Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

dal Corriere della sera del 19 gennaio 2000

Io, clandestino per un giorno rinchiuso nel centro di via Corelli

di Fabrizio Gatti

MILANO – La luce in via Corelli non si spegne mai. Gli alti riflettori
tormentano i container dentro la grande gabbia e bisogna coprire le
finestre con gli asciugamani per avere un po’ di buio. Ma non basta
a conciliare il sonno. Ci si deve abituare all’odore di urina, di
scarpe, di miseria. Otto uomini, una miniturca, una minidoccia e un
lavabo convivono a fatica nei pochi metri quadri di questi alloggi
improvvisati. Zittiti da brevi pause, si aggiungono i rumori: i camion
sul cavalcavia della tangenziale Est, il russare alternato dei vicini e
un misterioso rimbombo che viene da fuori. All’una e mezzo diventa
un ritmo tribale. Le ragazze africane cantano e ballano tra le
brande. Si sentono e si scorgono dalla loro finestra socchiusa: cori
a tre voci e corpi ondeggianti, avvolti nelle bianche lenzuola di carta
fornite dalla Croce Rossa. E’ una notte normale alla periferia di
Milano, nel “Centro di permanenza temporanea e di assistenza e di
esecuzione della misura”: in parole meno burocratiche, l’ultima
tappa prima del rimpatrio per centinaia di stranieri che qui vengono
detenuti fino a un mese, anche se non hanno mai commesso reati.

E’ impossibile raccontare la vita nella grande gabbia rettangolare,
senza viverci almeno un giorno. E per farlo bisogna ingegnarsi,
perche’ i permessi sono negati. Ho cosi’ preso in prestito un nome
che suonasse “extracomunitario”: Roman Ladu, 29 anni, di
Bucarest, Romania. Nel centro di via Corelli si entra solo se sono
trascorsi almeno 15 giorni dal fotosegnalamento. E’ il primo
controllo di un clandestino: se non si dimostra di avere un
permesso di soggiorno, vengono prese su varie schede le impronte
di tutte le dita e del palmo delle mani. La faccia viene fotografata di
fronte e di lato, come per i delinquenti. E il nome e’ inserito
nell’elenco elettronico di tutti gli immigrati che in Italia hanno
ricevuto il “Deportation order” firmato dal prefetto. La polizia puo’
usare maniere dure. Lunedi’ 17 gennaio a Lodi, dopo essere stato
sorpreso per la prima volta da due poliziotti in borghese a chiedere
l’elemosina, Roman Ladu ha dovuto sopportare due schiaffoni e
un’ispezione corporale. Gli hanno rotto di proposito una scheda per
telefonini. Ed e’ stato obbligato, con minacce di “guai”, a firmare un
verbale su cui un viceispettore aveva scritto: “La persona nominata
in oggetto… all’uopo ha dichiarato: non intendo farmi assistere da
alcuno”.

Il controllo che porta in via Corelli, venerdi’ mezzogiorno a Monza,
e’ meno traumatico. Sono gia’ trascorsi i 15 giorni. Dopo una breve
sosta nel commissariato, si va a 160 all’ora in superstrada verso
l’ufficio stranieri della questura di Milano. Altre ore di pratiche e
attesa. Poi in sei si e’ caricati su un furgone Ducato, scortati da sei
poliziotti. Il quadrante luminoso del campanile dell’Ortica segna le
6.35 della sera. L’ultima faccia di Milano mostra i piloni del
cavalcavia della tangenziale Est. Il pulmino gira li’ sotto. Gli espulsi
osservano in silenzio. Bisogna fermarsi alcuni istanti. Le due ante
del portone in ferro si aprono lentamente. E dalla fessura in mezzo
comincia a filtrare l’abbaglio dei riflettori. La grande gabbia,
illuminata come un palco, e’ 150 metri davanti al parabrezza.
Dorina, albanese sui 30 anni, non riesce a trattenere il pianto. Il
motivo della sua malinconia lo spiega poco dopo un corpulento
dipendente della Croce Rossa Italiana, l’ente che ha messo a
disposizione la gestione e i secondini di questo campo in mezzo
alla campagna: “Ancora qui? – ride il ragazzo in camice bianco -.
Ah, ah, ti sei appena fatta un mese. Adesso te ne rifai un altro”.
Dopo 30 giorni di detenzione, gli immigrati che non ottengono i
documenti dai loro consolati devono essere rilasciati. Puo’ essere
uno stratagemma per evitare il rimpatrio. Ma due mesi in via Corelli
possono portare al suicidio. I ragazzi con le tute della Croce Rossa
lo sanno e danno le disposizioni, aiutati dagli agenti della scorta:
“Adesso, due per volta, vi porteremo in un container dove vi
spoglierete completamente e sarete perquisiti. Tutto quello che
avete nelle tasche dovete metterlo in un sacchetto, che
conserveremo noi. Anche la cintura, gli accendini. Dentro potete
portare solo i soldi, le schede telefoniche e i cellulari, se li avete”.
Interviene il ragazzo con il camice da infermiere: “Ma anche tu sei
gia’ stata qui? Vedi, che ti ho riconosciuta?”. E la seconda ragazza
del gruppo, anche lei albanese. E tranquilla, perche’ sa che uscira’
presto: aspetta un bimbo, da un mese. “Allora – dice un graduato
della polizia – tu prima lavoravi sul marciapiede e adesso ti sei
sposata”. “Si’, con un italiano”, risponde la ragazza. “Bel cretino”,
la zittisce il poliziotto.

