese. In particolare i bambini nati qui. A differenza che in altri stati, come il Texas per esempio, non ci sono più scuole bilingui in California: L’insegnamento si svolge unicamente in inglese.

Quanto alla capacità di lavoro di questa gente venuta dal Sud, bisogna chiedere ai padroni cosa ne pensano! «La maggior parte dei nuovi arrivati metterà radici qui – prevede Morán – . Arrivando, diciamo tutti la stessa cosa: lavoro tre o quattro anni, faccio un po’ di economie e ritorno al paese per metter su un piccolo commercio.» Poi il tempo passa, il salvadanaio si riempie lentamente: perché si guadagna bene negli Stati uniti, ma si spende molto. Soprattutto se si compra una casa. Anche se illegali, i lavoratori che dimostrano di avere entrate regolari possono ottenere crediti.

«E poi ci si sposa, si fanno figli. Figli americani! E così… Trent’anni dopo, siamo ancora qui… Per gente come noi, il paese è la terra che ci dà da vivere!». Ma quanto è aspro il cammino…

Poco distante dai grattacieli del centro di Los Angeles, un ristorante annuncia con grandi lettere di plastica: Pupuseria (6). Lungo il viale che va ad est, si allineano centinaia di insegne: Tiendas Mariposa, El Palacio centroamericano, Llantas nuevas Zamora, Ropa para la Familia…

Il paesaggio non cambia per tutti i 30 chilometri che portano ai confini di East Los Angeles. Lungo la strada, la Plaza Olivera ha un altare dedicato alla Virgen de Guadalupe, la patrona del Messico, accanto a un murales monumentale che riproduce le bandiere degli Stati uniti e di tutti i paesi dell’America latina. Quelli senza documenti vengono qui a pregare la Vergine, perché li aiuti a farsi una tana negli Stati uniti.

Proveniente dallo stato di Michoacán, e arrivato in California a 5 anni, con la madre e i fratelli, Carlos è rimasto undici anni senza documenti e ha fatto tutti i lavoretti possibili prima di riuscire a sistemarsi come tecnico di radiologia. Un percorso spossante. I datori di lavoro possono assumere operai, a ore o a giornata, senza chiedere documenti. Ma per offrire un impiego remunerato mensilmente, esigono un numero di previdenza sociale e un documento d’identità americano. Gli immigranti recenti non li hanno. Imparano molto rapidamente che i patrones accettano senza batter ciglio le carte di previdenza sociale falsificate e le patenti di guida, altrettanto false, che si comprano per 70 dollari il pezzo in qualsiasi mercato delle pulci del sud degli Stati uniti.

Così, circolano milioni di documenti falsi, ma il governo federale non sembra preoccuparsene più di tanto. Munito di questa precaria documentazione e assunto come giardiniere, lavapiatti in un ristorante o precario in un’impresa di pulizie, il lavoratore latino potrà vivere per anni, come clandestino, in un paese che non può fare a meno della sua forza lavoro. Gli americani non amano né i lavoretti né, tanto meno, coltivare la terra. Di fatto, il 53% dei messicani presenti negli Stati uniti non dispone di alcun documento legale.

A 25 anni, Carlos è cittadino americano grazie alla procedura di riunificazione familiare iniziata da uno zio insediato legalmente.

«Non ho ancora raggiunto il mio obiettivo, dice: una casa per me e la stabilità economica per i miei tre figli e per mia moglie… Ma certamente rimarrò negli Stati uniti…» Per «raggranellare qualche soldo», lavora la sera come valet parking in un ristorante. La metà della popolazione della contea di Los Angeles è latinoamericana: 4,5 milioni di persone. I quartieri dove si concentrano – East L.A.

in particolare – riflettono un ambiente molto piccolo borghese. Un’apparenza falsa. La maggioranza delle famiglie che abita in questi luoghi vive con meno di 20.000 dollari l’anno, una cifra che negli Stati uniti permette appena di far fronte al giorno per giorno (7). E questi quartieri ospitano le gang più temute dell’Ovest americano.

