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Isole Canarie – Terzo sabato di proteste a Tenerife

La marcia chiedeva la libertà per le persone in transito detenute sulle isole

Photo credit: Mattia Iannacone

Tenerife – Da 20 giorni circa 50 persone dormono accampate di fronte al CETI (Centro de Estancia Temporal de Inmigrantes) di Las Raices, per denunciare le condizioni precarie della struttura.

Photo credit: Mattia Iannacone
Photo credit: Mattia Iannacone

Nell’ultima settimana più di dieci pullman hanno raggiunto l’ex caserma militare di Las Raíces, che si trova in un’area isolata vicino all’aeroporto dell’isola, ad alcuni km dalla città. Le grandi tende, che ospitano attualmente circa 1.300 persone, sono sovraffollate e quando piove si allagano. All’interno del campo non c’è acqua calda per lavarsi, il cibo è insufficiente e l’assistenza sanitaria è inadeguata. Inoltre, mentre nell’isola si rispetta un coprifuoco dalle 23 alle 7, i cancelli del campo sono chiusi dalle 21 alle 10.

Il Plan Canarias, lanciato lo scorso novembre dal ministero dell’inclusione canario, ha disposto l’apertura di sei campi (denominati CETI) per ospitare circa 7 mila persone in transito, che precedentemente alloggiavano negli hotel colpiti dal Covid-19.

I campi non sono un luogo sicuro, tanto per la forma di violenza psicologica che esercitano sulle persone, quanto per i continui abusi della polizia, che dall’inizio delle proteste ha attuato a Las Raices una dura repressione, attraverso decine di arresti ingiustificati e aggressioni arbitrarie all’interno del campo.

Il 6 marzo, nel terzo sabato di proteste, più di duemila persone hanno marciato sotto la pioggia con lo slogan “Migrar no es un delito” per denunciare le politiche discriminatorie del governo spagnolo e dell’Ue che stanno bloccando da mesi migliaia di persone alle Canarie, costringendole ora a vivere all’interno di campi le cui condizioni sono disumane e disumanizzanti.

L’esternalizzazione della frontiera, favorita dal nuovo patto dell’Ue sulla migrazione e l’asilo, mira a immobilizzare le persone ai confini europei in spazi di detenzione, ovvero luoghi asettici e di attesa, isolati per facilitare l’emarginazione di chi li abita e che creano una condizione di costante incertezza. L’accampamento di Las Raices costituisce uno spazio di resistenza per le persone in transito che si trovano a Tenerife, fuggite dai propri paesi d’origine proprio a causa delle politiche coloniali ed estrattiviste della stessa Ue che impedisce loro di ricercare un futuro migliore in Europa.

Photo credit: Mattia Iannacone
Photo credit: Mattia Iannacone

Accordi di partenariato per la pesca sostenibile

La crisi economica mondiale causata dalla pandemia non ha arrestato infatti i processi di globalizzazione economica e commerciale imposti dai paesi occidentali ai paesi impoveriti. Ne sono un esempio gli accordi di partenariato per la pesca sostenibile, noti come SFPA (Sustainable Fisheries Partnership Agreements), siglati dall’Ue con 12 paesi africani. Si tratta di accordi travestiti da cooperazione, che sulla carta promuovono la gestione sostenibile delle risorse, la ricerca scientifica e la protezione della biodiversità marina.

In realtà gli effetti di tali accordi sono tutt’altro che sostenibili: la pesca eccessiva ha provocato gravi danni nelle acque dell’Africa occidentale, dove c’è un sovra sfruttamento di oltre il 50% dello stock.

Photo credit: Mattia Iannacone
Photo credit: Mattia Iannacone

Il paese che più ha risentito della pesca intensiva delle flotte europee è il Senegal: la FAO stima che il 90% delle risorse ittiche al largo delle sue coste siano esaurite o sull’orlo del collasso. La pesca eccessiva non solo ha un alto costo ecologico, ma mette in pericolo i mezzi di sussistenza e la sicurezza alimentare di milioni di persone nelle comunità costiere che dipendono da stock ittici sostenibili. Infatti mentre le moderne navi europee possono catturare massicciamente il pesce nelle acque costiere africane, in paesi come il Senegal la pratica artigianale rappresenta il 76% (contro il 24% di quella industriale) e i pescherecci dei pescatori locali non possono far fronte alle sofisticate tecniche di pesca delle flotte industriali europee.

La mancanza di opportunità di lavoro costringe molte persone a migrare verso l’Europa attraverso rotte pericolose che causano migliaia di morti ogni anno. La riattivazione della rotta canaria ha spinto molte persone, che prima vivevano di pesca, a intraprendere il viaggio con le loro stesse imbarcazioni, inadeguate a un viaggio così lungo e rischioso. Secondo la ong Caminando Fronteras, nel 2020 questa rotta ha raggiunto un tasso di mortalità del 32,1%.

Photo credit: Asamblea de apoyo a migrantes en Tenerife
Photo credit: Asamblea de apoyo a migrantes en Tenerife

Mattia Iannacone

Mi chiamo Mattia, vengo da Novara e mi sono laureato in scienze politiche a Padova. Ho avuto diverse esperienze in frontiera come attivista in Italia, Spagna e nei Balcani. Attualmente vivo a Bologna dove studio antropologia.