Seduti su sei sedie di plastica bianca in un capannone gelido,
aspettiamo la perquisizione. Le due ragazze vanno per prime. Poi
tocca a Ibrahim, 29 anni, un macedone sorpreso in mattinata a
Legnano a chiedere monetine ai semafori, e a Khaled, 23 anni, che
dice di essere iracheno e ha appena perso un lavoro in nero come
meccanino in un garage milanese: “Telefonare al mio padrone?
Inutile – spiega durante l’attesa -. L’accordo era che se mi trovava la
polizia, perdevo il posto. Sono un clandestino. Ma quattro mesi fa
sono gia’ stato nel centro di Roma. E dopo 30 giorni hanno dovuto
rilasciarmi”.
Ritorna un poliziotto: “Ladu e Astrit”, chiama. Astrit e’ un albanese
di 24 anni che non ha ancora capito dove si trova. Non parla
italiano e sul furgone gli agenti gli hanno fatto pensare che lo
stavano portando in un istituto di assistenza. Il container della
perquisizione e’ gelido come il capannone, ma soprattutto sporco.
Un agente apre la finestra. “Che fai? – gli chiede il collega -. Questi
si devono spogliare”. “Si’, ma puzzano”, e’ la risposta. Qualcuno,
come Khaled che indossa ancora i jeans da lavoro, si e’ fatto 20
ore in questura seduto su una sedia, senza poter mangiare, ne’
fumare, ne’ telefonare anche se per legge resta un uomo libero. Si
e’ tutti un po’ sudati. Ma l’odore sale dal pavimento lurido. E la
finestra resta aperta. “Fuori tutto quello che avete nelle tasche –
ordina l’agente -, toglietevi le scarpe e rovesciatele sul pavimento”.
Astrit improvvisamente capisce: “Io qua torna casa?”, e si dispera
picchiando un pugno sulla parete.
La visita medica e’ una farsa. Ritorna il solito infermiere corpulento.

“Ladu, seguimi”. Il dipendente della Croce Rossa entra per primo
nell’infermeria: “Questo qua, dot – dice al medico – non ha nessuna
malattia. Pero’, come gli altri, c’hanno addosso un profumino”. Non
sanno che capisco quello che dicono. E nessuno mi aveva chiesto
del mio stato di salute. La pressione sanguigna viene presa a
spanne, arrotolando sul bicipite le maniche di una maglietta, una
camicia di jeans, un maglione di lana e il giubbotto di jeans: “No,
no per carita’ – ridacchia l’infermiere -, non toglierti niente”.
Nuova attesa nel gelido capannone. Astrit abbassa la faccia e
cerca di nascondere una lacrima, che a piccole tappe scivola
dall’occhio al mento. Dorina piange ancora. L’altra ragazza viene
richiamata in infermeria e abbandona per sempre il gruppo. “Ladu
prendi, in questo sacchetto ci sono il pane e le posate per te e per
lui – dice un altro ragazzo della Croce Rossa indicando Khaled -.
Dormirete nel container numero 6″. Le ultime consegne sono la
coperta di lana, il sacchetto con lenzuola e federe di carta,
spazzolino, una felpa blu con la scritta “Dono della Croce Rossa
Italiana” e un cartoncino rettangolare identico a quelli che una volta
si usavano per i pacchi postali: “Ladu, mi capisci? Tu sei il numero
2-5-8. Questo cartellino ti servira’ per ritirare la cintura che teniamo
noi. Prendi invece i soldi. E cos’hai qui, una penna? No, questa
non puo’ entrare”. Sono le regole: gli ospiti della gabbia possono
telefonare, se hanno soldi, ma non possono nemmeno scrivere una
lettera a casa.