Giovane politico di 37 anni, nato nello stato di Zacatecas, in Messico, José Huizar ha passato la maggior parte della sua vita qui, in un vecchio chalet di legno che dà su un’autostrada. Arrivato all’età di 5 anni, ha studiato alla scuola pubblica prima di vincere una borsa di studio per una delle migliori università del paese: Princeton (New Jersey). Oggi membro della direzione della sua università e militante del Partito democratico, si è battuto per molti anni per la giustizia nella scuola a capo dei servizi della pubblica istruzione della Grande Los Angeles. Fa campagna elettorale per entrare nel consiglio municipale della città. Una success story degna dei migliori romanzi d’appendice. Il padre di José era un contadino analfabeta.

Una storia di successo Nel cuore di questa roccaforte messicana, Huizar parla spagnolo con difficoltà. Eppure è un immigrato di prima generazione. Si dichiara legato a una cultura messicana dai contenuti sfumati – «Un modo particolare di comportarsi, di vestirsi… Una musica… Una cucina diversa…» – , tutt’ora non si considera «assimilato». Tuttavia, quando gli si domanda il titolo dell’ultimo romanzo letto in spagnolo, sorride e risponde: «Ha ragione, sono un po’ un pocho…». Nel gergo messicano, il termine indica l’immigrato che perde la sua lingua natale e si fonde con la cultura americana. «Sono fiero di essere messicano, conclude, ma ringrazio gli Stati uniti per quanto mi hanno dato: istruzione, lavoro…Tutto ciò che non esisteva nelle montagne di Zacatecas». L’ultimo censimento federale valuta che, in tutto il paese, 41 milioni di residenti sono di origine latinoamericana (il 14% della popolazione) (8). La metà è nata fuori dalle frontiere, il 65% ha un’ascendenza messicana. Nel 2045, secondo il Pew Hispanic Center, il numero dei latini si aggirerà attorno ai 103 milioni. Lo spagnolo è già la seconda lingua del paese. E gli Stati uniti sono il secondo paese di lingua spagnola del mondo, dopo il Messico, ma davanti a Spagna e Colombia…

A Miami, New York o Los Angeles i giornali e i programmi serali delle locali stazioni di Univision, il gigante ispanico della televisione, spesso fanno più audience di quelli di Abc, Cbs o Nbc.

La Opinión a Los Angeles, La Voz a Houston, Rumbo in Texas, La Raza a Chicago, ogni giorno propongono una nuova success story ai loro lettori: una famiglia di Michoacán che ha fondato la propria azienda vinicola dopo aver vendemmiato le vigne della Napa Valley per una generazione…Un giovane di 29 anni, nato a Tijuana che sta per lanciare una linea di tee-shirts… Il termine «latino», a lungo usato in senso spregiativo, è oggi di moda. La star messicana di Hollywood, Salma Hayek, o Jorge Ramos, il presentatore star del telegiornale di Univision, rappresentano dei modelli per la gioventù urbana, di qualsiasi origine.

Cantanti bilingue, come il messicano Alejandro Fernández e i portoricani Chayanne, Jennifer Lopez, Ricky Martin invadono radio e televisioni in spagnolo o in inglese. Vicente Del Rio offre volentieri della tequila sulla terrazza del Frida (9), il suo ristorante di Beverly Drive, non lontano dalla montagna segnata dalle lettere della parola «Hollywood». Il suo locale è diventato il luogo d’incontro degli yuppie del quartiere, della comunità ebrea di Beverly Hills… e dello show-business latinoamericano. Infatti, in questi ultimi anni, un numero sempre crescente di messicani della classe media si è spostato negli Stati uniti. Secondo un’inchiesta del Pew Hispanic Center, due messicani su cinque si dicono pronti a viverci, anche senza documenti.

La voglia di emigrare «non è più appannaggio solo dei poveri. È un desiderio che si manifesta tanto nella classe media quanto nei circoli universitari» afferma il direttore del sondaggio, Roberto Suro (10).

La vecchia idea, secondo la quale l’immigrazione nasce solo dalla miseria, non basta più a spiegare il fenomeno. La realizzazione, a sud del Rio Grande, del modello neoliberale si è tradotta in un aumento del numero dei poveri e nell’impoverimento della piccola borghesia. Ha anche reso la gioventù, martellata da pubblicità e televisione, più sensibile al sogno americano.

Si assiste così, da Chicago a San Antonio, all’emergere di una cultura ibrida: la gioventù ispanica dei quartieri popolari abbandona la salsa e la cumbia tradizionali per un nuovo ritmo made in Usa, il reggaeton, indefinibile miscuglio di hip-hop, rap e cadenze latinoamericane.

Tuttavia, passeggiando a caso in California, può capitare di incontrare qualche funzionario messicano-americano di terza generazione, che, pur parlando male la propria lingua d’origine, è un appassionato di teatro chicano in spagnolo.

Salvo alcune eccezioni, i grandi media latini riversano sul loro pubblico una programmazione abbrutente, fatta di pubblicità, talk-show insulsi e informazioni orientate. Tuttavia, dal Nord al Sud, un po’ ovunque nel paese, Radio lingue, che trasmette in inglese, spagnolo e in diversi dialetti indigeni messicani, propone programmi di qualità e si batte per salvare la cultura originale degli ispanici dalla dissoluzione nel melting-pot commerciale.

Il mondo politico ha concesso un piccolo spazio ai rappresentanti della seconda comunità nazionale. Due dei principali ministri di George W. Bush, il segretario alla giustizia Alberto Gonzáles e il segretario al commercio Carlos Gutierrez, sono latini. Inoltre, venticinque deputati e senatori di origine messicana, cubana e portoricana siedono al Congresso e più di una ventina di sindaci ispanici gestiscono città con più di 100.000 abitanti in California, Texas, Florida e nel Connecticut. Per molti, nel 2004, è stata una sorpresa, se non uno choc, l’elezione di Antonio Villaraigosa, messicano di seconda generazione, a sindaco di Los Angeles. L’American dream è evidentemente il principale obiettivo del gruppo di pressione costituito dalle personalità latine. David Ayon, ricercatore presso la Loyola Marymount, università californiana dei gesuiti, lo ha battezzato Red latina (rete latina). Nato quarantotto anni fa in Texas, da padre messicano arruolato nell’esercito americano durante la seconda guerra mondiale, Ayon spiega che questa rete si appoggia su eletti e alti funzionari di origine latina e sulle grandi associazioni dirette da messicano-americani, come la League of United Latin American Citizen (Lulac), il Mexican American Legal Defense and Educational Fund (Maldef) o il Consejo de la Raza, organizzazioni ampiamente aperte a tutti gli ispanici.

Insieme, lavorano per una rapida integrazione, appoggiano al Congresso federale i progetti di legge che tendono a regolarizzare la situazione di chi non è in regola e i programmi sociali di cui possono beneficiare gli immigrati. Si battono anche per facilitare l’inserimento scolastico dei bambini che parlano solo spagnolo e per fare rispettare i diritti dei lavoratori ispanici. Soprattutto, distribuiscono milioni di dollari in borse di studio per permettere l’accesso all’università ai figli degli immigrati.

La Red latina nel complesso si colloca all’interno del movimento democratico. Henry Cisneros – ex sindaco di san Antonio e ministro di Bill Clinton – Bill Richardson – governatore del Nuovo Messico – e il deputato democratico del New Jersey, il cubano-americano Robert Menéndez, hanno svolto un ruolo decisivo nella sua costituzione.

Hanno finanziato, tra l’altro, le campagne elettorali di Villaraigosa a Los Angeles, e del senatore Ken Salazar nel Colorado. Tuttavia, alcune personalità della Red Latina negli ultimi anni si sono avvicinate al Partito repubblicano. Carlos Olamendi, per esempio, padrone di una catena di 50 ristoranti, si è unito ai sostenitori di Arnold Schwarzenegger, l’ultraconservatore governatore della California.

Un lavoro di lobby La Red latina privilegia il lavoro di lobbyng, svolto nei confronti delle autorità federali. Si mostra invece meno ricettiva verso le richieste dei governi, messicano e dei paesi centroamericani, che le chiedono di difendere i loro interessi a Washington. Sarebbe sbagliato credere, sorride Ayon, «che la comunità latina negli Stati uniti, sia l’America latina trapiantata qui». Una rete meno influente, che Ayon chiama la Red mexicana (rete messicana), resiste più attivamente all’assimilazione. Da Chicago a San Antonio, si organizza localmente in clubes de oriundos, piccole associazioni di messicani naturalizzati e immigrati originari di uno stesso luogo, che si riuniscono in federazioni.