Il cancello della gabbia si apre scricchiolando. E si richiude con un
colpo secco. Da questo momento per la legge si e’ sempre liberi
cittadini: ma da qui non si puo’ piu’ uscire. La polizia resta fuori.
Solo la Croce Rossa entra. Un piccoletto muscoloso con gli occhi
sottili da indio delle Ande sbarra l’ingresso del container numero 6:
“No aquí non se puo’. I marocchini sono piu’ avanti, noi siamo gia’
in sei”, protesta. Poi cede. Ci mostra le due brande libere, con i
materassi sudici e macchiati. Altri due sistemano il tavolino da
giardino per farci cenare. I pasti, precotti, sono serviti in contenitori
di plastica scaldati dalla Croce Rossa in un forno elettrico. La
puzza di urina e’ come uno schiaffo. Colpa di chi ha progettato i
container: la latrina e’ talmente piccola che per chiudere la porta
bisogna mettere i piedi dentro la turca. Quando si esce, le suole
distribuiscono sul pavimento il liquame raccolto. Anche perche’
questi container li hanno si’ presi dalle zone terremotate: ma da
quelle dell’Irpinia, 20 anni fa, come indicano le etichette sopra gli
ingressi. Dalla minidoccia, separata solo da una tenda, salgono
odori di umidita’, shampoo e sapone. Mangiando li’ accanto, ci si
presenta. Il piccoletto viene dal Peru’. Altri due dall’Ecuador. Uno
coi baffoni dalla Moldavia. Il piu’ vecchio, 50 anni, che chiamano
Zio, dalla Serbia, ma da 9 anni abita a Milano. E il sesto,
pettinatura curata, sulla quarantina, e’ un kosovaro. Comincia il
conto alla rovescia per Khaled. La prima di trenta serate: “Io spero.
Sono del Nord Africa – confessa dopocena – ma se questa volta mi
mandano a casa, non torno piu'”. Non c’e’ niente da fare. Si
passeggia su e giu’, come i leoni nello zoo. La grande gabbia e’
lunga 135 passi e larga 70. Sul lato destro gli otto container per
uomini. Dei dieci a sinistra, uno ospita ragazzi e ragazze cinesi, i
piu’ silenziosi. In due, dormono ragazze albanesi. Dagli ultimi tre in
fondo, in una recinzione chiusa a chiave solo di notte, vanno e
vengono giovani immigrate dell’Africa centrale: quasi tutte raccolte
dalla strada. Gli ultimi due container in mezzo sono quasi invisibili,
nascosti da un’altra recinzione a piccole maglie. E’ lo spazio dei
travestiti, isolati nella loro diversita’: 23 passi per 23. Un effetto
ottico del recinto riduce il loro campo visivo a una cinquantina di
centimetri. A destra e a sinistra la vista e’ ostruita da una barriera
grigia. Ma si sono arrangiati: con le lenzuola di carta hanno
costruito una rete, da un container all’altro, per giocare a pallavolo.
Si distinguono subito quelli arrivati qui dopo una detenzione in
carcere. Camminano e parlano affiancati, in due o tre, e quando
arrivano in fondo al piazzale si girano di scatto per ricominciare
nella direzione opposta. Come nelle ore d’aria. Due dei tre telefoni
a scheda non funzionano. Il distributore di schede telefoniche e’
fuori servizio e anche quello delle monete. La macchinetta delle
bibite, invece del te’, versa acqua calda zuccherata. Il locale tv e’
sporco e spoglio. Sui muri i messaggi d’amore di una ragazza
croata, Gordana. D’odio: “Vafankoulu Italia”. E di sopportazione:
“La vie est dans sa souffrance”, la vita e’ nella sua sofferenza.

Il televisore viene portato qui alle 17. Ma alle 23 la Croce Rossa se
lo riprende e chiude a chiave i locali, fino al giorno dopo. Si rientra
nei container, per il contrappello. Poi, chi vuole, torna fuori al gelo.
Altri si sdraiano sperando che il sonno prenda il sopravvento sui
rumori e la luce. I piu’ fortunati, se cosi’ si puo’ dire, fanno l’amore,
nascosti solo dalla penombra, senza intimita’. Nel caso di alcune
scritte sui muri era amore vero. In altri semplice passatempo. Per
alcune delle ragazze, la normale continuazione di un lavoro. Ma i
piu’ poveri, senza soldi, restano esclusi anche da questo. Nella
grande gabbia si vive alla giornata e nessuno pensa all’Aids.
Nemmeno le gravidanze spaventano. Chi scopre di essere incinta
riottiene la liberta’. E quasi sempre corre ad abortire. Sono i
bambini di via Corelli, che non nasceranno mai.

Fabrizio Gatti