Le più attive sono quelle degli stati messicani di Zacatecas, Michoacán e Guanajuato, che, a partire dalla seconda guerra mondiale, hanno portato negli Stati uniti intere generazioni di immigrati. I club finanziano progetti sociali, come la costruzione di scuole o di centri sportivi nelle loro municipalità di origine, in Messico.

Per raccogliere fondi, i clubes organizzano balli o banchetti, animati da un mariachi o un gruppo di musica norteña. La Red mexicana ha relazioni molto strette con i consolati messicani e l’Istituto dei messicani all’estero, creato dal presidente Vicente Fox per appoggiare il suo governo nei negoziati con Washington. Ma i clubes de oriundos non reclutano nelle grandi città. I latinoamericani sembrano più preoccupati di ritagliarsi uno spazio nel paese che di dare spazio alla loro nazione d’origine negli Stati uniti.

L’analisi del comportamento dei latinoamericani fatta da Harry Pachon, presidente dell’Istituto politico Tomás Rivera dell’università della California del sud, indica proprio questo. Egli afferma che il loro comportamento è caratterizzato «da una forte etica del lavoro e dalla riproposizione dell’ideale americano, secondo il quale grande impegno e perseveranza conducono a una vita migliore». L’idea che gli Stati uniti siano una terra di opportunità, aggiunge, spiega anche perché gli ispanici abbiano sempre manifestato «un alto livello di patriottismo»: 300.000 americani di origine messicana hanno partecipato alla seconda guerra mondiale e 130.000 latini erano arruolati sotto la bandiera americana all’inizio della seconda guerra in Iraq.

Prima deputata federale di origine nicaraguense, per parte di madre, Hilda Solis ridimensiona questo giudizio. La circoscrizione di Los Angeles, dove è eletta, lamenta almeno 11 morti ispanici in Iraq.

Più che la spinta patriottica, spiega, sono la mancanza di sbocchi e le precarie condizioni di vita che spingono i giovani latini ad arruolarsi. E la speranza di ottenere, alla fine del servizio militare, documenti veri, pagati col prezzo della paura e del sangue. La Solis conferma anche che, se, una volta naturalizzati, gli ispanici continuano in maggioranza a votare per il partito democratico, tendono invece a «passare a destra» non appena entrano a far parte della classe media. Il trenta per cento di loro ha votato Schwarzenegger e il 40% Bush. I cubani di Miami non sono più i soli a sostenere il presidente Bush! Brillante avvocato messicano-americano di seconda generazione, nominato ministro della giustizia nel 2004, Alberto Gonzáles si è distinto, ad esempio, nella difesa delle scelte di politica penitenziaria a Abu Ghraib e Guantanamo. In totale contraddizione con i principi (per lo meno dichiarati!) dei democratici latini: rispetto dei diritti umani e non intervento.

I democratici sono preoccupati per la insufficiente rappresentanza politica dei latinoamericani. Sui 41 milioni che vivono negli Stati uniti, solo 7 milioni hanno diritto di voto ed è improbabile che a breve termine possano pesare sul futuro politico del paese. In Messico, Carlos González, direttore dell’Istituto per i messicani all’estero, propone una delle possibili chiavi di lettura del problema: «La struttura dell’economia americana non permette più all’immigrato recente di raggiungere in fretta, come negli anni ’50 e ’60, uno status di classe media: È fondamentalmente un’economia di servizi, che premia le élite colte e genera una sotto-classe senza possibilità di promozione verticale». La politica per l’immigrazione degli Stati uniti, fortemente restrittiva, impone a lungo a queste categorie una condizione di illegalità, lontana dalle schermaglie elettorali.

In California, comunque, architettura e urbanizzazione si sviluppano al ritmo dell’immigrazione, come dimostra la facciata neocoloniale dell’ipermercato di San José, la capitale della Silicon Valley. I proprietari di Mi Pueblo sono arrivati da Città del Messico meno di trent’anni fa. I banchi propongono tortillas di mais, salse piccanti, fagioli neri in conserva e spezie di ogni genere… Molti prodotti hanno il marchio El Mexicano, quello dei fratelli Márquez, immigrati di prima generazione, che hanno istallato i loro stabilimenti all’ingresso della città. «Qui si realizza – dice Bruno Figueroa, console generale del Messico a San José – un vero business della nostalgia.» Le catene dei supermercati latini hanno un giro di affari milionario. Tutto considerato, gli ispanici entrano molto più facilmente nel mercato che nel mondo politico…

Il potere d’acquisto annuo della comunità latina rasenta i 700 miliardi di dollari, 200 miliardi in più del prodotto interno lordo argentino! La grande distribuzione investe somme considerevoli in marketing e pubblicità per insediarsi in questo mercato. Due milioni di imprese ispaniche realizzano un giro d’affari annuo di circa 250 miliardi di dollari e garantiscono più di 2 milioni di posti di lavoro: catene di supermercati e ristoranti, imprese di pulizia, media, agenzie di pubblicità, compagnie di trasporto e imballaggio…

Le piccole e medie imprese Su Internet, le camere di commercio ispano-americane mostrano liste interminabili di piccole e medie imprese. I latini ne creano più dei bianchi o neri americani. La Us Bank e la Us Hispanic Chamber of Commerce (Ushcc; 40 sedi in California; 20 in Texas) hanno da poco messo in piedi un piano nazionale di finanziamento delle imprese latine per 1 miliardo di dollari. È un tipo di integrazione economica che si traduce, ovviamente, in termini politici. La Ushcc, per esempio, nel 2005 ha appoggiato pubblicamente la nomina da parte di Bush del giudice ultraconservatore John Roberts alla presidenza della Corte suprema. È vero che in materia di famiglia, aborti o omosessualità, la maggioranza degli immigrati recenti – cattolici praticanti – se la batte alla pari con gli ultraconservatori americani.

A Houston, Juan Alvarez, uno dei numerosi militanti centroamericani che, più politicizzati dei messicani, si battono per difendere i diritti degli immigrati, fa ogni giorno il giro delle esquinas – pompe di benzina, supermercati e incroci – dove i lavoratori privi di documenti si propongono a giornata alle imprese di costruzione.

Sembra ci siano 100.000 jornaleros in tutto il paese e 6.000 a Houston.
Però in questi giorni di metà ottobre, curiosamente, le esquinas sono quasi vuote. Alvarez ce ne spiega il motivo: «Quattro mila sono partiti in questi ultimi giorni per andare a lavorare a… Nuova Orleans».

Dalla fine di settembre 2005, migliaia di latini privi di documenti partecipano alla pulizia della città sinistrata. Poco importa che i salari proposti siano inferiori a quelli che spetterebbero a neri e bianchi americani per lo stesso impiego. Poco importano dodici ore di lavoro tra acqua marcia e putrefazione. Solo il sindaco della città, l’afro-americano Ray Nagin, si è lamentato della situazione, stigmatizzando le «nuova inondazione» della città da parte … degli ispanici. Salvo rare eccezioni, le autorità per l’immigrazione lasciano fare, ancora una volta … L’America di cui sogna Samuel Huntington ha bisogno di molti ispanici poveri … per rimanere se stessa.
Note:

* Giornalista, Miami.

(1) Negli Stati uniti, i termini «latino» o «ispanico» sono usati indistintamente.

(2) Leader dei messicano-americani negli anni ’60, gli anni caldi del radicalismo chicano nei campi del Nuovo Messico e della California.

(3) Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, 2001.

(4) Su questo argomento, si legga James Cohen e Annick Tréguer (sotto la direzione di), Les Latinos des Usa, Iheal Editions, Parigi, 2004.

(5) Samuel P. Huntington, La nuova America, Garzanti, 2004. (Who Are We? The Challenges to America’s National Identity, Simon and Schuster, New York, 2004.).

(6) La pupusa è una tortilla salvadoregna ripiena di fagioli.

(7) Nel 2001, secondo il sindacato United Auto Workers (Uaw), bisognava guadagnare almeno 8,70 dollari l’ora (17.960 dollari l’anno) per sfuggire alla povertà; il 40,4 % dei latini viveva allora in famiglie che non disponevano di questa somma. Citato nell’opera di James Cohen, Spanglish America, Le Félin, Parigi, 2005.

(8) Us Census Bureau, Washington, 2004.

(9) Con riferimento a Frida Kahlo, pittrice messicana, moglie di Diego Rivera e amante di Leone Trotski.

(10) http://pewhispanic.org/topics/index.php?TopicID=16 (Traduzione di G. P.)